Il mondo fuori. Sessantotto e dintorni al Liceo Galvani (II)

Il mondo fuori. Sessantotto e dintorni al Liceo Galvani

 

(seconda parte)

Articolo della Prof.ssa Verena Gasperotti pubblicato nei Quaderni di cultura del Galvani, anno 24, nr. 2, 2019 (prima parte) e nel nr. doppio anno 25-26, nr. 1-2, 2021-22.

 

di Verena Gasperotti

Potrebbe essere un fiume grandissimo
Una cavalcata di scalpiti un tumulto un furore
Una rabbia strappata uno stelo sbranato
Un urlo altissimo

Ma anche una minuscola erba per i ritorni
Il crollo d’una pigna bruciata nella fiamma
Una mano che sfiora al passaggio
O l’indecisione fissando senza vedere

Qualcosa comunque che non possiamo perdere
Anche se ogni altra cosa è perduta
E che perpetuamente celebreremo
Perché ogni cosa nasce da quella soltanto

Ma prima di giungervi
Prima la miseria profonda come la lebbra
E le maledizioni imbrogliate e la vera morte
Tu che credi dimenticare vanitoso
O mascherato di rivoluzione
La scuola della gioia è piena di pianto e sangue
Ma anche di eternità
E dalle bocche sparite dei santi
Come le siepi del marzo brillano le verità.

Franco Fortini, Il futuro avvenire

A distanza di un anno e in un momento storico particolarmente complesso, prosegue il racconto della storia del liceo Galvani nei tardi anni Sessanta avviato nel numero dei Quaderni del dicembre 2019. E’ inevitabile porre a confronto l’osmosi col mondo “fuori” invocata dai giovani “sessantottini” con la necessaria imposizione di limiti che, in questa fase, costringono tutti noi a restare “dentro”. Le aule e i corridoi dello storico liceo, teatro delle vicende narrate, sono in questi giorni spettralmente vuoti; gli studenti si trovano confinati nelle loro case ed entro le griglie (simboliche e reali) di uno schermo, luogo virtuale di un dialogo educativo che si tenta tenacemente di mantenere vivo.

Anziché costituire un motivo di coesione e di solidarietà reciproca, l’attuale pandemia sembra avere accentuato la preesistente lacerazione del nostro tessuto sociale, rischiando di imprimere un nuovo vulnus nel rapporto intergenerazionale: i giovani sono ora chiamati a tutelare, vincolando non senza fatica le loro libertà, la società tutta e in particolare, come vuole certa narrazione, gli “anziani”. Tra questi ultimi contiamo i ragazzi di ieri, qui raccontati nel loro ricercare un nuovo senso della libertà e della partecipazione (o forse della libertà come partecipazione) e ad abbattere, anche per le future generazioni, le nette geometrie entro cui erano tracciati i rapporti affettivi e sociali. Si tratta di un cortocircuito significativo, utile a sollecitare una riflessione sul significato di “libertà” e sul possibile ulteriore deterioramento del già esile filo della memoria che lega il dialogo tra generazioni. Dove non c’è cura del passato, e di coloro che ne sono i testimoni (fortunatamente non muti), si slabbra anche la trama di un presente già appiattito, nella percezione dei giovani, da una tecnologia infiltrativa che segmenta il divenire in una successione di istanti senza racconto. Dove non c’è racconto, l’identità si disgrega in rivoli e frammenti, sancendo il venir meno, insieme al “noi”, anche del senso dell’io e della sua progettualità, ulteriormente inibita dal profilarsi di un futuro nebuloso e in balia di forze imperscrutabili. Dove non c’è progettualità, si assottiglia la fiducia di poter incidere sulla realtà e di trasformarla per renderla più vivibile: tale era il sogno dei giovani di cui coglieremo le voci, un sogno tanto difficile per i ragazzi che in questi giorni guardano il mondo dietro a una finestra o attraverso uno schermo.

Raccogliamo dunque il filo del racconto interrotto: dopo uno sguardo sul mondo degli adulti e dei giovani del tempo, approderemo all’anno 1969, che trova come sua drammatica conclusione periodizzante il 12 dicembre. Vale, come premessa generale, quanto osservato nel preambolo della prima parte: il focus della ricerca è circoscritto alla microstoria del liceo Galvani e le vicende sono ricostruite sulla base delle fonti di archivio e delle testimonianze, sempre preziose, delle alunne e degli alunni dell’epoca. Fondamentale si è rivelato l’accesso a nuovi documenti, in particolare grazie all’archivio personale di Giuliano Berti Arnoaldi Veli, il quale mi ha messo generosamente a disposizione alcuni numeri de La Rana del periodo 1966-1968 e un fascicolo di volantini e scritti dell’epoca meticolosamente conservati. Come accaduto in precedenza, la ricerca si è dilatata al punto da costringermi a sacrificare alcune piste di indagine che mi ero ripromessa di approfondire e il cui sviluppo dovrò quindi rimandare a una futura occasione.

Non posso che rinnovare i ringraziamenti a coloro che con i loro ricordi mi hanno permesso di immergermi nell’atmosfera del tempo, rendendo vive le polverose pagine delle fonti di archivio: Nicola Baldini, Stefano Bonaga, Mauria Bergonzini, Giuliano Berti Arnoaldi Veli, Francesco Bottino, Stefano Cammelli, Silvia Evangelisti, Stefano Falqui Massidda, Gianpiero Ghini, Giorgio Graffi, Alberto Guenzi, Gaetano Insolera, Paolo Isola, Giorgio Orlandi, Doda Pancaldi, Enrico Petazzoni, Patrizia Pulga, Riccardo Rossi, Sandra Soster e, naturalmente, Padre Franchini. Alcuni di loro hanno avuto anche la gentilezza di scrivere una testimonianza di prima mano. Grazie anche a Guido Armellini, Paola Bacchetti, Carlo D’Adamo, Jertha Patron, Gianpaolo Rossini e Aldo Sassi per più recenti e altrettanto illuminanti conversazioni. Ringrazio per la disponibilità e la professionalità Fabrizio Billi dell’archivio Artemisio Assiri, Luca Pastore dell’Istituto Parri, il personale dell’Istituto Gramsci e dell’Archiginnasio. Riservandomi ogni responsabilità per errori e omissioni, desidero esprimere la mia sentita gratitudine a Giorgio Graffi e Benedetta Nanni per avere letto e commentato una prima stesura dell’articolo.

    1. Professori, padri e navi pirate: gli adulti di fronte alla tempesta

Ma mio padre è un ragazzo tranquillo
La mattina legge molti giornali
È convinto di avere delle idee
E suo figlio è una nave pirata
E suo figlio è una nave pirata

F. De Gregori, Le storie di ieri

 

La vicenda dell’allontanamento da parte del preside di padre Franchini, che aveva catalizzato nell’autunno del 1968 le inquietudini degli studenti del liceo Galvani, si rivela il termometro della complessa e incerta coesione degli adulti di fronte all’assalto all’ordine simbolico entro cui avevano costruito le loro certezze.[1] Tale ordine, nella quotidianità dei giovani, si oggettivava nell’uscio di casa, passaggio sorvegliato tra sfera pubblica e privata, e nel portone del liceo, accesso a un luogo di iniziazione a saperi e privilegi generalmente riservati a un’élite, i cui spazi erano a loro volta definiti all’insegna della demarcazione di chiare gerarchie tra presidi, professori e studenti. Come altrove in Italia e nel mondo, gli studenti del liceo bolognese contestavano le barriere che rendevano asfittiche la sfera famigliare e scolastica, invocando un’osmosi con la realtà del mondo “fuori” dagli spazi protetti del loro cursus honorum: “Ciò che tradizionalmente è sempre stato chiuso deve essere aperto, ciò che conserva presunti valori incrollabili va smantellato. Quei valori si identificano con quegli spazi chiusi, sono l’incarnazione della chiusura, di vecchie idee, di posizioni sclerotizzate. Il Potere si protegge con muri, porte, chiavistelli. E allora bisogna abbattere, spalancare, fare entrare aria nuova. Per questo la piazza diventa il centro della nuova vita voluta dal movimento, la piazza con la sua ricchezza di voci, di flussi, di attraversamenti, di incontri, di risse, di feste, che mette in crisi tutti i confini”.[2] Nei giorni delle agitazioni dell’autunno del 1968, non a caso, al Galvani si avverte l’esigenza di ridisegnare gli spazi scolastici all’insegna di una topografia ideale che mette in scena il dialogo tra aula e piazza.[3]

