Quando i contadini erano biondi: la “battaglia del grano” nella propaganda del regime fascista,
Meris Gaspari
- L’homo rusticus, espressione di italianità.
Per noi, abituati ad un linguaggio pubblicitario sempre invadente, spesso volgare, di rado intelligente, mai ingenuo, osservare i manifesti propagandistici della prima metà del Novecento risulta molto divertente. Ci paiono così semplici e diretti da rasentare la sprovvedutezza. Si provi a guardare il manifesto del VII Concorso nazionale per la vittoria del grano (fig.1). Protagonista ne è un giovane contadino, abbronzato e vigoroso, con folti capelli chiari e lineamenti fini: orecchie piccole, occhi a mandorla, naso all’insù, labbra turgide. La camicia è aperta e mostra, al di sotto del collo possente, l’ampio torace. Col braccio destro conduce una coppia di buoi, pacati ma vigorosi, e col sinistro stringe un covone di fulve spighe rigogliose. Sullo sfondo un campo di grano dorato e un cielo terso. Forza, determinazione, orgoglio, giovinezza, salute in questo Brad Pitt della campagna italiana dei primi anni Trenta, vero archetipo del contadino chiamato dal regime a combattere una grande battaglia e, insieme, a fungere da modello all’italiano nuovo.
Nella realtà i contadini italiani dell’epoca erano un po’ meno atletici e un po’ meno biondi. Si veda l’effetto ottenuto con la fotografia pubblicitaria di seguito riprodotta (fig. 2). Anche se scelto, il testimonial del prodotto da propagandare risulta ben più aderente al vero e non va oltre un soggetto di età indefinita, capelli scuri, orecchie carnose, naso pendente e labbra infossate. Solo il covone di grano materializza il sogno del manifesto, anche se, a onor del vero, le spighe sono un po’ più striminzite. La camicia a piegoline, secondo l’uso dell’epoca, nasconde un torace di non chiare proporzioni. Da non trascurare è la didascalia che ci sprona a vedere nell’uomo un “fante della battaglia del grano” e richiama il valore della famiglia. Insieme al Nitrato di soda si vende un po’ di ideologia del regime.[1]
Lo stesso Duce, “condottiero della Battaglia del grano”, aveva dato il suo contributo al consolidamento del mito ruralista, forte della sua ascendenza contadina, non solo calandosi nei panni celeberrimi del trebbiatore, come si vedrà più avanti, ma vantandosi di essere un “rurale”, un “figlio della zolla” e ammettendo di avere nostalgia per i paesaggi agresti della Romagna. Aveva un bel dire Prezzolini che il Duce era nato dal ferro di una bottega di fabbro ed era cresciuto tra le ciminiere delle fabbriche milanesi.
Il regime fin dai primi anni celebrò il contadino, l’homo rusticus delle nostre campagne, come il prototipo del nuovo italiano, “la migliore e la più sana e più sicura varietà dell’Homo sapiens“. I valori contadini dovevano modellare la società tutta perché l’Italia potesse prosperare. Erano i valori della laboriosità, del coraggio, della austerità, della pazienza, dell’ubbidienza, della dedizione.
E’ virtù precipua del Capo del Fascismo, vedere nel contingente il necessario che lo determina e lo risolve, ed il precetto di Lui: Ruralizziamo l’Italia,…, non può interpretarsi se non nel senso di restituire a tutto il popolo italiano il culto e la pratica di una vita semplice, austera, affrancata dai lussi snervanti e dissipatori, laboriosamente decisa a considerare con disprezzo e a fuggire ogni superfluità, ogni comodo costoso, ogni mollezza che distragga danaro dal risparmio delle famiglie.
La morale domestica delle famiglie rurali, deve essere la morale dell’intera nazione.
Dalla pratica di essa dipendono: l’incremento della popolazione, e l’assetto economico generale.[2]
Al mito ruralista si affiancava un acceso antiurbanesimo[3], sostenuto soprattutto dalla stampa quotidiana. Luogo di malattia fisica, morale e spirituale, la città era angusta, buia, affollata, promiscua, destinata a produrre corruzione, vizio, misantropia, nevrosi e disperazione.
L’antitesi città-campagna, con quest’ultima connotata da pace, serenità, bellezza e laboriosità, è un topos letterario tra i più antichi e durevoli. Zunino fa notare che ancora nel secondo Ottocento poeti della fama di Carducci perpetuavano la contrapposizione e che a lui si univano anche uomini politici come Ricasoli. Nel Novecento non solo il fascismo italiano fece suo il ruralismo ma tutti i regimi autoritari si trovarono d’accordo nel celebrare i valori della terra
Quando poi si giunge in prossimità dei regimi totalitari dell’Europa tra le due guerre la retorica ruralista cessa di essere un motivo accennato qua e là, divenendo la tambureggiante colonna sonora di tutti i fascismi. Dalla Germania nazista alla Francia vichyssoise il “ritorno alla terra” è un incontro ideologico obbligato.[4]
Si può convenire con lo studioso che ai ceti sociali privilegiati, fruitori della produzione letteraria nonché della proprietà della terra, piacevano l’immobilismo e la subordinazione delle popolazioni contadine e non risultava difficile la celebrazione delle loro virtù. Ma l’effetto era il medesimo sui contadini?
Chi davvero zappava i campi non doveva entrare in risonanza all’ascolto degli inni che si scioglievano a Cerere.[5]
Nell’uso linguistico, consolidatosi da secoli, termini come “villano” e “cafone” lasciavano trasparire ben altra interpretazione del mondo delle campagne. A ben guardare il mondo contadino presentava forti ambivalenze e, quando esplodeva in forme imprevedibili e violente, veniva assai temuto. L’ultima volta in Italia era successo con il biennio rosso e l’ordine nelle campagne contro i sovversivi era stato riportato proprio dai fascisti con la connivenza di molte autorità.
Perché allora costruire il mito ruralista all’interno dell’ideologia del regime? Pura demagogia? Convinzione sincera di alcuni esponenti del regime? Esigenza di allargare le basi del consenso? Quest’ultimo motivo pare predominante. Lo stesso Zunino conclude che il mito della terra fu “il primo rilevante tentativo di integrare nello stato quei ceti rurali che non solo prima del fascismo, e non solo in Italia, erano rimasti al margine del sistema politico”.
L’Italia di allora era un paese di contadini, quasi sempre senza terra, che né i socialisti né i cattolici erano riusciti a conquistare, nonostante le mobilitazioni tentate.
…impaludati in una minorità apparentemente senza tempo e senza scampo, politicamente essi [i contadini] erano davvero res nullius.
E’ a questo punto che entra in scena il fascismo ed è di qui che prende avvio il discorso sul ruralesimo nell’ideologia fascista.[6]
Il pifferaio Mussolini, di stirpe contadina, di “animo immutabilmente rurale”, si mise a capo dell’operazione, ideando una grande impresa per il forte e generoso esercito dei rurali: la battaglia del grano. Essa venne, fin dalla presentazione, nobilitata come impresa per affrancare l’Italia dalla servitù straniera. Il contadino italiano per fungere da modello all’uomo nuovo del fascismo dovette trasformarsi in guerriero. Era appena uscito dalle trincee della Grande Guerra. Vi aveva combattuto con sacrificio e coraggio, in spirito di ubbidienza, soprattutto dopo Caporetto: virtù che non potevano che piacere al nascente regime in cerca di consensi. Nelle trincee o in luoghi corrispondenti sarebbe stato riportato prima o poi dalle ambizioni del fascismo. La militarizzazione non stonava. Si dirà che erano soltanto parole. E parole furono per dieci anni ma poi vennero le verifiche. A partire dal 1925 le masse contadine si trasformarono nell’ “esercito dei rurali”, “immenso, ordinato, disciplinato, fedele”, nelle “falangi di militi rurali”; l’iniziativa economica in “battaglia”, in “guerra” coraggiosa contro un “nemico” che, a volte, fu rappresentato dalla natura (siccità, piovosità, scarsa fecondità), a volte, dalle nazioni ricche fornitrici di cereali. I premi del concorso del grano equivalsero a “medaglie al valore”. Il contadino divenne un “fante”, un “combattente”, ma più spesso un “vélite”[7]. Qui si raggiunse l’apice perché fu impiegata la romanità per la trasfigurazione del contadino italiano. Personalmente dubito che la trasformazione in “véliti” sia risultata immediatamente chiara a tutti i coloni italiani e suppongo che alcuni abbiano astrologato non poco sulla natura del ruolo assegnato.
Alla militarizzazione a parole si accompagnò un’intensa campagna educativa perché il “vélite” imparasse a seminare le specie più adatte, applicasse la concimazione naturale e chimica in grado di aumentare la resa, combattesse i parassiti e le malattie delle piante, imparasse ad utilizzare le macchine. A tutto vantaggio dell’industria quindi. Quale mondo fu maggiormente aiutato dal fascismo, al di là delle parole propagandistiche? Buona parte degli storici che hanno analizzato la questione non ha dubbi: la politica economica del regime avvantaggiò l’industria e la stessa battaglia del grano ebbe come risultato che la campagna comprò a caro prezzo i prodotti industriali e vendette i propri a basso prezzo.[8]
Un’ultima domanda è d’obbligo. Ma la condizione di vita reale dell’homo rusticus migliorò? Nell’Italia degli anni Venti e Trenta permaneva la tradizionale distinzione tra chi possedeva la terra, quasi sempre in grande quantità, e viveva in condizioni sociali di agio e privilegio e chi la coltivava, in qualità di mezzadro, affittuario, salariato, in condizioni sociali di disagio per non dire povertà. I coltivatori diretti, titolari di piccole proprietà, erano assai vicini alle condizioni dei secondi e non dei primi. L’homo rusticus, esaltato dalla propaganda, coltivava il proprio campo con le proprie mani e non era quindi un agiato proprietario.
Gli storici sono pressoché concordi nel riconoscere che nel corso del ventennio i contratti dei mezzadri e i salari dei braccianti peggiorarono, i consumi alimentari dei contadini si ridussero e le abitazioni rurali si degradarono. Quanto alla “sbracciantizzazione”, promessa e propagandata con enfasi, si realizzò in forme ridotte e non sempre durature. Inoltre, nonostante l’inurbamento fosse proibito per legge, in quegli stessi anni si assiste ad una diminuzione della popolazione residente in campagna (-10 %) che dimostra che la presa del mito ruralista sulla popolazione non aveva luogo. Venivano stampati opuscoli dal titolo Son contadino e me ne vanto con l’immagine disegnata in copertina di un giovanotto sbarazzino con vanga in spalla, ma i contadini, quelli veri, quando potevano, cambiavano mestiere.
- Obiettivi e risultati della “battaglia del grano”
Nel discorso dell’8 dicembre 1929 alla “festa del grano” a Roma era stato lo stesso Duce a ricordare quando e a che scopo era stata iniziata la “battaglia”.
