“Ti jos, dili”: sonorità del dialetto friulano

La funzione del suono nella poesia Dili, la Poesie a Casarsa di Pier Paolo Pasolini.


Alessia Borriello


Pier Paolo Pasolini è alla ricerca di una “cripta”, come la definisce in un suo saggio M.A. Bazzocchi1, un fantasma e una promessa di vocalità, che sprigioni la personalità di una cultura e la svincoli dalle forze esterne omologatrici.
Secondo Bazzocchi tale ricerca porta Pasolini all’assunzione del dialetto che, come una tomba, custodisce le lingue passate, trapassate proprio e soltanto come trascorse, cullandone però di future, ancora capace di produrre ricordo ed erotismo (linguistico, ma anche fisico). Il dialetto diventa pertanto cimitero e promessa di vocalità. Perciò se il dialetto può fare da origine ad altre nascite diffuse nel tempo – perché muove da un fondo vivo, fisico, coinvolto in un moto e in un suono – l’italiano standardizzato della modernizzazione, cioè la parola applicata alle cose dal di fuori delle cose stesse, è assolutamente sterile e infecondo.
D’altra parte, secondo Pasolini, ogni lingua orale si porta dietro una memoria collettiva, comprendente anche una dimensione inconscia, coniugando il problema della linguistica a quello della psicanalisi. Bisogna pertanto vedere nella parola poetica il solo ruolo legittimo, connaturale, quello di strumento di accesso a una cripta di valori. Se la cripta in oggetto è però sigillata da una sconsolante storia – quella friulana-, la parola ne resta tuttavia il sostitutivo sonoro, vivo, ancora fruibile.
Andiamo a verificare tali affermazioni sull’analisi di un testo poetico della raccolta Poesie a Casarsa. Si tratta di “Dili”; ci soffermeremo in particolare sugli aspetti sonori e sul procedimento analogico che porta da un piano meramente descrittivo a uno evocativo.

Dili
Ti jos, Dili, ta li cassis
a plòuf. I cians si scuníssin
pal plan verdút.
Ti jos, nini, tai nustris cuàrps,
la fres-cia rosada
dal timp pierdút

Dilio
Vedi, Dilio, sulle acacie
piove. I cani si sfiatano
per il piano verdino.
Vedi, fanciullo, sui nostri corpi
la fresca rugiada
del tempo perduto.

Il testo è interamente intessuto di connessioni, e se ne dilata, a partire da “tocchi impressionistici” iniziali.
Tra queste la connessione fondamentale, dalla quale si generano tutte le altre, mette in contatto il piano umano con quello naturale circostante tramite un passaggio che investe gli aspetti sonori e visivi. Questa connessione è collocata alla fine della prima terzina. Essa agisce da “pompa di aspirazione” per ogni altra immagine della poesia: la componente più densa e corposa di ogni dato descrittivo riportato dal poeta ne è risucchiata, richiamata a quell’impronta iniziale. Perciò il punto centrale del componimento è anche il punto più esplicito, che modella a sua somiglianza l’intera poesia.
L’elemento visivo è dato da “verdùt”, quello sonoro da “scunìssin”.
Questi due dati, pur non costituendo una sinestesia in senso proprio, vengono visualizzati insieme dal lettore.
Il colore verde nella sensibilità pasoliniana assume di norma due versi e due direzioni: positivo o negativo, nella natura o nell’uomo. In natura il verde è distensione e rinascita se incontaminato; spirito di sopravvivenza, se captato come affioramento a stento, che annaspa, fra grandi stralci di grigi. (Questo avviene in particolare nei grandi scorci periferici o nella rappresentazione di veri e propri cumuli di rifiuti nelle zone d’industrializzazione più serrata – ci si riferisce prevalentemente all’esperienza postfriulana).
Il segno positivo nel verde umano si distende temporalmente
nella zona della gioventù. Ha valenza negativa quando è segno della fatica del vivere, e dello stallo irreale di questa fatica, sui volti che essa chiama a testimoni del suo tono generale di sommissione. “nelle calde / sere riverberanti della Bassa o nei / bianchi mattini gelati nei canali / vanno i tuoi pescatori verdi di veglie, / a cui arrossa le rozze rughe il sale […]” (Ceneri di Gramsci, Quadri Friulani).
Ora, in questo testo il verde sembra imboccare una direzione che lo avvicina alla pioggia riprodotta nei primi due versi: risulterebbe quindi segno in positivo della distesa di vegetazione ma come appannato, fiaccato dal nuvolone che causa la pioggia e di cui quasi è sensibilmente percepibile l’ombra che cerca di sfondare il perimetro del “plan verdùt” (meglio “verdino” che “verde”) per allargarlo indefinitamente.
Ma si veda scunìssin (“abbaiano”): se avulsa dal contesto la parola è un suono secco, duro, isterico. Il lettore dovrebbero immaginare che sostituisca il suono di un’abbaiata. Tuttavia essa instaura un legame fortissimo col suo sfondo, il “plan verdùt” che, nell’aprire un grande spazio, ammortizza il suono stesso. Da un “suono che incide” diventa un “suono che dirada”. D’altra parte, è la sonorità della parola stessa a riempire il piano: le s sorde dell’abbaiata e le vocali aperte del silenzio (a, u) combaciano, collimano, permettono al poeta di congedare la terzina.