Molti docenti dello storico liceo si trovano sguarniti e sgomenti di fronte a una situazione inaspettata che mette in discussione l’orizzonte assiologico e le gerarchie scolastiche tradizionali, ponendoli di fronte all’evidenza della profonda differenza tra autorità e autorevolezza. Non è sufficiente trovarsi “dall’altra parte della barricata” per individuare un orientamento comune, e il preside Umberto Marcelli, dismessi i panni dell’avvocato degli studenti del ginnasio di fronte alla rigidità di professori inclini a un’impietosa selezione, si trova in più occasioni a sollecitare la solidale compattezza del corpo docente, stigmatizzando l’atteggiamento non sufficientemente collaborativo di chi si rifiuta di prestare sorveglianza alle assemblee, oppure si dà malato nelle giornate di protesta, per non parlare naturalmente dei pochissimi che fanno trapelare sospette simpatie o anche solo un atteggiamento di ascolto nei confronti delle rivendicazioni dei giovani contestatori.[4]

La drammatica seduta del collegio dei professori del 15 novembre 1968, ricostruita nella prima parte dell’articolo, costituisce l’occasione per cogliere, pur nella prosa comprensibilmente asciutta e sorvegliata del verbale, le tensioni più o meno latenti tra il preside Umberto Marcelli e i rari docenti inclini a mettere in discussione pubblicamente, sebbene per ragioni diverse, la linea stabilita dal capo di Istituto, deciso a interrompere il dialogo con gli studenti. Ricordiamo infatti che nel corso della riunione si crea un clima di tensione e, a tratti, di conflitto tra preside e docenti e tra gli stessi professori. Qualcuno insinua che l’atteggiamento di chiusura di Marcelli rispetto alla richiesta di assemblee da parte degli studenti abbia acceso la miccia della protesta, mentre in altre scuole le assemblee sono concesse; altri rimproverano il mancato coinvolgimento dei docenti nelle sue decisioni, per cui se il preside “ha avuto l’impressione di non poter contare sulla collaborazione dei professori, i professori hanno avuto l’impressione di essere stati lasciati da parte”; una docente ricorda che la Giunta comunale aveva denunciato l’illegalità degli interventi della polizia sollecitati dai presidi nelle scuole.[5] Il preside tenta di liquidare tali critiche assumendo il consueto atteggiamento legalistico, ma gli riesce decisamente più difficile arginare l’intervento della professoressa Olga Prati, la cui ricostruzione delle vicende che avevano condotto alla frattura con gli studenti mette in serio dubbio la coerenza della linea tenuta dalla dirigenza. Tale presa di posizione genera uno scontro acceso tra la docente e la prof.ssa Grandi, la quale fa riferimento in un suo intervento a “docenti che istigavano alla ribellione contro la scuola, la famiglia”. Indignata per tali allusioni, Olga Prati non può replicare all’insinuazione che ritiene la riguardi personalmente, in quanto il preside le nega la parola affermando che nessuno in particolare dovesse “risentirsi delle parole pronunciate dalla prof.ssa Grandi”. La seduta si conclude, ricordiamo, con la decisione dei docenti di rivolgere un appello al Parlamento affinché dirami direttive chiare utili a colmare il vuoto legislativo messo in luce dalla situazione.[6]

Si tratta di una conclusione che segna una tregua apparente e di breve durata. Il 23 dicembre 1968 viene convocata una riunione straordinaria del collegio dei professori, nel cui ordine del giorno è prevista solo l’approvazione del verbale della seduta precedente e la cui apertura fa comprendere sino a che punto l’incrinatura tra i docenti sia giunta a un punto di non ritorno. Si decide infatti di usare un registratore “onde ottenere una riproduzione assolutamente fedele di tutti gli interventi”, scelta indicativa di un clima di diffidenza e sospetto reciproco. Dopo la lettura del verbale precedente, il preside Marcelli sottopone all’attenzione del collegio una lettera della prof.ssa Prati, la quale torna sulle accuse della collega Grandi, a suo avviso rivolte inequivocabilmente alla sua persona:

Egregio Signor Preside, con riferimento alla seduta ultima del Collegio dei Professori di questo Istituto La prego di voler chiedere alla collega Prof.ssa Grandi di rendere esplicito il senso di alcuni passi dell’intervento della medesima pronunciato in quella seduta. Come Ella ricorderà, dopo il mio intervento, sereno e distaccato, nel quale richiamavo fatti per i quali possono anche darsi diverse valutazioni, la collega Prof. Grandi affermò che in questo Istituto vi sono sobillatori del movimento studentesco, e venne usato dalla collega l’epiteto di “delinquente” con riferimento esplicito alla mia persona. Chiedo a Lei, quale garante e tutore dell’ordinato svolgimento delle riunioni dei professori, che il chiarimento che sarà fatto dalla collega venga messo a verbale della riunione così come venga verbalizzata la presente richiesta. Con l’occasione non posso inoltre non richiamare la Sua attenzione sull’eco, distorta e amplificata che ha avuto, alla riunione tenuta in sala Bossi, quella seduta del collegio dei Professori del nostro Istituto.[7]

Il riferimento alla riunione che si era tenuta nella sala Bossi, in piazza Rossini, impone un piccolo passo indietro, che ci riporta al mese di novembre. Un gruppo di genitori del liceo, di concerto con il preside, aveva infatti organizzato per il giorno 21 novembre un incontro a cui Marcelli aveva invitato per iscritto anche i professori “per discutere la situazione che si è venuta creando nell’interno dell’istituto in conseguenza delle agitazioni studentesche.”[8] Tale incontro, spesso definito come “riunione dei padri” nei verbali e nei ricordi degli ex studenti, evidenzia come negli equilibri famigliari dell’epoca (e la cosa non sorprende) fossero i padri a rivestire un ruolo nella sfera pubblica, mentre le madri sembravano destinate a essere relegate alla dimensione domestica. Alcuni ex studenti ricordano i resoconti di coloro che avevano partecipato alla riunione, nel corso della quale i padri più tradizionalisti si erano espressi con veemenza contro il movimento studentesco e contro alcuni genitori e docenti che si mostravano più sensibili alle rivendicazioni dei giovani. La situazione era degenerata al punto che Luigi Orlandi, politico del PCI e Senatore della Repubblica, era stato anche minacciato fisicamente, come rammenta il figlio Giorgio. Ecco un ricordo di Doda Pancaldi a proposito della “chiamata dei nostri padri (sì, solo e obbligatoriamente padri) a scuola in assemblea per valutare come reprimere i nostri bollenti spiriti”:

Mio padre che non aveva mai messo piede in una mia scuola si è lasciato convincere solo dalla presenza del senatore Luigi Orlandi, antifascista storico e padre di un mio compagno di sezione, che mio padre ha visto picchiare e perseguitare ripetutamente nel ventennio essendo suo vicino di casa. E’ tornato confortato dalle sue parole di fiducia in noi giovani, ma mentre parlava decine di altri padri lo subissavano di improperi e mi ha raccontato le sue tristi impressioni davanti alle intemperanze di altri genitori che non aveva mai rilevato nemmeno in parlamento.[9]

Tornando alla riunione dei professori del 23 dicembre, la prof.ssa Grandi risponde ribadendo di avere genericamente condannato le violenze del movimento studentesco senza nominare il liceo Galvani e i colleghi. La maggior parte dei docenti del collegio conferma a una poco convinta Olga Prati che il suo nome o il nome dell’istituto non sono stati pronunciati, ma la docente verbalizzante prof.ssa Fanti dichiara di avere preso l’appunto: “accusa la prof. Prati di violenza e istigazione”. Il preside spiega di essere stato presente alla riunione della sala Bossi, dove “nelle grida dei padri <<ci sono dei professori che sobillano>> non era implicito un riferimento alle parole della prof.ssa Grandi nella riunione del 15 novembre.” La Prati insiste sul fatto che invece il riferimento esplicito a lei stessa sia stato fatto da un padre che aveva preso la parola e conclude chiedendo che tutte le riunioni siano registrate. Il verbale viene approvato da 59 docenti, con un solo astenuto, ma si percepisce, tra le ordinate righe vergate a mano del vecchio registro, la pesantezza del clima che aleggia nella sala.[10]

Olga Prati non era nuova a prese di posizione controcorrente, come dimostra la sua vicenda personale.[11] Ad esempio, era stata l’unica insegnante della scuola a mobilitarsi con altri docenti della regione per chiedere chiarimenti al Ministero circa la vicenda del provvedimento sospensivo adottato nella primavera del 1968 nei confronti del preside del liceo Parini di Milano, Daniele Mattalia, che si era opposto all’intervento della forza pubblica contro gli studenti che avevano deciso l’occupazione. Nell’archivio riservato è infatti presente una comunicazione del 24 aprile 1968 in cui il provveditore di Bologna Gaetano Ranieri scrive al preside Marcelli, menzionando l’adesione della professoressa all’appello e chiarendo che “al Parini la maggioranza era contraria all’occupazione, il preside non informò il provveditore, non si oppose all’occupazione, non si presentò alla riunione convocata in provveditorato per valutare la situazione, si rifiutò di collaborare e di persuadere i ragazzi a disoccupare.”[12] Al liceo Galvani Olga Prati scontava un certo fiero isolamento anche a causa della militanza nel PCI, che all’epoca, in certi contesti tradizionalisti, poteva suscitare quanto meno una guardinga diffidenza, se non un aperto ostracismo, in ossequio a un clima politico ben poco incline a “convergenze parallele”. Nelle riunioni dei docenti il preside Marcelli invitava a prendere le distanze dalle proprie inclinazioni ideologiche in modo da non condizionare i giovani, probabilmente temendo l’influsso di professori di sinistra o presunti tali, come padre Franchini e la stessa Prati.[13]