Camerati agricoltori,
siamo entrati con l’anno VIII nel quinto anno della battaglia del grano. E’ opportuno rinfrescare la memoria e dare uno sguardo al passato prima di procedere oltre. La decisione di intraprendere la battaglia del grano fu presa da me in data 11 giugno 1925… In data 4 luglio fu costituito con R. decreto legge il Comitato permanente del grano. In data 24 luglio fu ristabilito il dazio doganale nella misura di lire 7, 50 oro. Successivamente furono presi ed attuati una serie di provvedimenti, con relativi stanziamenti… Il 30 luglio ricevevo le rappresentanze dei Sindacati agricoli a palazzo Chigi, e specificavo che la “battaglia del grano aveva per scopo di liberare il popolo italiano della servitù del pane straniero”. In data 11 ottobre, nell’allora teatro Costanzi distribuii dei premi agli agricoltori che avevano preso parte al Concorso del grano d’iniziativa privata, e specificavo che si trattava di “aumentare il rendimento medio per ettaro: tanto per cominciare da uno a due quintali”. Quel breve discorso lo chiudevo salutando i contadini “in guerra e in pace quali forze fondamentali per le fortune della Patria”.[9]
Fino al 1925 il governo Mussolini aveva seguito un indirizzo liberista col ministro Alberto De Stefani alle Finanze e Tesoro. Dopo la sua sostituzione col conte Giuseppe Volpi di Misurata fu avviata una politica protezionistica. I due ministri provenivano non dalle file del partito ma dagli ambienti finanziari e industriali favorevoli al regime. Con Volpi l’intervento statale nell’economia si fece crescente e la “battaglia del grano” fu uno dei segni del nuovo indirizzo. L’obiettivo era l’aumento di produzione dei cereali, soprattutto del grano, per affrancarsi dalle importazioni dall’estero, con evidenti vantaggi per la bilancia commerciale. L’autosufficienza cerealicola significava maggiore disponibilità alimentare, che favoriva non solo l’incremento demografico ma anche il “miglioramento della stirpe”. Il recupero di dinamismo e vitalità in quel popolo, che appariva infiacchito e impigrito dopo i fasti della romanità, si sarebbe tradotto in ritrovata combattività per rinnovati destini. Fin dall’inizio Mussolini volle presentare la “battaglia del grano” non solo e non tanto come una questione interna ma come un mezzo per alimentare le giuste ambizioni in politica estera. Solleticando l’orgoglio nazionalistico il Duce la presentò come un’occasione di affermazione del prestigio italiano nel mondo e uno strumento per avere libertà di movimento nello scacchiere internazionale. Gli agricoltori italiani diventavano protagonisti di un’impresa di grande rilievo nazionale e internazionale. La “battaglia del grano” sosteneva e accompagnava la “battaglia demografica” e preparava “quota novanta”, vale a dire la rivalutazione della lira.
Si cominciò con l’inasprire il dazio sull’importazione dei cereali per favorire e stimolare la produzione nazionale. Nei primi anni fu ripetuto che l’aumento della produzione doveva essere raggiunto con un miglioramento della resa produttiva e non con un’estensione della superficie coltivata. A questo scopo il regime varò iniziative propagandistiche come i concorsi nazionali e provinciali per la vittoria del grano. Il primo fu bandito il 1° marzo del 1924, ogni anno venne riproposto e da ultimo esteso anche alle colonie. Per l’occasione furono commissionati manifesti propagandistici chiari ed efficaci. Il concorso prevedeva come premi medaglie d’oro, vermeil e argento per i proprietari e somme di denaro per i coloni, a cui andavano anche doni messi in palio in aggiunta da banche o associazioni, in forma soprattutto di attrezzi agricoli. La consegna avveniva in forma solenne, soprattutto per la gara nazionale, quando era lo stesso Duce a premiare i benemeriti a Roma. Furono favorite anche campagne “didattiche”, attraverso la stampa, il cinema e, più tardi, la radio, per indurre l’agricoltore a piantare i tipi di grano più adatti all’ambiente, a seminare nelle forme più funzionali alla resa, a fare uso di concimi naturali e chimici, a combattere i parassiti e le malattie delle piante, ad utilizzare le macchine. Per questa via anche le industrie chimiche e meccaniche venivano coinvolte ed avevano i loro utili.
In un secondo momento, quando diventò chiaro che stava aumentando anche la superficie coltivata a grano, al servizio della “battaglia del grano” fu posta anche la bonifica integrale. Il progetto di risanamento e valorizzazione delle aree paludose e malariche si collocava all’interno di un ambizioso piano di lavori pubblici, volti a modernizzare il paese e ad assorbire manodopera disoccupata. Il piano fu preparato da un economista di valore, Arrigo Serpieri, allora sottosegretario all’Economia nazionale, e fu ufficialmente avviato nel 1928. Nel corso degli Anni Trenta furono bonificate aree del Tavoliere pugliese, della Maremma, del Campidano, del Basso Volturno, dell’Agro Romano e Pontino. L’operazione fu sostenuta da una campagna propagandistica insistente. Soprattutto la bonifica delle paludi pontine, che la retorica ufficiale preferì citare come “Agro redento”, permise ai giornalisti di regime di mostrare come a Mussolini fosse riuscito ciò che per venticinque secoli, da Giulio Cesare a Napoleone, si era tentato senza successo. Tra gli animatori del piano fu il conte Orsolini Cencelli, Commissario del governo per l’Opera nazionale Combattenti, a cui era stata demandata l’operazione. E’ curioso sapere che per evitare che gli operai si infettassero di malaria e il costo umano dell’operazione assumesse proporzioni incontrollabili, prima dell’inizio dei lavori, gli acquitrini venivano cosparsi di un prodotto, chiamato scherzosamente “Verde di Parigi”, una miscela di sostanza tossica e polvere di strada, che creava una patina impermeabile sull’acqua stagnante in grado di soffocare le zanzare. Il regime vantò di aver contenuto al di sotto di ogni più rosea previsione il numero dei morti. Per la riuscita dell’opera furono impiegati mezzi meccanici quali trattori, erpici, schiacciasassi, in grande numero. Nell’Agro Pontino furono costruite tre città (Littoria, oggi Latina, Sabaudia e Pontinia)[10], quattordici borghi e duemilacinquecento case coloniche, ove furono trasferite famiglie contadine da altre regioni, soprattutto dal Veneto. Fu scavata una fitta rete di canali che in parte versavano le acque in mare in parte le volgevano ad una razionale irrigazione del terreno. La coltura prevalente fu il grano. Quel grano è stato immortalato dalle fotografie (un esempio ne sono le lastre nn. 4-5-6-7-8) e dai cinegiornali Luce che propongono il Duce nelle vesti dell’instancabile trebbiatore, come si vedrà più avanti.
Ma, al di là della retorica e della propaganda, quali furono i risultati della “battaglia del grano”?
Se l’aumento di produzione complessiva fu innegabile – in un quindicennio le importazioni furono drasticamente ridotte e la produzione nazionale aumentò del 50% – si deve però sottolineare che i cereali sottrassero spazi alle colture pregiate e ortofrutticole e al pascolo. La riduzione delle aree destinate a pascolo portò ad una riduzione dell’allevamento che si tradusse in un impoverimento della dieta alimentare con ricomparsa massiccia dei casi di avitaminosi tradizionali come la pellagra.
- Altre battaglie per una stirpe guerriera.
Il proposito di trasformare gli Italiani in una stirpe guerriera spingeva il regime ad utilizzare il riferimento alla guerra per ogni iniziativa che coinvolgesse buona parte o tutta la popolazione. Il ridondante linguaggio ufficiale non lesinava soprattutto la metafora della battaglia.
Se, al di là di quella del grano, la battaglia più famosa, quella presente alla mente di tutti, fu quella demografica, altre battaglie, meno famose, si scoprono appena si scorre la stampa dell’epoca. Furono combattute la “battaglia dell’elettricità”, i cui obiettivi sono intuitivi, e la “battaglia della seta”, che premiava tanto i bachicoltori quanto i gelsicoltori, in particolare coloro che avessero con successo impiantato gelsi a cespuglio (immagino per la facilità di raccolta delle foglie per i bachi).
La più esilarante però mi pare essere la “battaglia delle mosche”. L’informazione mi era giunta da una fonte orale attendibile che mi aveva spiegato come la caccia alle mosche avesse assunto non solo un carattere privato, domestico, ma anche una dimensione pubblica, collettiva. Non solo nelle case a cura dei privati ma anche per le strade, nelle piazze e negli incroci, a cura suppongo dei Comuni, si appendevano fasci di rami cosparsi di una sostanza tossica, che attirava le mosche e le uccideva. La mia fonte non ricordava la sostanza. Scorrendo la stampa locale con altro obiettivo mi sono imbattuta in un trafiletto pubblicitario della farmacia S. Lorenzo di Bologna che conferma e fa chiarezza.
La stessa “bonifica integrale” venne presentata come una guerra per la redenzione di terre per secoli improduttive ed esiziali. Scrive bene Piero Bevilacqua:
Se il territorio della Patria era così perigliosamente minacciato da tanti nemici, insidiato in numerosi e delicati siti della penisola, persino oltraggiato nei luoghi della trascorsa grandezza imperiale, poteva il risorto spirito nazionale, rifatto grande dal fascismo, rifiutare ancora una volta la battaglia? Ecco allora che la bonifica assume nella pubblicistica corrente tra le due guerre mondiali, nella stampa, nei film Luce, nel cinema, spesso nella letteratura tecnica, la veste metaforica della guerra. Una guerra destinata finalmente a vincere un nemico che aveva lungamente assediato il territorio italico, ma anche, per la verità, una forma di esercizio bellico, di tipo civile, destinato a preparare le nuove generazioni alle guerre vere…
E quale organizzazione era meglio adatta a un tale compito dell’Opera nazionale combattenti, che sin dalla propria sigla evocava l’attitudine guerriera e l’esperienza trascorsa della guerra vera?[11]
- “Camerata macchinista: accendi il motore!”
Cinema e radio erano i più moderni mezzi di comunicazione dell’epoca, strumenti preziosi per l’operazione di ricerca del consenso, mediante la spettacolarizzazione della politica, che il fascismo volle fare. Essi furono quindi impiegati appena la macchina propagandistica, al servizio della politica agricola del regime, si mise in moto.
Trascuro deliberatamente la “cultura alta” perché essa, per quanto sollecitata a mettersi al servizio del regime anche sul tema della battaglia del grano, non riuscì a produrre alcunché, come avvenne in tutti i totalitarismi. Ricorda Laura Malvano, nel suo agile volumetto dedicato alla politica dell’immagine del fascismo[12], che il Premio Cremona di pittura del 1940 fu dedicato proprio alla Battaglia del grano e non produsse capolavori, come era avvenuto per il tema dell’anno precedente, l’Ascoltazione del discorso del Duce, che aveva visto raffigurate soprattutto famiglie rurali. Più funzionale al mio scopo potrebbe essere un’opera come Le tre semine di Arnaldo Carpanetti, capace di celebrare in un colpo solo la famiglia, l’agricoltura e la guerra.
Ma è fuori di dubbio che, per i propri interventi propagandistici, capaci di raggiungere le masse e colpirne l’immaginario, il fascismo scelse altri media. Non è qui il caso di fare riferimento a ciò che la fotografia e il cinema furono per il regime[13]. Basta ricordare che l’immagine venne sempre ritenuta superiore alla parola, soprattutto al concetto. E’ fuori discussione inoltre che l’iniziativa dall’alto incontrava il gradimento dal basso, come sottolinea Sergio Luzzatto quando parla di “vocazione mitopoietica” degli italiani.[14]
Al mio scopo risultano interessanti soprattutto i cinegiornali Luce, la cui proiezione nelle sale cinematografiche fu resa obbligatoria dall’aprile del 1926[15]. Scrive al proposito G. P. Brunetta.