Lo sfiatarsi dei cani per il piano verdino è l’unica immagine non “evanescente” della poesia. Senza di essa la poesia non è incisiva, attenuandola perde i suoi picchi verso l’alto e il basso.
L’accento tonico alla fine delle due terzine, tronco a differenza degli altri, conchiude la visuale illustrata dal poeta. Se nella prima terzina la coerenza del disegno risiede nel paesaggio, nel suo dato reale, il verso tronco della terzina seguente mette in atto per la seconda volta quella stessa coerenza e compiutezza.
Perciò la riflessione del poeta rivolta al fanciullo conquista la stessa oggettività del paesaggio: la scandisce un identico ritmo.
Ma questa presunta oggettività è solo il pretesto per un rovesciamento del tutto interno alla poesia: lo rivelano i punti di vista dell’io lirico. Tutto lo sguardo del poeta sembra fornire dati dal punto opposto a quello che ci si aspetta: “Vedi, Dilio”, è l’invito a seguirlo con gli occhi: lo sguardo lirico abbraccia il piano, il colore e il suono del paesaggio che il poeta riporterà ridotto ai minimi termini. Cioè i propri termini poetici. E questo rientra nel naturale filtraggio lirico. Ma “Vedi, fanciullo” è l’invito a una sfumatura
aggiuntiva, a frapporre un altro filtro alla visione del reale, come uno spesso obiettivo di vetro opaco: il “nini” non è più Dilio, ma la sua categoria di essere ragazzo, e la ripetizione da un lato ammannisce il secondo invito, dall’altro ne garantisce la parentela al primo. Ma dove ci s’aspetterebbe di riavere un piano verdino, forse sfumato o a macchie di leopardo per lasciare spazio al lirismo, la fotocamera è rovesciata, e presenta una contemplazione nitida da parte
dell’io narrante su sé stesso e sull’interlocutore. Il tutto legittimato dal ritmo: su “verdùt” e “pierdùt” cade l’identico accento tronco conclusivo. Anche Dilio sembra rimanere impassibile mentre viene privato del suo nome, purché dentro quelle identiche virgole esso venga trasposto alla terzina successiva. Non è utile soffermarsi sul senso profondo della riflessione della seconda strofa, ma si veda il tono del sintagma e la sua dimensione narrativa: tutta la lettura non può che rispondere a quel primo invito, “ti jos”, suadente nel tono come nell’intenzione (“ti jos” morfologicamente non è imperativo, ma invita l’intonazione ad indirizzarsi a Dilio). D’altra parte tutta la poesia sembra risolversi in questo intento di comunicare con Dilio; come se l’unità minima della poesia non fosse un’immagine o un accento, un verso, ma un solo verbo che si riduce a interiezione e in questa raccoglie la forza della propria espressione.
Perciò più ancora che agli espedienti della lingua Pasolini ricorre alla fascinazione di una promessa narrativa: è atavico, ancestrale questo ponte di comunicazione fra il poeta e il ragazzo, e l’anafora all’inizio delle terzine imbocca il percorso analogico non solo per la ripetizione dello schema ma per l’identico tono marcato di cui impasta i fonemi (anche il verso sembra non tenere, sottendersi al tono: “ta li cassis a plòuf” e “tai nustris cuàrps” si equivalgono
perfettamente e l’enjambement del primo potrebbe quasi essere ignorato).