Lo stigma su certe ideologie e il timore di essere individuati dalle autorità scolastiche come simpatizzanti di tali schieramenti può essere colto, ad esempio, nella lettera che il preside Angelo Campanelli scrive al provveditore il 26 gennaio 1966.[14] Una decina di giorni prima, il 15 gennaio, era stato pubblicato su L’Unità un articolo relativo a un appello per la pace firmato anche da docenti del Galvani, tra cui lo stesso Campanelli.[15] Il preside si trova evidentemente nelle condizioni di dover affannosamente giustificare al suo superiore tale scelta ideologicamente sospetta, spiegando di essere stato coinvolto dal prof. Braccesi “di cui sono noti i sani convincimenti politici”, nella convinzione che l’iniziativa fosse promossa da un comitato universitario “di varie tendenze”, e non certo da un gruppo di professori comunisti. Anche gli altri docenti del Galvani firmatari sono cattolici o per lo meno antitotalitari, sottolinea il preside, il quale precisa come nel quotidiano sia riportato un testo che non è quello da loro firmato, in quanto viene avanzata una critica alle politiche statunitensi che non sarebbe stata da loro condivisa. Il clima politico del tempo è testimoniato anche dalla lettera eloquentemente allusiva che un genitore indirizza al preside Marcelli. E’ il 16 settembre 1968: il padre di F. B., bocciata a suo avviso ingiustamente, richiama “la Sua autorevole attenzione sul caso in oggetto che mi ha costretto, mio malgrado, a constatare come fatti del genere rientrino in un sistema di leggerezza e nello stesso tempo di intransigenza tanto in uso attualmente; sistema che a quanto sembra è arrivato ad avvolgere nelle sue spire anche esponenti di contesti di Destra (correnti alle quali sembra che Lei appartenga).” La lettera si conclude così:

Sono stato soldato (volontario in due guerre ecc. ecc.) e la mia mentalità è rimasta quella che era, compreso il mio orgoglio e la mia dignità; la mia mentalità, dicevo, è sempre la stessa di un tempo, di quel tempo ormai trascorso in cui i genitori riponevano la massima fiducia nel Corpo Insegnante. Lei, sig. preside, mi ha costretto a ricredermi e il mio rammarico non posso esprimerglielo che negandoLe il diritto di appartenere alla stessa Corrente Politica alla quale io appartengo.[16]

Se Olga Prati e altri docenti devono misurarsi con un contesto ostile a coloro che escono dai ranghi e mostrano attenzione, se non simpatia, nei confronti delle proteste studentesche, anche il fronte dei genitori appare piuttosto variegato, come testimoniato dalle tensioni della riunione in sala Bossi. La presenza di un folto gruppo di padri conservatori, ostili alle contestazioni e a orientamenti politici di sinistra, è risultata evidente nella prima parte dell’articolo: lo stesso padre Franchini ricorda le pressioni di alcuni genitori che sollecitavano il preside affinché lo allontanasse e, come abbiamo potuto constatare, Il Resto del Carlino concedeva ampio spazio a tali lamentele. L’archivio storico del Liceo conserva rare tracce di queste voci: emblematica la lettera del primo aprile 1969 del genitore M. R., il quale si lamenta del fatto che il figlio, nella pagella del secondo trimestre, ha preso lo stesso voto in condotta di altri, “ivi compresi i contestatori più agitati e coloro che costantemente hanno fatto sciopero”, mentre il figlio “ha sempre difeso con tutta la sua energia l’ordine, la disciplina e lo studio”.[17]

Accanto ai padri più tradizionalisti, nei racconti degli ex studenti e nei documenti di archivio prendono forma figure di genitori pronti a comprendere o a sostenere, in qualche misura, le rivendicazioni dei figli. Mauria, figlia di Luciano Bergonzini, conserva ancora la giustificazione del padre per il giorno 6 novembre 1968, nella piena fase dei disordini il cui casus belli era stato l’allontanamento di padre Franchini. Bergonzini pater giustifica l’assenza della figlia, “essendosi vista nell’impossibilità di entrare nella scuola ed avendo in seguito, di sua spontanea volontà, partecipato ad una manifestazione civile, esercitando con ciò un diritto di libertà espressamente sancito dalla Costituzione della Repubblica”.[18] La figlia ricorda:

Ho ritrovato fra le carte di casa una nota di mio padre Luciano scritta per giustificare una mia assenza dovuta alla partecipazione ad un corteo studentesco. Come giustificare formalmente questo tipo di assenze? Se ne parlava molto, sempre alla ricerca di soluzioni accettabili per la burocrazia scolastica ma, allo stesso tempo, non troppo biecamente mascherate dietro semplici “lievi indisposizioni” o “motivi familiari”. Non ricordo quale fosse l’insegnante cui consegnai la giustificazione in cui mio padre faceva riferimento alla libertà di partecipazione di cui avevo goduto nel pieno rispetto della Costituzione. Ora, riflettendo, mi pare anche strano che questa nota non sia stata conservata fra le pagine del registro di classe insieme alle tante altre carte di giustificazione, permessi, certificati…. Forse non era adeguata? forse il linguaggio era sorprendente rispetto alle consuetudini? O non era considerata una giustificazione valida? Non so e non ricordo se ci furono conseguenze. Certo è che sono orgogliosa di quelle righe (la cui importanza credo di non avere capito allora, se non in modo generico) e felice di averle ancora con me e non disperse negli archivi del “Galvani”.[19]

La questione non era finita lì ed evidentemente la giustificazione era stata a tutti gli effetti giudicata irricevibile. In archivio è presente una lettera di Luciano Bergonzini, il quale pochi giorni dopo, il 20 novembre 1968, si rivolge alla prof.ssa Grandi, già protagonista dello scontro con Olga Prati, incredulo per il fatto che la docente abbia appellato la figlia e altri compagni con l’epiteto “mascalzoni” e “altre parole irriguardose”. Bergonzini fa riferimento a un “dibattito ideale che nell’interno della Scuola è in atto”, rispetto al quale a suo avviso “la funzione educativa di un insegnante debba esplicarsi innanzi tutto nei rapporti umani con gli studenti al di là delle opinioni individuali che comunque vanno rispettate, anzi esaltate come prova di vitalità democratica”. La risposta della Grandi è un documento interessante per cogliere il punto di vista dei docenti di fronte agli eventi di quel tumultuoso novembre, sicuramente non del tutto ricostruibile a partire dagli scarni interventi verbalizzati nei consigli dei professori. Il primo dicembre, infatti, la professoressa spiega per iscritto al genitore che il giovedì precedente alcuni alunni “(in media tre per classe), facendo irruzione nelle aule, hanno tentato a più riprese di impedire a me e ai loro compagni il normale svolgimento delle lezioni. […] Proprio perché, come Lei dice, le opinioni individuali devono essere rispettate, non vedo per quale ragione la maggioranza dei miei alunni, decisi quella mattina ad ascoltare le mie lezioni, dovesse subire le imposizioni di pochi turbolenti. […] Io, con le mie parole, ho chiarito il diritto di libera opinione dei giovani (e, se mi permette, anche degli insegnanti).”[20]

Le carte conservate nell’archivio riservato rivelano anche lo sconcerto indignato di fronte ai disordini del prof. Polloni, temutissimo ma anche amatissimo dai suoi studenti. Il docente di lettere della sezione F si trova in più occasioni in disaccordo con le provocazioni dei giovani contestatori e già il 16 marzo 1968, in una lettera al preside che fa riferimento al collegio del giorno prima, prende le distanze da coloro che criticano la legalità e il parlamento, da loro definito come una “istituzione vecchia e superata”. Anche in occasione dei disordini dell’autunno del 1968, il docente comunica al preside Marcelli che mentre era “in I F alle 9.30 quel giorno stesso sono entrati una decina di disturbatori e hanno ordinato di smettere perché era decisa l’occupazione della classe. Io protestavo per il sopruso richiamandomi alle vigenti leggi della scuola: chiedevo il nome e cognome dei disturbatori ma nessuno si dichiarava; insistevo perentoriamente perché i disturbatori uscissero, ma inutilmente”. I ventidue alunni presenti protestano e vogliono continuare la lezione, nel racconto di Polloni, ma vengono definiti dai contestatori “vigliacchi perché temevano il professore, il quale invitava a uscire quelli che volevano, liberamente: nessuno dei presenti in aula dei 22 usciva. Qualche disturbatore volle insegnare al professore che cosa è <<democrazia>> […] Solo dopo una mezz’ora gli occupanti sono usciti dall’aula, protestando e offendendo i presenti.”[21]