…per quanto riguarda il documentario grazie alla creazione dalla metà degli anni Venti del Luce il fascismo è il primo regime a esercitare il controllo monopolistico dell’informazione cinematografica e Mussolini il primo capo di Stato capace di costruirsi, quasi giorno per giorno, un monumento alle proprie imprese. Gli operatori Luce rappresentano per anni la realtà italiana come un’enorme scena su cui si irradia, con effetti benefici e miracolosi, il verbo e la luce di Mussolini.[16]
Sono decine e decine i servizi dedicati alle iniziative del governo in campo agricolo e, se i più interessanti sono i numeri monografici La battaglia del grano e Verso la vittoria, il più celebre in assoluto è Il Duce inizia la trebbiatura del grano nell’Agro Pontino del 1938. L’attore Mussolini vi fornisce una delle sue prove più superbe.
Aprilia, Littoria, Pontinia e Sabaudia sono i luoghi delle gesta dell’instancabile Trebbiatore. Gli ingredienti ci sono tutti, sia per rappresentare il cinegiornale-tipo, sia per rimanere per sempre nella nostra mente. Dall’enfasi retorica del parlato alla mistificazione delle condizioni di vita e di lavoro dei rappresentati, alla celebrazione ostentata del capo. Nulla manca. Si comincia con la localizzazione nel tempo (Luglio XVI dell’era fascista cioè 1938) e nello spazio (Aprilia, primo comune visitato). Scorrono davanti ai nostri occhi campi e campi di grano rigoglioso mentre veniamo informati che:
Ad Aprilia, nuovo comune dell’Agro, ha inizio la sagra delle messi della zona bonificata. Sotto il fulgido sole di luglio tutta la campagna che dai monti Lepini digrada al mare è una marea fulva di spighe che ondeggiano dal grembo di quella stessa terra sulla quale, in un tempo che sembra già remoto come una triste leggenda, marciva l’immobilità opaca della palude. Il raccolto granario di quest’anno si annunzia di 200.000 quintali, benché oltre 2.000 ettari, già coltivati a grano, siano stati destinati ad altre colture.
Buoi dalle lunga corna lunate, condotti da contadini, in perfetto costume rurale, sono aggiogati ad una mietilegatrice, che svolge mirabilmente la propria funzione. Le macchine appariranno spesso a testimonianza di una agricoltura che si sta modernizzando. Subito dopo però compaiono all’opera, per la mietitura col falcetto, uomini e donne, con gli abiti della festa e con cappelli di paglia che in testa ad alcune contadine scimmiottano vezzosi i cappellini borghesi delle signore di città. Il quadro è abbastanza improbabile, un set cinematografico piuttosto, ma risponde alla volontà del regime di far apparire la vita laboriosa nei campi una festa gioiosa. Il grano viene stretto in covoni, caricati in carri, al cui seguito camminano lieti i lavoratori: uomini, donne e ragazzi. A dinamizzare la scena idilliaca ci pensa il Capo, che scende tra una folla fitta ed osannante.
Il Duce scendendo tra i camerati contadini ha voluto trebbiare il primo grano di questa terra vergine.
La folla gli si stringe intorno, rapita e plaudente. Intona canti e sventola ramoscelli di ulivo.
La spontanea professione di fede di una contadina confusa tra la folla plaudente:- Dopo di Dio viene Lui. Dio ci dà il pane, Egli ce lo lavora e ce lo difende – compendia con rara, istintiva eloquenza il sentimento di tutto un popolo.
Il Duce, a torso nudo e con ampi pantaloni bianchi, non può sottrarsi al discorso e dall’alto della trebbiatrice Orsi, palcoscenico improvvisato ma quasi paragonabile ad un balcone, davanti ad una folla osannante, celebra il raccolto dell’anno che consentirà l’autosufficienza. Nel filmato rimane solo l’ultima parte del discorso.[17]
“Il popolo italiano avrà quindi il pane necessario alla sua vita. Ma anche se gli fosse mancato non si sarebbe mai, dico mai [interruzione ed applausi della folla], mai, mai piegato a sollecitare un aiuto dalle cosiddette [interruzione ed espressioni di derisione all’indirizzo delle potenze straniere che vorrebbero affamare l’Italia] dalle cosiddette grandi demoplutocrazie.
La folla lo invoca:
Duce, Duce
Il divo con la mimica del corpo che tanto lo caratterizza si concede al delirio.
I calcoli sono falliti. Ma questi nemici dell’Italia, che si sono rivelati per quello che sono sotto la loro ridicola ed abbietta grinta, vanno additati al popolo italiano perché se ne ricordi in ogni tempo e in ogni circostanza di pace e di guerra.
Con voce perentoria, accompagnata da un gesto deciso, Mussolini pronuncia la famosa frase:
Camerata macchinista: accendi il motore [interruzione ed applausi della folla]
Camerati contadini: la trebbiatura incomincia.” [applausi della folla ormai in delirio]
Il Duce indossa una cappello bianco per ripararsi dal sole e grandi occhiali per proteggere gli occhi dalla polvere e dalle spighe.
Mentre la trebbia intona il suo gagliardo corale, a torso nudo, il Duce, esperto trebbiatore, metodico, volonteroso e tenace, inizia il suo lavoro nel podere n. 2585, valorizzato in soli otto mesi dalla tenace operosità del colono ferrarese Ovidio Piva, padre di sette figli, l’ultima dei quali è la prima creatura nata nel Comune e risponde all’augurale nome di Aprilia.
La folla è estasiata.
Oltre un’ora dura la fatica del Capo: otto quintali di grano…
Cambia la scena della seconda fatica: siamo a Littoria.
Nel territorio di Littoria il lavoro riprende al podere n. 377, assegnato al colono vicentino Luigi Cosáro, croce di guerra, capo di una famiglia colonica di quindici persone fra cui undici figli, uno dei quali legionario in Spagna..
Si notino le credenziali del gestore del fondo: valoroso soldato, laborioso contadino, padre prolifico, un uomo instancabile che si distingue in guerra e in pace. Ecco il profilo dell’homo rusticus che piace al regime.
La produzione del podere che misura 12 ettari di superficie risulta di 22 quintali per ettaro [le medie nazionali erano 21 quintali nel Nord, 11 quintali nel Sud].
La fatica è qui anche più dura per il diverso tipo di macchina sulla quale non lavorano le taglierine.
Ma anche qui il Duce, senza accusare la minima stanchezza, trebbia oltre 8 sacchi di grano.
Con gesti sicuri, il Duce slega i covoni, che gli vengono porti non da robusti giovanotti ma da giovani e graziose contadine. Egli spinge con energia le spighe negli ingranaggi della macchina. E’ un continuo rimando di immagini dalle macchine agli uomini, che di volta in volta sono la folla festante o il Capo instancabile, mostrato con piani americani che ne vorrebbero celebrare la prestanza fisica, l’abilità di esperto lavoratore e l’indomabile energia. Le folle sono in rapita ammirazione. Il saluto finale di Mussolini è quello di una rockstar al suo pubblico.
La scena della terza fatica è Pontinia.
Nel successivo podere, il n. 1141, in territorio di Pontinia, che, affidato alle cure del ferrarese Venerando Lucci, capo di una famiglia di 6 persone e padre di un legionario caduto in Spagna, registra una produzione media di 28 quintali per ettaro, il Duce, cui la fatica sembra conferire maggiore lena in un’ora trebbia 11 quintali di grano.
Instancabile, il Duce continua l’esibizione a torso nudo. Mussolini andava fiero del suo corpo, che a noi oggi appare decisamente tozzo e sovrappeso. La sua fisicità dagli operatori Luce è qui esaltata come mai.
La quarta fatica si compie a Sabaudia. Francamente a noi sembra identica in tutto alle altre: folla osannante, Duce seminudo, spighe cacciate a forza negli ingranaggi.
In territorio di Sabaudia una quarta fatica attende ancora l’instancabile trebbiatore, quella nel podere n. 2080, appartenente al colono vicentino Riccardo Cenci, ex-combattente e padre di otto figli, uno dei quali ha partecipato alla conquista dell’Impero. Anche qui il Duce trebbia durante un’ora con la stessa inesausta lena dell’inizio 8 quintali di ottimo grano.
Chicchi di grano come oro nazionale. Il Trebbiatore non demorde.
In 4 ore il Duce ha trebbiato così 35 quintali di grano
Sacchi di grano, folle osannanti, Duce per nulla provato.
Duce, Duce, Duce, Duce.
Le veline del 5 luglio raccomandavano di dare grande spazio alle immagini del Trebbiatore e di insistere sul fatto che, dopo quattro ore di lavoro, non accusava alcuna fatica.
Certo a rivederlo non si può non sorridere ma lo stesso potrà capitare anche con materiali di oggi. Spesso capita già.
- “Con animo immutabilmente rurale”: i discorsi del Duce
Nessun discorso ampio, articolato o sapientemente strutturato è mai stato dedicato da Mussolini alla “battaglia del grano”, a riprova che le parole, scritte o pronunciate, venivano giudicate meno efficaci delle immagini. Mi affido all’edizione definitiva degli Scritti e discorsi di Ulrico Hoepli e faccio una ricerca attenta, anno dopo anno, dal 1925 alla guerra. L’impressione che ne ricavo è che si tratti di discorsi di circostanza che non impegnano veramente chi li pronuncia. Sono inseriti in un rituale, che conta molto di più. Assomigliano tutti, anche perché sono quasi tutti legati alla circostanza che annualmente si ripete, quella premiazione dei “militi” del grano o meglio “véliti” – termine che il Duce preferiva in ossequio alla romanizzazione del linguaggio e dell’animo degli Italiani – che faceva giungere a Roma migliaia di rurali.
Alcuni motivi sono ricorrenti come le lodi dei rurali e delle loro virtù insieme al doveroso ringraziamento della Patria per tanto generoso impegno, il bilancio legato alle condizioni climatiche, soprattutto quando sono state sfavorevoli, la necessità di razionalizzare e modernizzare l’agricoltura, le mete per il futuro. Il tutto viene confezionato e proposto entro immagini tratte dall’ambito militare. Lui, il Condottiero, non nasconde l’appartenenza al mondo contadino, è felice “di essere chiamato agricoltore” e professa ammirazione per le qualità dell’animo rurale in ogni circostanza perché “fra tutti i lavoratori i più nobili e più disciplinati sono i lavoratori della terra”[18] e “i popoli che abbandonano la terra sono condannati alla decadenza”[19]. Propongo questo motivo – certo il più frequente – in due varianti. La prima del 10 ottobre 1926 è una “lode per contrasto”.
Agricoltori!
Credo che gli italiani possano essere “grosso modo” divisi in parecchie categorie…Ci sono quelli che hanno sempre o quasi sul volto insipido la smorfia della sufficienza, che credono di essere dei superuomini e fanno della facile ironia sopra gli avvenimenti e le cose. E’ una categoria spregevole.