Tuttavia questi fonemi fanno argine al fascino narrativo, ne limitano
l’estensione sonora che, a partire dal “jos”, sembra intenzionata a investire anche l’immagine. Occorre un suono sordo: le s costituiscono le pareti entro cui le vocali scorrono e si allargano: questa parete si erge con più visibilità in quell’abbaiare dei cani che prima abbiamo connesso al colore, “I cians si scunìssin”. Ora è compiutamente comprensibile il ruolo di questo dato come snodo dell’analogia fra la prima e la seconda terzina: lo stesso ruolo di argine e di approdo che aveva il verso tronco. Nella prima terzina la t di “verdùt” è la chiusura rispetto alle s sorde di “cassis”,”cians si scunìssin”. L’indagine oltre il dato sensibile è interdetta. Nella seconda terzina l’indagine viene invece lasciata fluire assecondando la s sonora: si tratta di un’indagine sul sensibile ma compiutamente sopra il sensibile, sull’onda di un flusso sonoro fluido e vibratile: si tratta di quell’uso della parola come luce e rivelazione sottolineato
da Bazzocchi, che Pasolini stesso descrive come “il tenue legame che ci unisce, uomini, sopra la superficie di quel non essere che si stende da ogni parte intorno a noi, dentro il quale il corpo non può, ma come?, dileguare coscientemente”.
Si deve inoltre sottolineare che l’indagine è sul tempo: attraverso l’osservazione di una goccia di rugiada il presente del paesaggio diventa il presente del ricordo. La “frescia rosada” indebolisce la materia che si alleggerisce nel suono. Se poi la seconda strofa è contemplazione del tempo perduto, quindi un rivolgimento all’indietro, quel ricordo s’incurva sulla superficie della goccia di
rugiada nel presente; sulla sonorità di “rosada”.

Confronto con la riscrittura di La nuova gioventù

“DILI
Veciu frut di Ciasarsa
e dal mond, mijàrs di òmis
a van fra Roma e il mar.
Nissùn no ú somèa. Nissùn
a sa che tu ti sos il siun
di un cuàrp, capa cuntra il mal’”


In La nuova gioventù, in cui Pasolini riscrive nel 1974 i testi friulani giovanili constatando l’illusorietà del sogno friulano e dell’armonia tra uomo, natura e paese allora ricercata, lo scadimento sentimentale investe anche il suono. Un vocabolo come “rosada” diventa improponibile: è proprio da quella parola, udita casualmente durante uno dei tanti soggiorni a Casarsa, che secondo il racconto del nostro autore sarebbe scaturito il proposito di comporre poesia nel dialetto locale forgiando una lingua poetica inedita. Si usano piuttosto parole brevi e aspre che sembrano refrattarie alla sonorità, a lasciarsi
ridurre a un unico filo, ma che emergono in solitudine. Le “c” e le “u” conferiscono un tono marcatamente rustico, e l’allusività della prima poesia a Dili è sostituita da una rassegnazione, una rabbia di sapore contadino.
Riprendendo l’ipotesi di Bazzocchi, da cui siamo partiti, la ricerca della “cripta” è pertanto fallita, all’altezza degli anni ’70 Pasolini è convinto che il dialetto friulano non possa contrapporre alla lingua nazionale alcun valore culturale originario né farsi forza rigeneratrice. Pertanto anche la sua forza vocale e la sua espressività sonora devono ripiegarsi stancamente all’interno del conglomerato di suoni ostile e proprio della globalizzazione.

NOTE
1 Bazzocchi M.A., Pasolini e il fantasma della vocalità, in: Pasolini e la poesia dialettale, Marsilio, Venezia 2014, pp. 19-28


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Pasolini P.P.(2003), Tutte le poesie, Mondadori, Milano.
Pasolini P.P (1999) La meglio gioventù, Salerno Editrice, a cura di Antonia Arveda.
Bazzocchi M.A. (1998), Pier Paolo Pasolini, Mondadori, Milano.
Bazzocchi M.A., Pasolini e il fantasma della vocalità, in: Pasolini e la poesia dialettale,
Marsilio, Venezia (2014), pp. 19-28.


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