Probabilmente uno dei conflitti più drammatici tra un docente e uno studente di cui resti traccia in archivio in relazione a quel periodo è quello tra il prof. Dario Galli e lo studente Alessandro Berti Ceroni. Lo scontro scoppia nell’autunno del 1969, in seguito a una battuta del giovane all’indirizzo del docente circa la sua incapacità di insegnare, con strascichi significativi anche nei mesi successivi, tanto da condurre a una denuncia da parte del professore per oltraggio a pubblico ufficiale e a un’ispezione ministeriale. Senza entrare nei dettagli della vicenda, è possibile comunque coglierla come un esempio paradigmatico della chiusura da parte dei certi insegnanti nei confronti delle nuove istanze giovanili, percepite come offensive e oltraggiose, oltre che confuse e velleitarie. Il 13 dicembre 1969 Galli scrive infatti un polemico promemoria sulla vicenda indirizzato al preside, nel quale non manca di produrre un profilo dell’alunno che oggi non può non strappare un sorriso: “capellone e filocinese dichiarato, più volte ripetente, non mostra alcun interesse e attitudine per lo studio. Non ha rispetto per le istituzioni civili e per l’autorità costituita. Non ha idee e pretende di averne, non sa parlare e vuole sempre prendere la parola”; inoltre, “ha frequentato saltuariamente le lezioni, sostenendo pubblicamente che un alunno deve andare a scuola quando gli pare e piace.”[22] Lo stesso preside, esasperato dalla vicenda che si trascinerà sino alla fine dell’anno scolastico, cerca una mediazione, trovandosi a constatare, anche in una lettera al provveditore del 22 novembre 1969, che le testimonianze raccolte dai compagni di classe sostanzialmente convergano nel cogliere un atteggiamento persecutorio di Galli nei confronti dello studente e in generale degli alunni con simpatie di sinistra.[23] Tra la corrispondenza riservata sono ancora leggibili i brevi resoconti dei compagni di classe, sollecitati dal preside a ricostruire la vicenda; nella piccola collezione di foglietti vergati con grafie tanto diverse, si coglie la diffusa volontà di fare corpo contro gli adulti che si mostrano caustici e irrispettosi nei confronti dei giovani:

Queste discussioni sono spesso generate dal professore, il quale, all’inizio delle ore di lezione, o quando capita, suole fare sovente apprezzamenti nei nostri confronti e della gioventù in generale, con evidenti allusioni a persone presenti, a volte offensive e provocanti. In questo modo l’alunno viene messo in condizione di ribellarsi e spesso lo fa, a volte scaldandosi troppo e, probabilmente, passando dalla ragione al torto. Questo succede a tutti, poiché, soprattutto al nostro orgoglio di giovani uomini e giovani donne, non risulta affatto tollerabile l’essere trattati come dei cretini e cose simili. […] Noi si vorrebbe più rispetto della nostra dignità (che ormai abbiamo, e deve essere riconosciuta) […]. 

In questa richiesta di rispetto si coglie la strenua lotta per il riconoscimento messa in campo da tanti giovani di una generazione in cerca di una sua identità e di una sua voce.

  • Differenze ontologiche: il mondo dei giovani

E il bambino nel cortile sta giocando
Tira sassi nel cielo e nel mare
Ogni volta che colpisce una stella
Chiude gli occhi e si mette a sognare
Chiude gli occhi e si mette a volare”

Francesco De Gregori, Le storie di ieri

Il magma via via più incandescente delle inquietudini giovanili di quegli anni risulta difficilmente riconducibile a una fisionomia monolitica, sebbene un elemento ricorrente si configuri nella consapevolezza di uno scarto incolmabile tra la propria generazione e quella dei “padri”. La novità di questa autorappresentazione antinomica viene sottolineata da Erik Hobsbawm, il quale osserva come in questo periodo prenda forma l’idea della gioventù non tanto intesa come tappa verso la vita adulta, ma come “lo stadio finale del pieno sviluppo umano”.[24]

Rievocando la sua giovinezza, Lidia Ravera rammenta: “Mi ricordo fondamentalmente la notte fuori, la notte passata al liceo, il senso di eroismo e questa notte strappata alla vita quotidiana e le botte che mi sono presa la mattina dopo tornando a casa. […] Essere giovani nel ’68, negli anni ’70, è stato fin troppo facile. […] Si celebrava un rito collettivo e soprattutto si riteneva […] che i giovani erano ontologicamente rivoluzionari. Questa era la nostra convinzione, che per il solo fatto di essere giovani fossimo portatori di un cambiamento, corifei della rivoluzione. Era una pia illusione, però era molto piacevole”.[25] La “differenza ontologica” tra mondo giovanile e adulto è condensata da Massimiliano Fuksas in una immagine densa di significati che vede contrapposti i plumbei poliziotti imbottiti nei giubbotti pesantissimi, impegnati a reprimere le rivolte, e gli studenti, catturati nella leggerezza degli abiti, dei corpi e delle idee: “Sembravano essere poliziotti dei primi reparti della celere invecchiati con le cariche, imbolsiti sotto il loro pesante elmetto. Erano davvero diversi da noi, con le loro pancette e il loro equipaggiamento così massiccio”, una contrapposizione estetica ed etica che Pasolini avrebbe interpretato in ben altro modo.[26] 

Pur lontani dalle rievocazioni eroiche di una Lidia Ravera o di un Massimiliano Fuksas, i ricordi degli studenti e delle studentesse del Galvani convergono nel mettere a fuoco la convinzione di far parte di una generazione investita della responsabilità di cambiare le storture del mondo, ancorando tale imperativo categorico, paradossalmente, a una condizione transitoria come la giovinezza. Non si tratta di una razionalizzazione a posteriori: prima ancora che scoppiassero i disordini del 1968, la consapevolezza della “differenza ontologica” tra giovani e adulti costituisce un leit motiv ricorrente negli articoli del giornalino scolastico del liceo Galvani, La Rana, che si rivela un osservatorio prezioso per cogliere i pensieri e le voci dei ragazzi di allora nella immediatezza del loro divenire e delle loro declinazioni individuali, prima e al di là delle forzature e delle rigidità del repertorio omologante tipico dei volantini o dei documenti dell’epoca. [27]

Come avremo modo di chiarire meglio, sembra che La Rana nasca in occasione delle celebrazioni del centenario della fondazione del Regio Liceo e che diventi successivamente l’organo ufficiale dell’Organismo Rappresentativo studentesco (OR) sotto gli auspici e l’incoraggiamento del preside Angelo Campanelli.[28] Risulta evidente, nell’avventura del giornalino, l’ingerenza di preside e professori, che vengono frequentemente ringraziati per una “collaborazione” che spesso prende la forma di un vaglio censorio, volto a impedire la pubblicazione di certi articoli o a smussarne e correggerne altri, come ricordano alcuni ex studenti tra cui Giorgio Graffi, che ne fu un attivo direttore e collaboratore.[29] Sebbene non sia certamente un giornalino effervescente e all’avanguardia come La Zanzara del liceo Parini di Milano, si tratta comunque di una pubblicazione incline ad accogliere molteplici sensibilità, opinioni e stili di comunicazione, accomunati dall’autorappresentazione dei giovani come una categoria a parte, in cerca di una identità più precisa e di un riconoscimento. I redattori del giornalino sono perlopiù inclini a posizioni moderate e riformiste, ma aperti anche a voci più critiche e dissonanti per amore del confronto democratico, come frequentemente ribadito. Non a caso, l’ex studente Carlo D’Adamo ricorda collaboratori “di estrazione liberale, repubblicana, socialista, democristiana, comunista, perché La Rana era espressione dell’Organismo rappresentativo studentesco”.[30] Grazie a questa pluralità di voci, le pagine brulicano di inquietudini, domande, tentativi di risposte e analisi che raccontano una generazione nelle sue sfaccettature, costringendoci a ricordare la complessità di quegli anni e a riconoscere che, così come il mondo degli adulti, anche quello giovanile risulta assai composito al suo interno: c’erano infatti anche coloro che guardavano con perplessità e talvolta ostilità al fermento politico che animava le nuove generazioni, sottraendosi a quella che sembrava essere una vocazione connaturata alla gioventù, e paradossalmente rivendicandone la spensieratezza come tratto identitario.