C’è un’altra categoria: quella di coloro che si sono incapsulati nella tecnica, gli uomini di un solo libro sul quale leggono disperatamente, confondendo alla fine le lettere dell’alfabeto ed ignorando che al di là di tutti i libri c’è un libro aperto per gli uomini di buona volontà, quello dell’esperienza e della vita vissuta.
Anche costoro nella loro veste di eterni pompieri non sono eccessivamente raccomandabili.
Non mancano coloro, per contrapposto, che eccedono nel senso contrario e che vestono di goffa poesia e imbevono di eccessiva retorica le cose umane e semplici della vita. Costoro sono per lo meno noiosi.
Finalmente ci sono quelli che lavorano, ma che sentono troppo il bisogno di raccontarlo.
Ma coloro che io preferisco infine sono quelli che lavorano, duro, secco, sodo, in obbedienza e, possibilmente, in silenzio. A quest’ultima categoria appartengono i veri, gli autentici rurali della Nazione italiana…
Sono orgoglioso di essere alla testa di questa mobilitazione, io che mi sento profondamente rurale…[20]
La seconda variante, del 4 luglio del 1933, è un tributo alle qualità morali ai lavoratori della terra, che l’oratore vuol dimostrare di conoscere bene.
Dal punto di vista morale, bisogna onorare la gente dei campi, considerare i contadini come degli elementi di prima classe nella comunità nazionale, ricordarsi spesso di loro e non soltanto in tempi di elezioni.
Questa rivalutazione politica e morale del contadino e dell’agricoltore, agirà tanto più efficacemente, quanto più si discosterà dalla letteratura arcadica esibita da coloro che conoscono la campagna per averla veduta viaggiando. Come l’autentico soldato in trincea disprezzava il letterato che faceva del “colore” sulla guerra, così il contadino sorride quando gli viene dipinta una vita dei campi irreale, sotto colori poetici, come se lavorare la terra fosse un idillio, mentre è una severa fatica che talvolta aspetta invano il suo compenso. Il vero contadino detesta coloro che gli vogliono imbottire il cranio. Bisogna, dunque, che l’esaltazione dei contadini sia seria, virile e tale da renderli fieri di lavorare la terra. I miei numerosi discorsi ai contadini si sono sempre tenuti su questa linea.[21]
Sono pochi i discorsi che si discostano dal modello stereotipato e contengono qualche novità. Sotto questo profilo trovo interessante il discorso del 30 luglio del 1925 Per la battaglia del grano, improntato a quella spavalderia che contrassegnava anche il famosissimo discorso del 3 gennaio. Mussolini, in procinto di creare il regime vero e proprio, vi sostiene che l’agricoltura italiana non ha bisogno di un ministero, come qualcuno suggerisce, mentre ha bisogno di un ministro che è il Duce stesso e di mezzi che avrà. Il governo fascista da tre anni dà prova di voler affrontare e risolvere i problemi del popolo italiano e tra questi il problema della libertà.
Problemi di libertà, o signori, ma della vera libertà, non di quella metafisica, assoluta; non della libertà liberale, infine, che non mai esisté sulla faccia della terra, né mai esisterà.
La battaglia del grano, o signori, significa liberare il popolo italiano dalla schiavitù del pane straniero. La battaglia della palude significa liberare la salute di milioni di italiani dalle insidie letali della malaria e della miseria. Il Governo fascista ha ridato al popolo italiano le essenziali libertà che erano compromesse o perdute: quella di lavorare, quella di possedere, quella di circolare, quella di onorare pubblicamente Dio, quella di esaltare la Vittoria e i sacrifici che ha imposto, quella di avere la coscienza di se stesso e del proprio destino, quella di sentirsi un popolo forte non già un semplice satellite della cupidigia e della demagogia altrui.
Questa è la vera libertà nazionale che il fascismo ha data e garantisce al popolo italiano, tutto il resto è falsa letteratura e mistificazione sfrontata di spodestati ed emigrati respinti dalla vita nel limbo dell’impotenza.[22]
Assai interessante è anche, in un discorso di molti anni dopo, un discorso del 3 maggio del 1936, quando il clima era profondamente cambiato e il peggio stava per arrivare, un riferimento alla razza e al suo legame con la terra.
Poiché la terra e la razza sono inscindibili e attraverso la terra si fa la storia della razza e la razza domina e sviluppa e feconda la terra. [23]
A quell’epoca il concorso era stato esteso anche alle colonie e chi vi partecipava doveva essere iscritto al partito e risultare appartenente alla razza ariana.
Non sempre i discorsi agli agricoltori sono stati un termometro così sensibile delle intenzioni e dei motivi ideologici del Duce, che tendeva a ripetersi e ad impegnarsi assai poco, nella convinzione che bastasse il suo animo “immutabilmente rurale” a soggiogare la platea. L’espressione venne usata nella natia Predappio, alla Casa del fascio, di fronte ai dirigenti della Confederazione dei lavoratori dell’agricoltura che gli avevano presentato doni il 29 luglio del 1939. Poco più di un mese dopo sarebbe iniziata la seconda guerra mondiale e ben altre preoccupazioni avrebbero preso a dominare quell’animo.
- La stampa e la radio
La militarizzazione degli agricoltori avvenne sia attraverso le immagini – fotografie e cinegiornali – e i discorsi del Duce sia attraverso la stampa nazionale e locale.
Destinatari di tale campagna furono non i molti contadini analfabeti che vivevano nel Nord e nel Sud della penisola ma i proprietari terrieri e il pubblico alfabetizzato, a cui occorreva presentare con enfasi tutte le iniziative del regime e le loro motivazioni. Il Popolo d’Italia e le altre testate nazionali si lanciarono in una campagna informativa che coniugò nazionalismo con ruralismo, antiurbanesimo e sogni di grandezza in un circolo virtuoso che permise sia di celebrare “l’ideatore e il condottiero della battaglia del grano” sia “le magnifiche sorti e progressive” del popolo italiano, sì abilmente guidato.
Per questo contributo ho scelto di censire gli articoli apparsi sulla Rivista illustrata del Popolo d’Italia, mensile di politica interna ed estera, personaggi, cultura, sport, spettacolo, moda, novità tecniche e pubblicità. Come promesso vi era un uso massiccio dell’immagine, di cui protagonista indiscusso era Lui. Che spazio diede la rivista alla “battaglia del grano”? Nel complesso non molto. Si contano tre articoli nel 1924, uno nel 1925 più una copertina, due nel 1926. Da quel momento sono le fotografie a seguire le vicende del Concorso della Vittoria del grano o le Mostre del grano. Gli articoli si concentrano su altro, per quanto collegato, come la battaglia demografica, la bonifica integrale e l’autarchia. Ma lo stile è sempre incomparabile e inconfondibile.
La “battaglia del grano” viene lanciata nel 1925 ma il concorso per la “Vittoria del grano” è dell’anno prima. La rivista comincia allora la campagna di sensibilizzazione e in una forma abbastanza singolare: è il febbraio e Franco Samarani, direttore della Stazione Sperimentale di Batteriologia Agraria di Crema pubblica un articolo intitolato Il frumento fascista di domani[24].Vi si dice che la terra italiana produce poco non perché i contadini siano ignoranti, misoneisti, restii ad investimenti o migliorie ma perché si è dimenticata la lezione di Roma antica cioè… il mucchio di letame. “In Roma antica vi era un’ara dedicata a dio Stercuzio. La leggenda romana diceva che l’Italia al suo re – Stercuzio -aveva attribuito l’immortalità perché aveva insegnato ai prischi italiani a letamare, a stercorare la terra”. Solo i contadini che hanno stalla possono produrre letame, prezioso perché si trasforma in nitrati che fertilizzano la terra e rendono possibili abbondanti raccolti. E’ necessario che si coltivi il campo con nuove tecniche. Anche la terra ha bisogno della sua “rivoluzione fascista”, conclude l’autore. La rivoluzione di Stercuzio?
Lo stesso Samarani[25] continua in aprile col dare informazione che Mussolini premierà, a palazzo Chigi, “con la sua stessa mano – che sa reggere con forza di genio il simbolo del comando” i vincitori del concorso della “Vittoria del Grano”, ossia coloro che otterranno il massimo prodotto di frumento da un ettaro insieme a coloro che gli presenteranno la più grande spiga, allevata “con intelletto d’amore e con luce d’intelligenza”. Duemila anni prima – continua Samarani – Plinio aveva ricordato che ad Augusto era stata presentata una spiga con 400 germogli e a Nerone una pianta con 360 steli. Impallidiscono gli OGM di oggi. Per questo “la premiazione dovrà assumere la solennità di un rito di glorificazione di coloro che, dopo aver difeso il sacro suolo della patria, impetrano la moltiplicazione incessante della fertilità della terra italiana”.
La linea guida della campagna propagandistica è già gettata ed è chiarissima: i contadini italiani devono ricordare l’esempio degli antichi Romani anzi devono ricordarsi di essere Romani. Non c’è più Stercuzio ma si insiste sulla concimazione con prodotto organici o chimici.
Nell’ottobre, dopo la mietitura e i primi bilanci, sulla rivista compare un lunghissimo e noiosissimo articolo di B. Colonna dal titolo La Vittoria del Grano[26]. Dopo aver ricordato che il Concorso era stato bandito dalle colonne del Popolo d’Italia il 1° marzo di quello stesso 1924 per stimolare a “tecnicizzare e industrializzare l’agricoltura, base granitica dell’economia nazionale” ed era aperto a tutti – piccolo e grande coltivatore, proprietario, colono o affittuario – purché si impegnasse a concorrere con almeno un ettaro di terreno, l’autore lodava la riuscita dell’iniziativa che aveva avuto tra i concorrenti persino il Duca d’Aosta, le cui terre, alle pendici del Pratomagno, non erano affatto buone. Nonostante ciò con “la buona volontà e la tecnica” quelle terre, che mediamente avevano reso otto quintali e mezzo per ettaro, avevano dato ben dodici quintali e mezzo in quell’anno, messo a dura prova dalle sfavorevoli congiunture climatiche in tutte le stagioni.
“Gli augusti Proprietari hanno portato anche nella sperduta plaga del Borro un alito di vita moderna e un impulso benefico che varranno ad elevare l’attività agricola di una zona estesissima e che potranno dimostrare come la Patria possa essere degnamente e altamente servita anche nel silenzio non sempre bello dei campi. Quintali dodici e mezzo prodotti mediamente quest’anno sono come il riassunto di tante vittorie ottenute che ci assicurano di veder risplendere al più presto, anche nel campo agricolo, le glorie di Vittorio Veneto con la Vittoria, non meno fulgida né meno agognata, del grano italiano per tutti i figli d’Italia!” Sono qui presenti due motivi che diventeranno costanti, oltre al già citato richiamo alla romanità: la modernizzazione dell’agricoltura e l’incremento produttivo come guerra pacifica e ideale continuazione della Grande Guerra.
Gran parte dell’articolo poi si tramutava in una tediosissima rassegna di esempi di straordinaria produttività di terre, per l’innanzi trascurate o mal coltivate, in Sicilia, in Sardegna, in Puglia, nel Lazio per concludersi con un appello a rinnovare i metodi di coltivazione dei campi con l’ausilio della scienza e della tecnica.
Nel 1925 la rivista dedicò la copertina del numero di ottobre alla “battaglia del grano”. Una gigantesca spiga veniva uncinata dal possente braccio di una macchina. Il regime comunicava così l’intenzione di meccanizzare l’agricoltura per metterla al passo coi tempi.