Emblematico per cogliere l’acuta consapevolezza della differenza ontologica tra mondo giovanile e adulto è l’articolo di Gabrio Geraci, eloquentemente intitolato: “NOI…e loro”. Siamo “solo” nel 1967, eppure restiamo colpiti dalla convinzione del giovane di far parte di una sorta di “comunità generazionale”, colta nel suo titanismo dall’uso del maiuscolo e nel suo carattere antinomico dall’eloquente “loro” in caratteri minuscoli – comunità alla cui definizione aveva contribuito, come ricorda Marco Boato, l’esperienza dell’alluvione di Firenze.[31] Gli stessi alunni del Galvani si organizzano nei fine settimana, coadiuvati da don Contiero, per non mancare a quella straordinaria esperienza collettiva che aveva definito un “noi” in grado di incidere sulla realtà.[32] Gli “angeli del fango” comprendono, forse anche grazie a questa circostanza, che la fase emergenziale può essere tradotta in prassi ordinaria intervenendo su un mondo in sofferenza, e così si esprime il giovane Geraci:

Sono state spese migliaia di parole, per puntualizzare la natura dei rapporti con la nostra generazione, definita volta per volta, come turbolenta, rivoluzionaria in senso negativo e tanto peggiore di quelle precedenti da essere additata come un fenomeno di depravazione e corruzione. Per noi ragazzi, che da molti siamo considerati genericamente e in massa, sono state coniate nuove parole come: pacifismo beat, protesta capellona e altre ancora; mai però i “grandi” si sono curati di comprenderci e di giudicarci senza facili luoghi comuni. […] Mi sembra giusto innanzitutto affermare, che noi giovani nella maggioranza dei casi, non vogliamo vivere con pericolosi paraocchi e desideriamo già da adesso affrontare la moltitudine di “perché” che assillano il mondo in cui viviamo e che dovremo proprio noi condizionare con il nostro modo di fare più o meno responsabile. Vi potrà sembrare assurdo che noi ragazzi abbiamo un preciso obbligo morale nei confronti del mondo intero: ma credetemi, è così. Spesso si è detto che la gioventù d’oggi è cinica, non curante delle sofferenze dell’umanità, apatica: ma, pensiamo un attimo, e vi riflettano anche i nostri più accesi accusatori, che noi facciamo parte di una generazione senza falsi sentimentalismi, non crediamo più alle altisonanti parole di pace di chi poi non esita a mandare al macello migliaia di uomini senza vere ragioni, ma per soddisfare la propria brama di potere. I nostri genitori che ci guardano scandalizzati dicendo che erano migliori loro da giovani hanno permesso, non dimentichiamocene, l’affermarsi di terribili dittature dei cui errori ancora oggi paghiamo le conseguenze […]. Riguardo ai capelloni, ai pacifisti ecc., posso dire che sono la esteriore manifestazione dei turbamenti di carattere morale che ci derivano dal vivere in una società che poggia su basi, in alcuni casi sbagliate e dannose per l’intera umanità; penso tuttavia che questi movimenti sorti da poco, un po’ dovunque, siano da rigettare risolutamente perché rappresentano deteriori manifestazioni di inciviltà che, anziché essere utili, fanno sì che idee in sé ottime di pace e di rinnovamento della società siano giudicate basandosi su chi le urla tanto immaturamente e superficialmente per le vie delle maggiori città del mondo. Avete certo capito che la mia è una posizione moderata che tiene conto anche della differente mentalità degli adulti; penso però che non si possa con un’alzata di spalle rifiutarsi di risolvere il problema dei rapporti tra giovani e adulti che, alla fine, è il problema dei rapporti tra padri e figli e anche fra professori e alunni. […] In noi ragazzi di agitano forze nuove, e ci si vuole scuotere dal disinteresse per i problemi politici che con la loro importanza danno un volto al nostro mondo; esistono quindi energie attive, desideri sinceri di miglioramento delle condizioni di vita degli uomini (a questo proposito occorre soffermarsi sul fatto che due uomini su tre soffrono la fame). Occorre tuttavia spezzare molti preconcetti e si deve lavorare spalla a spalla in ogni modo per fermare la corsa di molti irresponsabili verso una catastrofe irreparabile per l’umanità.[33] 

Geraci descrive inoltre una classe di giovani “responsabili e maturi” che dovrà occuparsi attivamente di come va il mondo per impedire il dilagare del male (“non rassicuriamoci pensando che l’Italia è lontana dai punti cruciali di attrito internazionale perché il male, lo diceva anche Solone, si sparge e prima o poi coinvolge anche chi si ritiene al sicuro”) e assicurare un futuro alle nuove generazioni, di cui si teme il giudizio: “Noi avremo dei figli, essi guarderanno a ciò che abbiamo fatto di buono e di cattivo per loro, saranno nostri giusti e naturali giudici; dovremo abbassare gli occhi dinnanzi a loro e renderci conto che la colpa se essi vivranno tra disagi e sofferenze sarà nostra?”. Si tratta di uno degli articoli in cui si coglie con maggiore nettezza l’emergere del senso di una soggettività globale, non casuale per una generazione cresciuta nell’epoca della guerra fredda e all’ombra della bomba atomica, epoca in cui, quindi, le nuove tecnologie minacciano non solo territori definiti, ma l’intera umanità.[34] E’ infatti impossibile limitare gli effetti di un conflitto entro presunti “confini”, rendendo inevitabili gli interrogativi che denotano la crisi della cosiddetta “narrazione progressista” del secondo dopoguerra: davvero, conclusa la guerra ed estirpato il male identificato con la Germania nazista, l’Occidente era destinato a vivere nella pace e nel progresso, sotto l’egida salvifica degli Stati Uniti? Era possibile restare ciechi di fronte al profilarsi di nuove ombre, che non esimevano gli Stati Uniti da gravi responsabilità? 

Sempre Gabrio Geraci, nell’articolo “Noi e il mondo” del 1966, facendo riferimento alla situazione in Rhodesia, evidenzia sconsolato l’immaturità politica e l’indifferenza di molti giovani della sua generazione: “Sono sempre stato dell’avviso che a noi ragazzi manchi, nella maggior parte dei casi, una sufficiente coscienza politica e, in special modo, democratica”, investendo i giovani di un ruolo determinante: “da chi se non da noi giovani deve partire la determinazione di opporci all’ingiustizia, alla sopraffazione, al soffocamento della libertà? […] Ci deve essere un dibattito tra noi, bisogna cercare di sollevarsi dallo stato di noncuranza e disinteresse che quasi tutti abbiamo.”[35]

La differenza ontologica viene concettualizzata anche dal giovane Aldo Sassi, che pochi anni dopo avrebbe recitato nel film di Marco Bellocchio Nel nome del padre, a proposito del ruolo dei giovani nel teatro: è “sangue nuovo e vivo quello che immettono nel sistema circolatorio vecchio e arteriosclerotico del teatro italiano”, che tenta ancora di trattenere “questa libera espansione di pensiero alle convenzioni, alle tradizioni più superate e contrastanti con la funzione civile e di continua contestazione che lo spettacolo teatrale dovrebbe svolgere in questi anni che viviamo”. A tale tradizionalismo si oppongono i giovani, i quali “dovrebbero agire per fare di sé una forza propulsiva verso esperienze sempre più nuove e forme sempre più avanzate”:

Io credo fortemente che i giovani abbiano un posto da occupare nel teatro, e per la loro stessa natura abbiano da svolgere una funzione di carattere sperimentale, un lavoro di ricerca in quei campi che il teatro ufficiale non può nemmeno traguardare per insufficienze congenite. E’ indubbio che una azione svolta in questi termini avrebbe bisogno di una maggiore sensibilità nell’ambiente in cui opera, perché è soprattutto ai giovani che il teatro studentesco si rivolge, a quei giovani che in lui dovrebbero riconoscersi, che con lui dovrebbero collaborare attivamente, per farne l’espressione di una comunità, per farne un gruppo attivo. […] E’ di questi fermenti che si alimentano tutti quei movimenti di insofferenza e di rivolta che sorgono ormai in tutto il mondo. E sono forze vive, reali, profondamente serie anche. Sono altri gli snob. E queste in fondo le idee che guideranno il mio lavoro quest’anno, come delegato delle attività teatrali del nostro istituto. Perché infatti mantenere in un campo così attivo e ricco di sviluppi quel conformismo che sta sgretolandosi nei rapporti quotidiani, e si sgretolerà sempre di più, perché altra non è la sua fine?[36]

Risulta dunque chiaro che i giovani redattori del giornale si facciano portavoce, in quegli anni (i numeri cui faccio riferimento rappresentano sostanzialmente l’arco temporale che dal 1966 conduce al 1968), di una sofferta consapevolezza del ruolo della propria comunità generazionale e del potenziale impatto sull’ordine costituito delle inquietudini di cui è portatrice.