Il numero di novembre ospitò, a firma Emilio Guarnieri[27], un articolo dal titolo La battaglia del grano. La visione e le vie della vittoria, per noi oggi illeggibile per la vieta retorica che ostenta ad ogni riga. Sono presenti e si mescolano tutti i motivi tipici della comunicazione propagandistica a favore della battaglia del grano: l’esaltazione del capo – Mussolini è “occhio d’aquila, mago d’intuizione”, “il duce di tutti gli ardimenti e di tutte le vittorie” -, il richiamo alla romanità – “E l’aquila romana rimetterà ancora una volta le penne…”, “… In Roma doveva avvenire [la premiazione del concorso del grano]: nella Roma che formò la sua prima corona con spiche di grano; che con Numa onorò di biade gli dei, la Roma dei Quinzii, dei Regoli, dei Curi, dei Fabbrici, che solcò con l’aratro le vie della sua potenza e della sua gloria” -, l’interpretazione guerriera dell’iniziativa – “…la bella, la santa battaglia civile ch’Egli ha voluto”, “L’adunata di Roma… fu la consacrazione della battaglia e fu vaticinio di Vittoria. Fu la Pontida degli agricoltori d’Italia. E Pontida condusse a Legnano”. -, la sua saldatura alla Grande Guerra – “Ora che il dado è tratto la grande opera non s’arresterà. Non è la vita soltanto, ma la Storia del nostro popolo che lo vuole, per scrivere nel suo libro, accanto a quella di Vittorio Veneto, un’altra pagina di gloria. Dopo la Spada, l’Aratro. -, i propositi modernizzanti dell’agricoltura – “E mentre la scienza studierà ed indicherà i mezzi… per fronteggiare sempre più efficacemente le contrarietà e le offese degli elementi naturali, nostro scopo fondamentale sarà quello di limitare la coltura alle aree convenienti e di elevarne con costante ritmo il rendimento unitario”.
Nel corso del 1926 escono due articoli di G. Bellincioni, ossessionati dall’ambizione di apparire dotti e dal proposito di ancorare il presente al passato romano e rinascimentale. In febbraio compare un articolo Tradizioni agricole italiane[28] illustrato con bronzi etruschi, disegni di Leonardo e bassorilievi di Andrea Pisano, che dimostra come “il favore che arride in Italia alle iniziative agricole… sia dovuto all’ossequio verso antichissime tradizioni che si confondono con le origini stesse del Paese.”
In settembre viene stampato un secondo articolo Il pane[29] in cui si celebrano le qualità del pane scuro e si discetta dottamente sulla radice sanscrita pâ di pane, sui pistores, sui dulciarii, sui fictores, sui negotiatores frumentarii della Roma antica,si illustrano le magnifiche virtù del pane, la sua presenza nella più bella preghiera inventata dall’uomo, il Padre nostro, e si conclude ricordando la dolorosa annotazione di Dante su come “sa di sale lo pane altrui”, mezzo per celebrare la battaglia del grano che ha lo scopo di farci mangiare il “nostro pane”.
Da quel momento la rivista non pubblica più articoli ma solo fotografie di premiazioni e mostre.
Il testimone era stato passato alla stampa locale che si impegnò in un’opera propagandistica capillare. Periodici locali[30] come L’Agricoltura Bolognese, La nostra terra, L’Avanguardia rurale, opuscoli monografici dedicati al frumento, al granturco, alla canapa ed altro, fogli settimanali o quindicinali furono stampati a cura di associazioni o categorie legate all’agricoltura, dai sindacati fascisti dei tecnici agricoli e degli agricoltori alle Cattedre Ambulanti di Agricoltura, ai Consorzi Agrari. Si impegnarono tutti in una massiccia campagna per aumentare la produttività rinnovando la mentalità di chi coltivava la terra. Era un programma teso a far seminare la specie di frumento più adatta al terreno che si aveva a disposizione, a far concimare opportunamente la terra con prodotti organici e chimici, a proteggere il prodotto dai parassiti e dalle malattie, ad introdurre le macchine per le varie operazioni dalla semina alla mietitura, a incrementare e proteggere il patrimonio zootecnico. Studiosi di fama e tecnici furono instancabili nell’illustrare, anche con sussidi fotografici, l’ampia gamma di semi di frumento esistenti, ciascuna con caratteristiche ben precise, e a documentarne la resa. Conosciamo così le razze Todaro (Quattrocoste, Piave, Gentil Rosso, Inallettabile) o le razze Strampelli (Dante, Villa Glori, Mentana, Italo, Attilio, Ardito, Vittorio Veneto, Fausto, Edda, Varrone, Virgilio). Intere pagine sono dedicate alla pubblicità di concimi chimici (fosfato, perfosfato, solfato, nitrati) o di insetticidi ed anticrittogamici come la polvere Caffaro o l’Azol contro i bruchi e le tignole, il Nicol contro gli afidi o l’Ibernol, l’antiparassitario per trattamenti invernali alle piante legnose. Altre celebrano le meraviglie delle macchine, per esempio quelle dell’ing. Colorni di Milano: Falco, l’ottimo aratro che soddisfa tutti, Gloria, l’ottima falciatrice, Alba, la solida trebbiatrice, Roma, l’ultimo successo in fatto di aratro e se Italica è la mietitrebbia nazionale vi sono anche macchine straniere come le trattrici Cletrac e Deering e l’aratro Oliver.
In una pagina de L’Agricoltura bolognese del marzo del 1929trovo un’informazione interessante sul Cinambulante dell’Opera Nazionale Combattenti “col quale la parola del propagandista viene illustrata colla proiezione di speciali films cinematografiche”. Il Cinambulante fu usato per giri di propaganda dapprima nell’Agro Romano e poi esteso a tutta l’Italia. Per la provincia di Bologna era stato fissato un giro di 54 giorni dal 21 aprile al 15 maggio attraverso 40 centri, da Porretta a Budrio, a Persiceto, a Bazzano. Il filmato sulla Battaglia del grano risulta il più proiettato, spesso insieme a quello sulla Battaglia della seta. La propaganda, termine che allora equivaleva a informazione, cercava i mezzi più efficaci per raggiungere il suo pubblico. Lo stesso Mussolini più volte aveva detto di credere più efficace l’immagine della parola.
Dopo aver scorso decine e decine di pagine mirate a razionalizzare l’agricoltura e l’allevamento, a meccanizzare i processi produttivi si può avere l’impressione che in questo settore la modernizzazione sia stata cercata con determinazione e convincimento, sia stata guidata e non semplicemente accolta come prodotto dei tempi. Mi viene in mente su questo interrogativo della modernizzazione, operata o meno dal fascismo, una considerazione di Nicola Tranfaglia, che non solo definiva il processo lento e contraddittorio ma ne sosteneva l’inevitabilità, per dire che sarebbe avvenuto sotto ogni altra forma di regime politico ed economico.[31]
Eppure dei moderni mezzi di comunicazione, come già si è detto, il regime seppe fare abile uso. E se il cinema venne utilizzato nella forma del documentario propagandistico, la radio venne piegata a funzioni didattiche anche per il mondo agricolo. Informa il già citato Cannistraro che fu Costanzo Ciano nel 1930 a proporre la creazione di trasmissioni per gli agricoltori. I primi esempi, alla fine di quello stesso anno, furono poco efficaci perché mancavano gli apparecchi radio nelle campagne. Si ovviò dotando di apparecchi le scuole rurali, al mattino per l’uso degli studenti, di sera e nei festivi per l’uso delle organizzazioni agricole. Più tardi con la creazione degli “uditori collettivi” vennero installati apparecchi anche nei municipi e nei centri ricreativi. Dei programmi della Radio rurale il più mirato era l'”Ora dell’agricoltore”, iniziato il 15 aprile del 1934 e continuato fino al 1939. Sulla qualità e l’efficacia di queste trasmissioni così si esprime uno dei più importanti studiosi dell’argomento, Alberto Monticone.
L’intervento della radio italiana nelle campagne fu un pesante insuccesso ed insieme una delle peggiori realizzazioni radiofoniche del regime. Oscillante tra l’indottrinamento fascista e l’intrattenimento pedagogico, l'”Ora dell’agricoltore” dimostrò sin dagli inizi negli organizzatori un completo distacco dalla vera vita dei campi e una evidente ignoranza della psicologia dei contadini, difetti resi più marcati dallo scoperto intento di propagandare le parole d’ordine, spesso banali e talora vuote, dei programmi di ruralizzazione del governo. L’andamento tipico dell'”Ora”era il seguente: una prima parte, per lo più, affidata ad un oratore qualificato, dedicata a temi generali dell’economia e dell’agricoltura; una seconda di musica e varietà; una terza infine di consigli pratici per contadini e per massaie presentati in forma dialogica…
Sin dagli inizi dell'”Ora”, i dialoghi di due finti contadini, Menico e Timoteo, e della moglie di Timoteo, Dorotea, o altre trovate di questo genere mostrano la reale incapacità della trasmissione di uscire dal mito del contadino, raffigurato testardo e semplice, ma da convincersi con qualche battuta per sempliciotti, così come corrispondono a tutta la maniera mitica e mistificatrice del fascismo nell’esaltare la ruralità.[32]
- La “battaglia del grano” a scuola: le parole
Il conclamato ruralismo del regime raggiunse anche la scuola. La raggiunse attraverso i libri di testo o meglio attraverso i testi unici.
Scorrendo le pagine del testo unico della seconda classe m’imbatto in una pagina interessante, che è una presentazione ai più piccoli della “battaglia del grano”.
IL DUCE AGRICOLTORE
Benito Mussolini, il Duce degli agricoltori, partì un giorno da Roma. Aveva negli occhi un sorriso, come se andasse ad una festa.
Giunse nella sua bella terra di Romagna, mentre echeggiava nei campi il canto della mietitura. Prese nella mano robusta una falce e anch’egli, in mezzo agli uomini forti della sua terra, volle raccogliere le spighe dorate, maturate al bel sole d’Italia.
E la sua voce disse a tutti gli agricoltori:
– Dobbiamo coltivare la nostra terra per dare il pane a tutti gli italiani, il pane nostro, senza chiederlo agli stranieri. Dobbiamo vincere la battaglia più bella: la battaglia del grano.
E gli agricoltori di tutta Italia risposero al loro Duce:
– Vinceremo![33]
Nella pagina seguente si riporta il famoso componimento del Duce sul pane.
Amate il Pane
cuore della casa
profumo della mensa
gioia dei focolari
Rispettate il Pane
sudore della fronte
orgoglio del lavoro
poema di sacrificio
Onorate il Pane
gloria dei campi
fragranza della terra
festa della vita
Non sciupate il Pane
ricchezza della Patria
il più soave dono di Dio
il più santo premio
alla fatica umana.
Benito Mussolini [34]
Le pagine precedenti riportano un’altra poesia sul pane, anonima, e il racconto della mietitura, proposta come una “bella festa”.
I mietitori e le mietitrici si spargono nei campi e cantano al sole. Oggi è festa e lieta è la fatica. [35]
L’arrivo della trebbiatrice annunzia “un altro giorno di lieta fatica”.