Cerchiamo ora di mettere meglio a fuoco l’identità del giornalino scolastico e il suo ruolo all’interno della scuola. La Rana, come sopra evidenziato, era diventata dopo la sua fondazione l’organo dell’Organismo Rappresentativo (OR), di cui l’indimenticato Marco Biagi, uno dei leader indiscussi, ricostruisce brevemente la storia nel numero di marzo del 1968 (probabilmente l’ultimo numero del giornale e l’ultimo mese di attività ufficiale dell’OR). L’OR era nato nel 1964 per favorire la partecipazione degli studenti alla vita della scuola attraverso un sistema di rappresentanza che prefigurava embrionalmente quello che sarebbe stato istituzionalizzato con i decreti delegati; lo statuto era stato pubblicato a firma del preside Angelo Campanelli sui Quaderni di cultura del Galvani pochi mesi dopo.[37] Per un paio di anni l’OR si era occupato solamente dell’organizzazione di “cineforum e festicciole”, ma nel 1966 aveva avviato un coordinamento con altri istituti, aprendosi a una progettualità di ampio respiro che vedeva nel Galvani una scuola capofila a livello cittadino. La Rana, secondo questa ricostruzione, usciva piuttosto sporadicamente nei primi anni, a conferma della scarsa vivacità dell’OR, che faticava a risultare incisivo e a farsi conoscere come soggetto attivo all’interno della scuola.[38] Sui Quaderni del 1964 lo stesso preside Campanelli conferma una fase di scarsa vitalità del giornale, fondato su suo impulso in concomitanza con i festeggiamenti del centenario della istituzione del Regio Liceo, e spiega che da qualche tempo La Rana tace, in quanto gli studenti Cella (probabilmente Gilberto, diplomato nel 1963) e Giovanni Salizzoni (in III C con Gilberto), fondatori del giornalino, erano approdati all’università e chiaramente ne avevano abbandonato la direzione. La “crisi di successione” sembra superata con la creazione di un nuovo comitato di redazione diretto eccezionalmente da una ragazza, Lela Bianchi, alla fine dell’anno scolastico 1963/64, quando si riesce a pubblicare frettolosamente e in extremis un nuovo numero. Il preside Campanelli, esprimendo un proprio punto di vista sui tratti identitari specificamente giovanili, chiosa:

Tutti la cercano, tutti la leggono affannosamente. Questo dice quanto sia sentita la necessità di un giornale nella scuola, di un giornale della scuola! Preside e Professori sono soddisfatti; non così tutti gli alunni, che si dividono in due correnti: quella degli incontentabili che vanno sempre in cerca di quello che non c’è (i giovani sono per natura ipercritici ed incontentabili) e quella di coloro che dicono che di più in qualche settimana non si poteva fare. […] all’inizio della scuola, con impegno e con fervore, incominceranno a lavorare per il “loro” giornale.[39]

La parabola del giornalino e delle sue battaglie si intreccia inevitabilmente alle vicende dell’OR e ruota intorno all’annoso problema della ricerca di un coinvolgimento degli studenti del liceo, necessario per la diffusione della pubblicazione e per rendere incisiva e condivisa l’azione dei rappresentanti. Nel breve editoriale della redazione del primo numero conservato nell’archivio di Giuliano Berti Arnoaldi Veli (dicembre 1966), si fa appello a una “coscienza unitaria” che trovi una sua forma nel “lavoro di gruppo” per “abituarci al dibattito democratico”. Si tratta di un tema ricorrente, per non dire ossessivo, negli articoli del giornalino. Tale invito viene talvolta declinato su finalità piuttosto limitate, come peraltro già evidenziato nella descrizione dell’OR, che non disdegnava di occuparsi di obiettivi più concreti che potessero coinvolgere gli studenti: “L’aiuto che ci darete si convertirà in vantaggio per tutti noi: se infatti intendiamo ottenere visioni gratuite di films nell’ambito della scuola, o biglietto-sconto nei cinema cittadini, e distributori di bibite nei corridoi, se arriveremo ad un’ORGANIZZAZIONE culturale e sportiva, il vantaggio sarà diviso tra TUTTI.” Non tragga in inganno l’apparente ingenuità delle istanze operative: nel giornalino, come abbiamo già potuto constatare, c’è spazio anche per riflessioni di ampio respiro e per voci inclini a una visione critica, all’insegna di un pluralismo che offre spazio al cauto riformismo che animava un gruppo significativo, ma anche a posizioni più radicali e massimaliste, compatibilmente con la censura, individuando comunque come obiettivo polemico comune il quietismo in apparenza indifferente della massa.

Gli appelli alla partecipazione e il dolente, talvolta esasperato, riscontro della latitanza della masse degli studenti costituiscono un leit motiv di numerosi articoli tra il 1966 e il 1967: l’editoriale “La rana zoppica” di Marco Biagi (marzo 1967) lamenta l’indifferenza degli studenti e la difficoltà di vendita dell’ultimo numero che ha portato il direttore a rassegnare le dimissioni.[40] Il giovane Biagi coglie la scarsa adeguatezza al ruolo di molti rappresentanti dell’OR, che non hanno un reale contatto con gli studenti di cui dovrebbero essere portavoce, e la difficoltà di comprendere e rispettare la natura democratica degli OR. I capoclasse sono accusati di non avere sostenuto la diffusione de La rana e di non avere saputo fornire riscontri dei motivi del mancato gradimento del giornalino, meritando una sconsolata invettiva che li individua come:

lo specchio di una gioventù che, non si può negare, è apatica e indifferente; vale a dire che ogni studente, indipendentemente dal rappresentante che si ritrova, rimane pur sempre libero di esporre direttamente la propria opinione costruttivamente, offrendo magari la propria collaborazione. Una volta credevo che fosse non solo diritto, ma anche necessità per il giovane di oggi, di acquistare in questo modo una più consapevole coscienza sociale; ora mi accorgo che il più delle volte rimane invece oppresso da quella vita impegnativa che gli ruota velocemente attorno, così da non potere esprimere con fiducia e convinzione le proprie idee.[41]

Alcune lettere al giornale dello stesso numero consentono di mettere meglio a fuoco il contesto e i motivi dello scontento. Con un tono volutamente leggero e brillante, ma che ci induce a riflettere su ciò che per le ragazze di allora costituisse un veicolo di emancipazione da una istituzione che le voleva monacali e dimesse, Susanna Bianchi sdrammatizza l’impostazione seriosa dei redattori e spiega che un giornale deve dare voce agli umori della scuola, anziché far credere ai lettori che “al Galvani si discuta della bomba atomica, di musica lirica, di vecchi film”: i giovani preferiscono “parlare di Sanremo, dell’ultima mostra di Pozzati, della bidella che strilla sempre”; non si disdegnano del tutto gli argomenti seri, ma con moderazione. “E perché è concesso così poco spazio alle ragazze e alle loro <<fatue>> conversazioni?” […] <<Svergognatelle>> che impudicamente continuano a <<laccarsi>> le unghie con vernice rossa. Orrore!!”[42]

Giorgio Graffi, il nuovo direttore e oggi insigne linguista, risponde alla provocazione ammettendo che nel giornalino sono stati privilegiati argomenti impegnativi a scapito di temi più leggeri, ma ricorda sostanzialmente che la funzione del giornale scolastico non deve essere solo descrittiva dell’esistente, ma in un certo senso prescrittiva:

[…] il giornale non è solo la voce dell’Istituto; è anche una voce all’Istituto; una voce che cerca di far presenti ai giovani dei problemi da cui non possiamo assolutamente prescindere. Perché, anche se molta gente ci preferirebbe così, senza idee, intenti solo a far goliardate, non dobbiamo solo interessarci del festival di Sanremo o del Corsarino ZZ, quando il mondo è devastato da guerre tremende, quando la corruzione dilaga nella vita sociale e quando tanti e tanti altri problemi assillano il nostro tempo. Non possiamo dire: queste cose non mi interessano; me ne occuperò quando sarò più grande; perché corriamo così il rischio di trovarci impreparati quando dovremo decidere noi delle sorti del nostro paese.[43]

Sulla stessa linea appaiono altri interventi del giovane Marco Biagi.[44] Ricorre, frequente e prepotente, il richiamo di un imperativo categorico che caratterizza un tratto morale e identitario di questi giovani come più prossimo al senso di responsabilità tormentato del “cammello kantiano”, gravato dal “tu devi”, piuttosto che al leone nietzschiano dell’ ”io voglio” – che sembrerà rubare la scena, negli anni successivi, nella forma di un edonismo pulsionale a cui certe rappresentazioni riducono sbrigativamente un’intera generazione.[45]

Nonostante gli sforzi dell’OR di aprirsi a una dimensione più ampia, organizzando incontri tra studenti e professori, oltre a confronti e riflessioni a livello cittadino, in uno sforzo comune di studio e approfondimento, nel numero de La rana di aprile 1967 Marco Biagi non nasconde le difficoltà incontrate. Nell’editoriale “Libertà e democrazia nella scuola”, l’occasione per una riflessione sull’OR è fornita da un articolo del Resto del carlino piuttosto critico nei confronti delle iniziative studentesche dilaganti nella forma di gruppi e OR di istituto non sufficientemente regolamentati: l’autore dell’articolo, il prof. Pieraccioni, vede nei rappresentanti degli studenti individui che cercano vantaggi derivanti dal ricoprire certe cariche. Biagi dissente educatamente, chiarendo che in realtà è loro impedito “il trattare di politica, sia estera che [GG1] interna”, quindi non può esserci un uso politico (che comunque alluderebbe a una dialettica inesistente). La sostanza della situazione è riassumibile, secondo il giovane Biagi, nell’immagine di “pochi amici che strappano un’ora allo studio ed una alle ragazze per un ideale di libertà e di democrazia nella scuola”.[46]  Infatti, Biagi giustifica l’esistenza di direttivi cui sono delegati tutti i poteri, in quanto “questo avviene di necessità, per riuscire a mantenere in pratica un poco di ordine”, benché ammetta che a volte i consiglieri non si mostrano rispettosi della dialettica democratica e “fanno in aula strepito e chiasso, battendo i pugni sul tavolo e imitando certi loro papà assai più in alto”. Infine, egli annuncia un convegno nazionale ad aprile per regolamentare le associazioni di istituto, sebbene precisi che “è bene non cullarsi in eccessivi ottimismi, considerata la difficoltà di rappresentare masse di studenti che ancora non riescono ad approdare a risultati concreti in attività ben più semplici”, scusandosi poi con il prof. Pieraccioni per il tono critico: “è un difetto che deriva dalla desuetudine ad essere considerati, la qual cosa, è evidente, molto ci dispiace e sinceramente ci addolora.”