C’è il frastuono della macchina, c’è il fumo e il vapore della caldaia, c’è la polvere che si solleva dal trebbiatoio, ma nessuno sente il disagio, e il vociare dei macchinisti è coperto da un lieto canto di canzoni e di stornelli.[36]
Vita invidiabile quella dei nostri contadini degli anni Trenta: da una festa all’altra!
Se passiamo al libro della terza classe troviamo una riproposizione della “battaglia del grano” adeguata all’età e quindi un po’ più complessa.
IL GRANO
Oggi i nostri ragazzi con grande loro gioia sono ai margini di un campo verde: è l’ultima domenica di maggio e nonostante un certo caldo si sta bene all’ombra degli alberi, perché spira un venticello cortese che accarezza i visi accesi dei nostri eroi e sorvola sulle spighe del grano ancora tenero facendolo ondulare come una maretta.
– Sì, questo è grano – disse il signor Goffredo – Tornate indietro! Guai a chi di voi si permette di pestare una sola spiga, perché il grano è fra i sacri prodotti della natura il più sacro.
– Perché babbo? – domandò Sergio.
– Perché è il primo cibo dell’uomo: il cibo del povero e del ricco, dell’umile e del superbo: è un nutrimento sano, modesto e nello stesso tempo preziosissimo.
– E’ vero che l’Italia, quantunque paese agricolo, ha bisogno del grano dei paesi esteri? – domandò Anselmuccio.
– Sì, ma per pochi anni ancora, perché con una savia e paterna politica il Duce ha dato un grande impulso alla coltivazione di questo indispensabile cereale, e ha stabilito premi, ricompense ai più bravi agricoltori, ha fatto loro insegnare quali sono i metodi più adatti per una produzione più intensa, insomma ha dato modo che il meraviglioso istinto dell’agricoltore italiano, l’antico, fervido amorevole e instancabile agricoltore italico, si risvegliasse con tutta la sua forza e la sua intelligenza. E’ così innato negli italiani questo spirito per la campagna – aggiunse sorridendo il signor Goffredo – che in questi anni sono avvenute tra città e città, province e province, nobili gare per produrre maggiore quantità di grano e di specie migliore.[37]
Ho deliberatamente sottolineato il passaggio più interessante perché il lettore, annoiato dopo le prime righe, non passasse oltre, perdendo questa celebrazione dell'”agricoltore italico”, delle sue virtù e del suo destino.
Ancora più interessante però risulta il libro di lettura della V elementare, cioè Il balilla Vittorio, confezionato da Roberto Forges Davanzati con l’intenzione di mettere a disposizione degli scolari italiani un racconto omogeneo “formativo secondo lo spirito del Regime”, e non la solita raccolta antologica. Prodotto esemplare della letteratura per l’infanzia di regime, il testo fu scritto dall’autore nell’estate del 1930 nella Certosa di Capri[38] e riunì, con astuzia ed abilità, in 335 pagine di racconto, arricchito da un’appendice di altre 100, tutti i miti del fascismo, dal ruralismo condito di antiurbanesimo al nazionalismo esasperato, dal culto del capo e dei suoi emuli alla celebrazione dell’etica fascista con tutti i suoi imperativi, per finire col razzismo.
Il romanzo racconta all’incirca un anno di vita – da un’estate all’altra – di Vittorio Balestrieri, balilla di 11 anni, con cui i nostri scolaretti di V elementare dovevano identificarsi. Il protagonista viene seguito in famiglia, a scuola, in viaggio, nelle attività di balilla, nei rapporti con i coetanei e con gli adulti. Vittorio non è uno studente modello perché è svogliato, distratto e superficiale ma è un balilla impegnato con successo, scelto come caposquadra e capomanipolo. Ancora più bravo è il fratello Francesco, inviato per la sua abilità alla pertica e nel salto al Campo Dux e qui resosi degno di partecipare gratuitamente alla crociera degli avanguardisti per un atto di coraggio compiuto.
Quella di Vittorio è una tipica famiglia piccolo-borghese, prona al Regime. Il padre, segretario comunale in un piccolo centro dell’Umbria, Castelgiorgio, guida una famiglia numerosa con moglie sottomessa – tipica sposa fascista, prolifica, laboriosa, ubbidiente – e figli in quantità, ben sette, l’ultimo dei quali nascerà a Roma, dove i Balestrieri si trasferiranno per seguire il capofamiglia, che ha avuto un incarico connesso con la bonifica dell’Agro Pontino. E se l’ultimo nato, per il fatto di essere nato a Roma, si chiamerà Romano, Vittorio deve il suo nome all’anno in cui è nato, il 1918, l’anno della vittoria. Nella Grande Guerra hanno combattuto il padre del nostro eroe e lo zio Francesco, emigrato in Argentina poi tornato per servire la sua Patria. Subito conquistato dal fascismo, è divenuto un piccolo gerarca di provincia, assertivo e pontificante nel suo rapporto col nipote, di cui è lui l’educatore più che il padre. E’ lui che celebra le imprese del Regime e il Duce, è lui che cerca di imprimere nell’animo di Vittorio valori e miti fascisti, è lui il vero campione del ruralismo. Non è un contadino ma un proprietario di poderi in numero sempre crescente – lo fa per i nipoti poiché di figli non ha avuto la gioia di averne. Forges Davanzati ce lo presenta così:
Più libero del fratello Giacomo [il padre del protagonista], ch’era vincolato dall’ufficio, più impetuoso e deciso, fu tra i primi a riprendere l’animo e il costume dei combattenti e dare ascolto alla riscossa che Mussolini bandiva da Milano. Riprese la camicia nera che aveva indossato come ardito nei reparti d’assalto; raccolse, col fratello, alcuni compagni d’arme e fu il primo fascista del comune, fra i più animosi della provincia, presente in campagna e in città. Alla marcia su Roma Francesco e Giacomo erano con le loro decorazioni di guerra nella colonna umbra.[39]
Chi meglio dello zio Francesco può presentare a Vittorio la “battaglia del grano”?
Nel corso di una passeggiata a cavallo per campi e poderi i nostri salutano una giovane famiglia contadina, vero modello degno d’imitazione: la donna, sposa da appena un anno, ha un figlio – maschio naturalmente – già in braccio mentre l’uomo, alto, forte, saluta romanamente e confida in un premio al concorso del grano per una produttività di quattordici quintali per ettaro. Lo zio coglie la palla al balzo per farci la sua lezione:
Ma il premio già c’è, e per tutti, perché abbiamo avuto più dello scorso anno, vincendo l’avversa stagione, proprio come ci ha detto il Duce, il quale vuole che ci siano i quintali di grano nostro, della nostra terra, per tutte le bocche dei figliuoli che Dio manda agl’italiani. Prima andavamo a lavorare le terre lontane, come ho fatto o quando sono andato in Argentina, e qui si doveva dare moneta d’oro per comperare il grano che veniva anche da quei paesi. Oggi non siamo più traditori della nostra terra e di noi stessi. Il grano è per le bocche dei nostri figli, e le braccia dei nostri figli sono per il pane della nostra terra, che ha il buon sapore di casa.[40]
Quando poi lo zio Francesco nel suo culto della terra ha qualche, sia pure passeggero, dubbio o qualche silenzio un po’ più lungo, eccolo rimpiazzato dal dottor Vainardi, amico suo e dell’intera famiglia Balestrieri, altro dispensatore di “perle di saggezza”. Dopo una conversazione sull’avvenire dell’aviazione e sulla professione di pilota, allo zio che, dovendo tornare ai suoi poderi in Umbria, ha l’impressione “di ritornare indietro secoli e secoli”, il Vainardi ricorda:
No, significa tornare alla vita di tutti i secoli. Basta che tu levi gli occhi al cielo, al sole o alle stelle, per accorgerti che puoi sentire Dio e la grandezza del creato, anche senza cavalcare un motore. Basta che tu guardi come volano gli uccelli e gl’insetti e quali mirabili organismi sono essi, per toglierti da ogni orgoglio eccessivo di ammirazione per le macchine. Basta che tu ricordi che qualunque cosa faccia l’uomo, egli deve sempre ritornare alla madre terra, per persuaderti che sei, come tutti coloro che con te lavorano alla terra, più vicino alla natura eterna, quella che conta i secoli come minuti.[41]
In altra parte del romanzo, lo stesso dottore, dopo aver visitato presso i Salesiani un ragazzino gracile e assai studioso e aver deciso che per i suoi polmoni e il suo torace è meglio un lavoro all’aria aperta, sentenzia:
– E voi dite alla madre che un buon agricoltore vale un medico, e se il ragazzo profitta, tanto meglio, perché profitterà in agricoltura, la quale anch’essa è una scienza, un’arte e una fede.-[42]
Qui la contrapposizione è tra la vita all’aria aperta che rende sani e robusti e la vita al chiuso che riduce pallidi ed emaciati ma altrove è esplicitamente tra vita in campagna e vita in città. Nonostante l’autore celebri gli aspetti monumentali delle grandi città italiane come Roma, Milano, Napoli – coadiuvato dall’inserimento nel testo di foto Alinari – l’intenzione programmatica è quella di mostrare coma la vita di Vittorio fosse sana, libera e invidiabile quando stava al podere del Monticchio a Castelgiorgio e quanto sia angusta e insalubre nel piccolo appartementino romano in cui è costretto a vivere con la famiglia dopo il trasferimento.
Vittorio lasciò quasi cadere il libro, ficcò sotto le coperte le mani intirizzite, rivide Castelgiorgio, il Monticchio, zio Francesco e zia Barberina, sentì l’odor del pane caldo e il freddo della campagna con la neve, e ancora una volta gli parve di essere in prigione, in quella stanzetta minuscola del grigio casone piena di gente sconosciuta. Che Natale sarebbe stato questo che si avvicinava, e come gli parevano belli, ora, quelli passata a Castelgiorgio![43]
E’ solo un gaffeur il dottor Vainardi quando definisce “povera e nuda” la casa dei Balestrieri? In realtà fa gioco all’autore che non esita in occasione del Natale – che ha sapientemente preparato con il rimpianto di Vittorio – a far giungere con gli zii “rurali” i prodotti della buona terra ai “cittadini” che vivono una vita assai stentata.
Zio Francesco, seguito da Venanzio e Vittorio e dalla madre, andò in cucina, dove finalmente sulla tavola fu veduta un po’ d’abbondanza campagnola, che da tre mesi non c’era più, da quando, tutti i giorni, Anna, la madre, lamentava il costo della vita di città. Tre grossi capponi vivi e spauriti, un fiasco d’olio e due di vin santo, una gran torta e due barattoli di marmellata, quella così buona e celebrata di zia Barberina, un barattolino di ciliege sotto spirito, una forma di cacio, mezzo prosciutto, una grossa trota e tre anguille di Bolsena, e ova fresche, che Anna alzava contro luce per ammirarne la rosea trasparenza.[44]
Si presenta anche l’occasione per una bella lode del Duce, dispensatore di libertà per aver abolito i dazi tra un comune e l’altro.