In realtà, qualcosa sembra finalmente smuoversi nel corso del 1967: la lotta per il riconoscimento posta in essere dai giovani redattori (ma anche dalle prime frange del movimento cittadino) sortisce qualche effetto, considerato che nel numero di maggio, con l’editoriale “Congedo”, Giorgio Graffi lascia la direzione con un bilancio positivo, rimarcando che da marzo in poi, ovvero da quando ha assunto tale incarico, sono riusciti nell’intento di pubblicare sei numeri in un anno (un record cittadino), spezzando la fase di declino, affrontando temi cari ai giovani e promuovendo un “libero dibattito” tra gli studenti, a prescindere dalle posizioni ideologiche. Il calo delle vendite viene imputato alla frequenza delle uscite del giornale, nella convinzione di non dover abbassare il livello, rendendolo un intrattenimento leggero infarcito di battute sulla quotidianità scolastica utile per l’“istupidimento delle masse”. La strada giusta, pur nell’esigenza di migliorarsi, è continuare a proporre uno sguardo sui problemi del mondo e sui rapporti tra generazioni.

Diversamente da quanto ricostruito nel numero unico stampato in occasione del 125esimo anniversario di fondazione del liceo Galvani, nel cui l’editoriale, firmato dal preside del tempo Giorgio Magnani, la fine della pubblicazione de La Rana viene collocata proprio nel 1967, “allorché le prime inquietudini del mondo scolastico, le difficoltà finanziarie, e la crisi dell’organismo rappresentativo degli studenti non permisero più al simpatico giornalino di diffondere periodicamente la sua fresca e giovane parola nel monumentale edificio”, ci fu almeno un ultimo numero nel marzo 1968.[47] Nell’editoriale del 1968 si celebra l’incremento delle vendite (l’ultimo numero aveva venduto 500 copie), a conferma del fatto che la linea editoriale a favore di libertà di opinione e di stampa, pur tra critiche e apprezzamenti, trova risconti positivi. Questo quadro, per una volta ottimistico, suona come il canto del cigno dell’OR e de La Rana, spazzati via dallo sviluppo degli eventi raccontati nella prima parte dell’articolo. 

Delineata la parabola della Rana e dell’OR, veniamo a prendere in esame i temi ricorrenti delle riflessioni dei giovani redattori, tra cui spicca, non sorprendentemente, la questione della scuola. Ben prima dell’esplosione dei disordini, nel numero di dicembre del 1966, Maurizio Zamboni fa riferimento all’attività dell’OR per approdare a una riflessione più ampia sul rapporto tra i giovani e la scuola. Teniamo presente che Zamboni, come ricordano gli ex alunni, era uno dei pochi studenti esplicitamente di sinistra, con una formazione politica connotata, per cui è possibile riscontrare la relativa apertura del giornalino a posizioni variegate e a ospitare riflessioni che, anche in questo caso, denotano la maturità intellettuale del giovane:

Noi tutti conosciamo le posizioni di generica avversione dello studente nel riguardo della scuola e non mi riferisco evidentemente alla più che naturale paura di prendere una insufficienza in qualche materia. Lo studente infatti dall’inizio del suo corso di studi fino alla laurea sente istintivamente che nella scuola (almeno in questo tipo di scuola) non può essere sinceramente e completamente sé stesso, che non può cioè esplicare del tutto la sua personalità: nella scuola l’individuo perde la sua indipendenza, è soggetto a regole alle quali non può in alcun modo sottrarsi, che non conosce appieno e di cui soprattutto nessuno si incarica di fargli conoscere le ragioni, neppure quando si sveglia dal letargo del qualunquismo. Una di queste leggi, che è in fondo uno dei nodi cruciali attorno a cui si battono tutte le forze democraticamente impegnate sui problemi scolastici, è quella che regola il rapporto discente-docente. Tutti sappiamo che varcata la porta dell’Istituto lo studente è sotto il controllo assoluto delle autorità scolastiche (professori, presidi, ecc.) che a volontà possono impedirgli di dire o fare tutto ciò che non le soddisfino; e d’altra parte la scelta dei metodi didattici, dei programmi trimestrali e annuali, dei libri di testo sono a completa discrezione del corpo docente; sembra il caso di dire con le vecchie tavole “contra discentes aeterna autoritas” (sic, n.d.a.).[48]

Siamo “solo” nel 1966 e già ci troviamo di fronte a uno studente che colloca i problemi degli studenti in un orizzonte più ampio, che richiama le suggestioni della scuola di Francoforte, denunciando l’omologazione alienante cui lo studente è soggetto e di cui ignora la ratio, vedendo atrofizzato il suo spirito critico. Il giovane Zamboni prosegue: “Quello che dobbiamo rivendicare quindi non è la paternalistica benevolenza dei professori (che pure deve essere uno dei nostri obiettivi), ma una seria e profonda ristrutturazione della scuola.” La passività degli studenti non è, a suo avviso e contrariamente alla vulgata comune, identificabile come la pigrizia di una generazione inconsapevole dei suoi privilegi e vantaggi, e dunque non abituata a lottare (accusa che sembra mantenere diacronicamente il suo smalto, di generazione in generazione): è il sistema che rende lo studente passivo, incapace di essere protagonista di una formazione umana che gli è sottratta a favore di un processo di spersonalizzazione che annulla l’individualità: “Abbiamo di conseguenza chi nella reazione più immediata e inconsapevole pensa di caratterizzarsi sottraendosi in parte al dominio della autorità scolastica disertando le lezioni ovvero non dando loro peso; abbiamo invece chi più o meno cosciente di questo pericoloso tentativo di alienazione si pone in posizione di contestazione ad essa presentando una critica e serie proposte alternative.”

Zamboni non si limita a considerare la situazione dello studente, ma addirittura prende in esame in un’ottica di sistema la figura del docente, arrivando a suggerire un’affinità con la condizione del discente, letta come un presupposto per una possibile alleanza, prospettiva che da lì a poco sarebbe risultata impensabile: “all’insegnante è assegnato un posto che non può abbandonare, gli sono imposti compiti che non può rifiutare, gli è data una formazione tesa a mantenere e stabilire una determinata mentalità. E’ evidente quindi che è erronea l’illusione di molti insegnanti di poter esplicare completamente la loro personalità all’interno della scuola attuale: essi non stabiliscono le leggi che fissano i loro rapporti, nemmeno quelli con i discenti: le subiscono. Al limite quindi avremo una coincidenza di interessi fra corpo insegnante e masse studentesche, da cui risulta chiaro che una delle direttive principali degli sforzi di queste ultime per emancipare se stesse nel loro ambiente di lavoro è di ricercare un’intesa, un’alleanza col primo.” Il giovane precisa che il consiglio di istituto dell’OR nasce dall’esigenza di sensibilizzare le masse studentesche nell’ottica di un rinnovamento della scuola, ma precisa: “E’ spontaneo notare come qui non si accenni neppure a una critica delle strutture della nostra scuola in rapporto alla società”.[49] Precisazione che ci fa intuire il timore del vaglio censorio e la consapevolezza dei limiti dell’azione dell’OR. Risulta chiaro che lo spontaneismo impressionistico delle proteste degli studenti medi del 1967 fosse meno sguarnito, a livello teorico, di quanto sia stato loro riconosciuto da certa storiografia.

Proprio nell’ottica di un coinvolgimento degli studenti nella riflessione sulla scuola, vengono organizzati alcuni confronti dal vivo con i pochi docenti disponibili. Ancora una volta troviamo in prima fila il giovane Marco Biagi, attivissimo nell’O.R. e nella redazione del giornalino, il quale riferisce quanto avvenuto nel corso della tavola rotonda organizzata dal giornalino, con la collaborazione del preside, nella primavera del 1967, alla presenza di una quarantina di studenti.[50] Il tema dell’incontro è proprio una riflessione sui “rapporti tra scuola e studenti”. La riflessione sulla “disponibilità a parlare dei due opposti di sempre, professori e studenti” rivela significativamente che la “scuola” viene associata ai professori, quasi che gli studenti ne fossero semplicemente gli ospiti. Sul palcoscenico del teatro siedono due docenti storici del liceo di quegli anni, il professore di lettere Sergio Cammelli del corso D, rappresentante del ginnasio, e Mario Pazzaglia, professore di italiano e latino del corso E, oltre ai due studenti Maurizio Zamboni di II F e Carlo D’Adamo di III E, definiti come i due “capoccia” dell’OR. Moderatore è Giorgio Graffi, direttore de La Rana in quel periodo.