Ma pensa finalmente la gioia, dopo aver pagato, sì, quel tanto che occorre per il trasporto, di non incontrarsi più col dazio, e poter portare tutto quello che si vuole, senza star lì fermo, con le valigie, sospettato e frugato con gli occhi, a pagar per questo e per quello… Così una parte di questo dono è di Mussolini, che sa fare, ogni anno, bei doni agli italiani, e questo di aver tolto la barriera daziaria tra comune e comune è certo uno dei più belli… Ecco un’altra libertà che ci ha dato Mussolini, la libertà di commerciare e di far arrivare più presto i prodotti della terra e del lavoro a chi ne ha bisogno, e unire meglio le città con le campagne e le campagne con le città.[45]
Il rituale del rifornimento dei “cittadini” da parte dei “rurali”, a dimostrazione che l’abbondanza abita in campagna, si ripete a Pasqua:
L’indomani l’arrivo di zia Barberina fu portentoso, perché nessuno poté capire come mai da una valigia e da un cesto uscisse tanta roba da mangiare e bere. Sulla tavola del desinare, in cucina, non c’era più posto e, man mano che scartocciava e disponeva, la zia nominava le olive, le aringhe, le ova sode, il prosciutto, le forme di cacio, ripetendo ad ogni cosa, mentre un agnello giaceva intimorito e belante. – Io so quanto vi costi in città e ho voluto provvedere anche a questo.[46]
La prima impressione della casa in città aveva prodotto in Vittorio delusione e tristezza.
Vittorio che s’era immaginato chissà quali grandezze in una casa di città; che aveva veduto tutto così alto e largo e luccicante, entra nella cucina e guarda accanto al focolare angusto la tavola con i posti gomito a gomito; entra nelle stanze strette, tutte letti, passa attraverso un corridoio buio, s’affaccia alle finestre, guarda il cortile serrato e bucato di luci che illuminano altre cucine e altre stanze tutte uguali. Rivede improvvisamente la casa di Castelgiorgio, il Monticchio così ampio e sereno, il cielo largo e pieno di stelle alla sera. Sente una stretta al cuore …[47]
Non è un caso che il romanzo si chiuda con il nostro giovane protagonista che torna a Castelgiorgio per le vacanze estive, avendo però anche deciso che da grande seguirà le orme dello zio Francesco e gli subentrerà nella direzione dei poderi insieme al fratellino appena nato, Romano. La lettura a cui si dedica è L’abbiccì dell’agricoltore.
La città di Roma tuttavia era quella che gli aveva permesso di vedere il Duce, desiderio immediatamente espresso appena avuta la notizia del trasferimento. La madre lo aveva rassicurato:
– Lo vedrai certamente, se lo meriterai. Mussolini ha davanti agli occhi tutti i ragazzi e sa ogni cosa di loro, e li fa premiare solo quando sono buoni e forti.-[48]
Alla prima adunata il balilla Vittorio aveva visto il suo Duce:
Quando le coorti di avanguardisti e balilla sono schierate accanto ai battaglioni della Milizia con i pugnali e gli elmetti neri, e ai reparti di tutte le forze armate, dai carabinieri ai marinai, dai fanti agli avieri, dai granatieri agli artiglieri, ecco che il Duce viene. E’ Mussolini a cavallo, con la sua faccia forte, gli occhi rotondi d’aquila, il bianco pennacchio sul fez nero. Quando guarda per indagare e per giudicare, il suo viso sembra di pietra e il suo sguardo arriva lontano, fino alle ultime file. Quando le schiere passano innanzi a Lui e salutano, ed Egli è soddisfatto, il viso s’illumina e lo sguardo sorride per conforto di tutti. Quando i battaglioni si ammassano e levano in alto il pugnale gridando: – A noi!- Egli guarda severo come per dire: – Ricordatevi che questo grido vi impegna a seguirmi dovunque io debba condurvi, in pace e in guerra.-
Quando la tromba suona l’attenti e si fa silenzio grande, ed Egli parla, la sua voce arriva chiara e forte e le parole sono di quelle che si portano nell’anima e si ricordano per tutta la vita. Quando volge il cavallo e si allontana col seguito, ciascuno sente che sarà accompagnato da Lui, dal suo sguardo, per sempre.[49]
Vittorio lo aveva rivisto al Campo Dux quando, sfilando da caposquadra sotto la sua tribuna, lo aveva potuto ammirare mentre guardava i giovani “con gli occhi fermi che pare accompagnino”.
Nel corso del romanzo le lodi di Mussolini vengono tessute con regolarità da personaggi sempre diversi. Nelle parole del frate francescano Domenico, già combattente nella Grande Guerra, l’iniziativa del Duce a favore dell’agricoltura pare ispirata da San Francesco direttamente.
Il nostro Santo, che ha vissuto in comunione con questa terra, che ha cantato il fuoco, l’acqua, il sole, le bestie come creature, ha voluto e vuole che gli uomini tornino a questi beni di Dio, che possono essere di tutti, come si vede di quassù. E quando il Duce ha detto che bisogna ritornare alla terra e non correre al chiuso delle città, noi abbiamo sentito che si è ripetuta una grande parola italiana, che non è soltanto di sano lavoro, ma anche di redenzione.[50]
Anche lo zio Francesco si impegna in una campagna celebrativa ripetuta, anche se non riesce a superare il dottor Vainardi, indefesso cantore delle gesta e delle qualità del Capo supremo, per il quale chiede a Vittorio anche di pregare ogni sera prima di dormire “perché quando tutti gli italiani riposano o cessano dal lavoro per svagarsi, Egli veglia e medita per essi, dovunque si trovi”. L’apice è raggiunto quando per il nostro piccolo balilla Mussolini viene confezionato in formato eroico.
Chi è chiamato eroe? Chi santo? Colui che non cura la vita di tutti i giorni e cerca di vivere ed operare per gli altri, nel presente e per l’avvenire. Guarda Mussolini. E’ nato povero, ha avuto vita dura anche da fanciullo, ha studiato, e s’è dovuto guadagnare il pane lavorando in terra straniera; è stato col popolo, ha combattuto in guerra e nelle piazze, e così è arrivato al comando della nazione. Credi tu che non abbia oggi pene e sofferenze come ne aveva avuto in passato? Egli le ha e le avrà, poiché pensare alle sorti di tutto il popolo italiano, educarlo, guidarlo, provvedere al bene di esso in mezzo a difficoltà grandi, significa prendere per sé pene e sofferenze di tutti; significa essere indifferente alla propria vita materiale ed egoistica. Come credi che abbia tanta forza? L’ha avuta sin da quando, giovane, s’è accontentato di un po’ di pane e di stendersi sotto un ponte, e questo gli bastava per pensare, anche allora, all’avvenire del popolo italiano, e a quello che gli toccava di fare per guidarlo un giorno.[51]
Dell’eroe Mussolini nel capitolo X viene celebrata la straordinaria impresa della “redenzione” dell’Agro Pontino, non senza accenti esplicitamente razzisti.
La bonifica fascista non è più soltanto difesa contro la malaria, che ha spopolato terre di casa nostra e avvelenato la razza. La bonifica fascista è anche il nuovo dovere dello Stato di riscattare questa terra nostra che ci serve, e cacciar fuori dal loro egoismo tutti gli imboscati di pace, quelli che non meritano la proprietà, quando la lasciano immiserire soddisfatti di quanto la terra dia senza spesa né lavoro. La bonifica fascista è uno dei maggiori compiti, forse il più importante, di quella mobilitazione di pace, che Mussolini ha saputo ordinare a tutti gli italiani, con lo stesso spirito dell’intervento, della trincea e della vittoria. [52]
A testimonianza di questo avvilimento della razza era stato narrato poco prima l’episodio del contadino romano, malarico ed ubriacone, assistito, non senza disprezzo per il suo degrado, dal dottor Vainardi che trova modo di celebrare la necessità di trasferire nuovi contadini dinamici sulle terre bonificate, con vantaggio per la razza .
E in quell’uomo non c’è soltanto l’attacco del male, c’è anche l’avvilimento e l’abbrutimento di generazioni confitte nella palude, ormai incapaci di lottare, ma che sopravvivono e resistono con un adattamento pauroso del corpo e dell’anima. Quell’uomo, vedi, si alzerà da letto, passato l’accesso, e, quando avrà qualche soldo, prenderà un’altra sbornia all’osteria e chi sa per quanto tempo. Sono questi i contadini che non credono, non possono credere alla bonifica, e sono recalcitranti al lavoro, e quasi odiano questa sana febbre di fatica , con cui il Regime ha attaccato la terra traditrice…
Qui, per lavorare la terra, è già necessario chiamare marchigiani, romagnoli, gente di lotta e di fede in una terra riscattata…
Anche questa è buona sorte: che la gente d’Italia si mescoli e che la razza, dove s’è fatalmente indebolita, abbia i suoi innesti per rinascere[53]
Strade, case, scuole, stalle ed officine, campi coltivati con competenza e dedizione, canali irrigui avrebbero reso ben presto la campagna popolata.
Popolata come doveva essere migliaia di anni fa, quando si racconta che dodici furono le città fiorenti in tutta questa piana; quando, anche prima dei romani, un’altra civiltà era prospera in questa terra, e forse la sapienza degli etruschi, espertissimi nelle canalizzazioni, era giunta fin qui dalla Toscana e dall’Umbria nostra. Anche le terre hanno le loro vicende, che sembrano a noi lunghe e lente perché contate a secoli. Ma che osa è un secolo, che cosa è un millennio per la terra? Ebbene comincia ora il millennio della prosperità, e ritorna l’agro pontino a congiungersi come un tempo, nella sapienza agricola e nella ubertosità popolata, con la nostra Umbria e con la Toscana. Oggi che l’Italia di Mussolini è etrusca, romana e cristiana, la bonifica fascista avvalora finalmente gli sforzi delle canalizzazioni preromane, romane e papali.[54]
La certezza del ritorno del “millennio di prosperità”, novella età dell’oro, voluta dall’uomo della Provvidenza, poteva convincere Vittorio e, con lui, tutti i lettori coetanei di essere destinati ad un futuro di prosperità e di grandezza, debitori per sempre al loro Duce che li guardava con “occhi d’aquila”.
- La “battaglia del grano” a scuola: le immagini
Non è chiaro come e quando il Liceo Galvani sia venuto in possesso del pacchetto propagandistico di 50 diapositive sulla battaglia del grano e le bonifiche del regime. I registri d’entrata del materiale scolastico per buona parte degli anni Venti mancano o sono generici. Potrebbe essere stata un’iniziativa del Ministero ma anche una donazione. Il fine è però evidente ed è quello di informare gli studenti, celebrare ai loro occhi un’iniziativa del regime e suscitare consenso ed ammirazione.
Che il pacchetto non sia confezionato con troppa cura risulta anche dall’immagine ripetuta (12, 50) ma proposta con differente didascalia. Nel primo caso è una “Semina a file abbinate”, nel secondo “Un campo di frumento seminato a file abbinate”. E’ come se il curatore, arrivato alla quarantanovesima diapositiva, per fare cinquanta, ne avesse cercato una abbastanza generica da non dare nell’occhio allo spettatore, sia pure attento.
Le immagini, sia pure prive di qualità, si snodano secondo un filo conduttore chiarissimo, di stampo propagandistico.
Si inizia con il Duce che premia i “militi devoti della Vittoria del grano” (im.1) e si continua con una rassegna di macchine che alleviano la fatica dell’uomo e modernizzano l’agricoltura, entrando nelle fondamentali operazioni di aratura (im. 2), concimazione (im. 3), semina (im.12), erpicatura (im.13), rincalzatura (im.14), sarchiatura (im.15), mietitura (im.16) e trebbiatura (im.18). Spesso la macchina ha bisogno della trazione animale (imm. 11, 14, 15, 16). Qua e là sono inserite immagini di specie di frumento differenti adatte a terreni diversi (imm. 4, 5, 7) e di rigogliosi campi di grano (imm. 6, 8, 20). Qui si fanno interessanti i nomi: se Edda, per denominare una spiga, è un tributo alla figlia del Duce, Tripoli ricorda le conquiste coloniali. Altre specie che non compaiono in queste immagini, avevano ricevuto il nome di Mentana e Villa Glori per la riappropriazione del mito garibaldino, non senza una traccia di anticlericalismo. Il frumento Ardito e Vittorio Veneto ci riportano al mito della Grande Guerra, dei cui valori il fascismo vuole essere custode e continuatore. Insomma un compendio di storia e glorie attraverso le spighe.
Si apre poi il capitolo della bonifica: paesaggi prepotentemente rimodellati e adattati ai bisogni dell’uomo (imm. 21, 27, 28, 30, 31, 32). Terreni vengono spianati (imm. 21, 22), creste livellate con la dinamite (im. 30), terreni prima incolti vengono messi a coltura (imm. 27, 28) ed arati in profondità (im. 38). Laddove cresceva un’invadente ed inutile vegetazione palustre (im. 36) sorgono, con l’opera di bonifica ed appoderamento, case (imm. 23, 33, 35, 46), strade (im. 34), scuole (im. 48), aziende (imm. 37, 44), persino uno stabilimento enologico (im. 49). Si veda la più retorica delle didascalie “Bonifica di Terralba. Sorgono le case e biondeggiano le messi”: è il linguaggio dei cinegiornali Luce. D’altra parte la campagna propagandistica è una.
Il tema più insistito è quello della sistemazione idraulica dei territori bonificati. Si va dall’impianto di sollevamento dell’acqua a scopo irriguo (im.24) all’acquedotto in cemento armato (im. 26), alle dighe (imm. 29, 43), alla tubazione per irrigazione (im. 39). Anche l’immagine più efficace della serie riguarda questo tema: è l’immagine 25 dedicata ad una pompa centrifuga le cui proporzioni sono esaltate dal confronto con l’uomo posto a fianco. Realizzata da un’industria italiana, la Franco Tosi di Legnano, aveva dimensioni titaniche e forse prestazioni straordinarie e valeva a celebrare l’intelligenza e la perizia costruttiva italiana oltre che la volontà del regime di rinnovare il paese con una prepotente modernizzazione dei mezzi tecnici, usati dall’uomo.
Che le cinquanta diapositive siano state usate dalla didattica di allora non sappiamo – ma di insegnanti proni al regime il “Galvani” ne aveva – che abbiano entusiasmato gli studenti lo possiamo escludere. Per noi oggi sono una fonte storica di un certo interesse, capace di introdurre ad un discorso articolato sul regime fascista, sulla società italiana e sulla scuola. Il distacco critico con cui vengono guardate dallo studente odierno ne rende l’utilizzazione proficua, soprattutto quando si crede che nei giovani la consapevolezza del passato debba crescere non sui racconti manualistici.
[1] L’immagine è contenuta nel numero speciale de L’Italia Agricola, 15 settembre 1925, dedicato al frumento.
[2] Il monito del Duce all’Europa in La nostra terra, n. 39, 15 agosto 1929.
Il passo è ricavato dall’editoriale. La rivista quindicinale era stampata a Bologna dalla Federazione Provinciale dei Sindacati Fascisti Agricoltori.
[3] Il mito della terra e l’antiurbanesimo sono efficacemente indagati da Pier Giorgio Zunino in L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Bologna, Il Mulino, 1985. All’autore non sfugge che gli anni dell’ideologia anticittadina sono quelli dell’architettura razionalista e del monumentalismo piacentiniano, comunque due modi di pensare e realizzare la città.
[4] P. G. Zunino, op. cit., pag. 301.
[5] ibidem, pag. 302.
[6] ibidem, pag. 303.
[7] Sono numerosissimi i passi dei discorsi di Mussolini che si potrebbero prendere. Basti questo in data 14 ottobre 1928: “…i bravi rurali che combattendo nelle prime linee, si sono meritati il nome di véliti cioè soldati veloci, dell’agricoltura italiana”.
[8] La tesi è sostenuta da J. S. Cohen, Rapporti agricoltura-industria e sviluppo agricolo in L’economia italiana nel periodo fascista a cura di P. Ciocca e G. Toniolo, Bologna, Il Mulino 1976. Del medesimo parere P. Corner, Rapporti tra agricoltura e industria durante il fascismo, in Il regime fascista a cura di A Aquarone e M. Vernazza, Bologna, Il Mulino, 1975 e D. Preti, La politica agraria del fascismo, in “Studi storici”, n.4, 1973.
Sull’argomento sono interessanti gli studi di E. Sereni, La politica agraria del fascismo in Fascismo e antifascismo (1918-1948), Milano, Feltrinelli 1962 e di E. Fano Damascelli, Problemi e vicende dell’agricoltura italiana tra le due guerre, in “Quaderni storici”, n.29-30, 1975.
[9] Il discorso è riprodotto anche in L’agricoltura bolognese, Anno VIII, N.12, Bologna dicembre 1929. Si trattava del bollettino mensile pubblicato dalla Cattedra ambulante di agricoltura di Bologna.
[10] Altre città furono Aprilia e Pomezia nell’Agro Romano, Fertilia, Mussolinia, oggi Arborea, e Carbonia in Sardegna.
[11] Le bonifiche in I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, a cura di Mario Isnenghi, Bari, Laterza 1996, Pagg. 412-413.
[12] L. Malvano, Fascismo e politica dell’immagine, Torino, Bollati Boringhieri 1988
[13] Segnalo per l’ottima introduzione di Mimmo Franzinelli, Immagini di una dittatura, il volume Il Duce proibito, Mondadori 2003, da lui curato insieme a Emanuele Valerio Marino. Utilissimi: P. V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media,Bari, 1975 ; M. Argentieri, L’occhio del regime, Firenze, 1979; G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano, Roma, 1993.
[14] “Ma le infinite metamorfosi di Mussolini – tribuno e giornalista, cavaliere e contadino, motociclista e aviatore, padre di famiglia e dongiovanni – non sono state soltanto il prodotto dell’impegno propagandistico del dittatore e dei corifei del regime. Sono state anche il prodotto della vocazione mitopoietica degli italiani.” S. Luzzatto, Il corpo del duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria, Torino, Einaudi 1998, pag. 17.
[15] Ottimo è il contributo di G. Bernagozzi, Dall’informazione al consenso attraverso i cinegiornali Luce e gli altri media in Annale 1982-83., Istituto Regionale per la storia della Resistenza e della guerra di Liberazione in Emilia-Romagna, pagg. 429-458. Ha anche il merito di elencare in appendice tutti i servizi attinenti al mondo agricolo dal 1928 al 1940. Dello stesso autore esistono numerosi altri interventi sull’argomento.
[16] Il cinema in I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Bari, Laterza 1997, pag. 234.
[17] L’incipit merita di essere riportato: “In questi giorni, sotto questo sole che va particolarmente a genio a noi uomini della zolla e della grande estate…”
[18] B. Mussolini, Agli agricoltori del Polesine, 15 dicembre 1926, in Scritti e discorsi, Edizione definitiva, Ulrico Hoepli, vol V.
[19] B. Mussolini, Ai rurali d’Italia, 13 novembre 1928, in Scritti e discorsi, Edizione definitiva, Ulrico Hoepli, vol VI.
[20] B. Mussolini, Ai véliti del grano, 10 ottobre 1926, in Scritti e discorsi, Edizione definitiva, Ulrico Hoepli, vol V.
[21] B. Mussolini, Ritorno alla terra, 4 luglio 1933, in Scritti e discorsi, Edizione definitiva, Ulrico Hoepli, vol VIII.
[22] B. Mussolini, Per la battaglia del grano, 30 luglio 1925, in Scritti e discorsi, Edizione definitiva, Ulrico Hoepli, vol V.
[23] B. Mussolini, Ai “fedeli alla terra”, 3 maggio 1936, in Scritti e discorsi, Edizione definitiva, Ulrico Hoepli, vol X.
[24] Rivista illustrata del popolo d’Italia, Anno II, Numero 2, Febbraio 1924.
[25] Per la più grande spiga d’Italia, ibidem, Numero 4, Aprile 1924.
[26] ibidem, Numero 10, Ottobre 1924.
[27] ibidem, Anno III, Numero 11, Novembre 1926.
[28] ibidem, Anno IV, Numero 3, Febbraio 1925.
[29] ibidem, Anno IV, Numero 9, Settembre 1925.
[30] La consultazione di numerosi esempi di periodici locali mi è stata possibile grazie alla vasta collezione di materiali a stampa dell’epoca di Umberto Faedi che ringrazio.
[31] N. Tranfaglia, La modernizzazione contraddittoria del fascismo, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, UTET, 1995, vol. XXII, pag.641.
[32] A. Monticone, Il fascismo al microfono. Radio e politica in Italia (1924-1945), Roma, Edizioni Studium 1978, pagg.94-96.
[33] Il libro della seconda classe, La Libreria dello Stato, Roma-IX, pag.137.
[34] ibidem, pag.138.
[35] ibidem, pag. 135.
[36] ibidem, pag. 136.
[37] Il libro della terza classe elementare, La Libreria dello Stato, Roma-IX, pagg.93-94.
[38] Derivo queste informazioni dal testo, a mio parere, più specifico sull’argomento: Liliano Faenza, Fascismo e ruralismo, Edizioni Alfa Bologna 1975.
Presentato come comunicazione orale al ciclo di lezioni “Fascismo, antifascismo e Resistenza”, tenutosi a Rimini nel 1974, è diventato un volumetto che studia con attenzione i libri di lettura del triennio superiore delle scuole elementari, scritti da Grazia Deledda, Angiolo Silvio Novaro e Roberto Forges Davanzati. L’opera di quest’ultimo è indagata in parallelo con Cuore di De Amicis e Testa diMantegazza. Nella prefazione al volume Ugoberto Alfassio Grimaldi approva la chiave di lettura di Faenza e conviene che Il balilla Vittorio sia un Cuore ” non più languoroso ma leonino”,”indurito e convertito ai fasci”, con un protagonista che appare “un Emilio Bottini in camiciola nera”.
[39] R. Forges Davanzati, Il balilla Vittorio, La Libreria dello Stato, Roma, pag. 24.
[40] ibidem, pag. 44.
[41] ibidem, pag. 138.
[42] ibidem, pag. 303.
[43] ibidem, pag. 116.
[44] ibidem, pag. 125.
[45] ibidem, pag. 126.
[46] ibidem, pag. 221.
[47] ibidem, pag. 62.
[48] ibidem, pag. 19.
[49] ibidem, pagg. 90, 91, 92
[50] ibidem, pag. 56.
[51] ibidem, pag. 162.
[52] ibidem, pag. 268.
[53] ibidem, pag. 256.
[54] ibidem, pagg. 260, 261.