Apre la discussione il giovane Zamboni, che torna sul tema della passività degli studenti: la scuola non educa al dibattito e lo studente, cui è imposto di studiare dalla famiglia, è “costretto a tacere e non partecipa, né prima, né dopo l’ingresso all’istituto, alla vita scolastica”. Ad esempio, i giovani non hanno voce in capitolo nella scelta dei programmi di studio, sebbene venga riconosciuto che alcuni professori facciano partecipare gli studenti alle lezioni “con un’ampiezza di vedute moderna”, ma si tratta di eccezioni. Carlo D’Adamo si allinea e ricorda che il liceo classico non deve fornire nozioni, ma “un habitus mentale, utile ad affrontare i problemi attuali sotto una certa angolazione”, per cui è necessario attualizzare i programmi scolastici, favorire ricerche individuali e collettive, e promuovere un’interazione tra consiglio degli studenti e dei professori, per esempio per decidere le punizioni e rivedere alcune regole formali, tra cui il divieto alle ragazze di uscire dall’aula all’intervallo.

Il professor Cammelli interviene e trova tutto sommato ragionevoli le richieste dei ragazzi, ma sottolinea che il problema è ben più ampio, considerato che mancano “ “una coscienza democratica fra gli studenti” e una “educazione civile” utili a preparare gli studenti all’assunzione di responsabilità politiche per il bene della comunità, per cui a tale lacuna si deve ovviare con un’educazione impartita sin dalle medie inferiori, tesa a valorizzare la discussione tra i ragazzi e la consapevolezza dei loro problemi. Non sorprende dunque che gli studenti non collaborino con l’OR, rendendo la sua azione inefficace. Egli riconosce che la scuola impedisce un dialogo alla pari, importante anche per i docenti che possono imparare dai loro alunni. Come ricordato anche dal figlio Stefano, il docente credeva fermamente nella necessità di promuovere la collaborazione tra Scuola e Famiglia, per cui si trova a sottolineare l’asimmetria tra le due sfere, lanciando l’idea di scrutini in presenza dei genitori.[51] Il prof. Mario Pazzaglia, che rappresenta il Liceo, concorda per molti aspetti con Cammelli, ma non sul coinvolgimento dei genitori agli scrutini.[52] E’ particolarmente attento all’istanza di rinnovamento dei programmi e propone di arrivare al 1945 con i programmi di storia: “Ciò non avviene sempre in realtà ed è giustificato con considerazioni speciose, come se per le strade ci fossero ancora i mitra spianati.” Propone inoltre, provocatoriamente, di abolire la lettura di Settembrini e Pellico per lasciare spazio ai contemporanei come Montale e Ungaretti, accennando al “muro del pianto” di studenti e professori, ovvero esaminatori che chiedono l’elenco delle donne amate da Foscolo etc.[53] Infine, incoraggia l’azione dell’OR affinché sensibilizzi gli studenti, “svegliando così il grande popolo dei morti e dei dormienti”, ma invita ad abbandonare l’atteggiamento protestatario a favore di uno slancio più critico e costruttivo.

Il giovane D’Adamo osserva che un movimento debba inizialmente porsi come rottura e Zamboni spiega a Cammelli che le proposte sono moderate per “un fondo di diffidenza che avevamo prima di venire qui”, per cui è lecito supporre nuovamente una forma di autocensura da parte degli studenti, considerato anche che l’evento era stato organizzato con il placet del preside. Non a caso Cammelli coglie l’occasione per fare un riferimento agli articoli censurati sui giornali studenteschi “che sono i migliori”: la censura e la scarsa autonomia dei sistemi di rappresentanza degli studenti è evidentemente giustificata dai vertici con la scusa del Ministero che non istituzionalizza tali esperienze, ma il docente invita a concedere margini agli OR, considerato che la scuola deve insegnare a stare insieme e a misurarsi con l’alterità.

In una seconda tavola rotonda sul sui problemi della scuola (“La scuola attiva”), sempre alla presenza di una quarantina di studenti che evidentemente costituivano lo “zoccolo duro” di coloro che erano interessati alle questioni in campo, si confrontano il prof. Gabelli di filosofia del corso A, la prof.ssa Fanti di arte dei corsi D,E e F, e gli studenti Aldo Sassi di II C e Giorgio Graffi di II E, moderati da Carlo d’Adamo di IIIE.[54] Sassi denuncia lo stile lo stile ex cathedra, l’autoritarismo e il paternalismo dei professori, lamentando la mancanza di un autentico rapporto democratico tra studenti e docenti, mentre Graffi, con un atteggiamento più moderato e concreto, insiste sul valore del lavoro di gruppo come esperienza di dialogo critico e formativo, biasimando anche la scarsa dimestichezza con la lettura diretta di testi e opere. Il giovane ha le idee chiare: l’insegnamento della storia richiede attenzione anche agli aspetti economici e sociali, e non solo evenemenziali; sarebbe inoltre auspicabile introdurre dibattiti su temi attuali in filosofia e dare maggiore peso alla pratica sperimentale nell’insegnamento delle scienze. La scuola va intesa, dunque, come un luogo in cui “si ricerca insieme la verità”. Gabelli a questo punto fa notare, probabilmente provocatoriamente, l’assenza degli alunni dei corsi A e B (che nei ricordi degli ex studenti erano effettivamente, insieme al corso C, meno “attivi”, al contrario invece di quelli delle sezioni E e F) e sostiene che è anche compito degli studenti sollecitare i professori sulla via di un rinnovamento della scuola.[55] Lo studente Sergio Sabattini, attivo nel gruppo teatrale e nell’OR negli anni precedenti, insiste sul carattere reazionario della scuola e sottolinea che si tratta di un problema di uomini, visti anche i pochi professori presenti, prestando il fianco alla puntualizzazione del prof. Pazzaglia, il quale fa notare che ci sono in proporzione più professori che studenti e invita a essere più rispettosi e meno polemici. Il prof. Monaco di storia e filosofia chiede il superamento dell’opposizione tra studenti e insegnanti e propone uno studio di gruppo su uomo e società moderna, trovando riscontri tra gli studenti, che ipotizzano l’istituzione di comitati paritetici di studenti e professori. Quando il giovane Graffi fa notare che i dibattiti non sono un canone dell’insegnamento, il prof. Gabelli, ponendosi agli antipodi rispetto al legalismo del preside, sentenzia che “non bisogna istituzionalizzare la libertà, ma prendersela”, in quanto “ogni volta che gli studenti intervengono fanno loro la riforma della scuola”.[56]

Nell’ultimo numero de La Rana Mauro Mariani, citando anche Lettera a una professoressa, recensito per il giornalino da Giorgio Graffi mesi prima, torna sul tema e propone un’analisi più articolata, denunciando la scuola come luogo di perpetuazione dei privilegi di nascita: la selezione nella nuova scuola dell’obbligo penalizza i giovani provenienti dagli strati bassi della popolazione, vanificando il senso della riforma e rendendo gli insegnanti “strumenti inconsapevoli di una lotta delle classi che detengono il potere contro quelle più povere”.[57] Il testo di don Milani aveva infatti chiarito che, se la riforma delle scuole medie del 1962 aveva colmato una lacuna rispetto alla questione del livello minimo di istruzione in un paese industrializzato, restavano comunque operativi meccanismi di discriminazione sociale che di fatto limitavano il diritto allo studio.

Oltre alla scuola, un tema di notevole interesse per i giovani de La Rana sono gli eventi internazionali: sono proprio gli articoli su temi politici e di attualità a evidenziare con maggiore nitidezza opinioni e sensibilità molto diverse tra i redattori e/o tra i lettori del giornalino; questi ultimi talvolta raccolgono i ripetuti inviti a un confronto democratico replicando a quanto pubblicato.[58] Utile a farci un’idea di tale dialettica è la querelle avviata nel marzo 1967 da Maurizio Zamboni, il quale trova discutibile un intervento del numero precedente caratterizzato da una celebrazione dell’esercito e della Patria. Pur trovando egli stesso il pacifismo vago e fumoso, il giovane ritiene che vada analizzato come “necessaria conseguenza di squilibri di ordine economico sociale interno e della situazione internazionale dopo la seconda guerra mondiale”. Prosegue poi osservando:

Quest’ultima ragione è, credo, tanto evidente che basta solo accennarla nei suoi tratti salienti: la formazione di due blocchi militari opposti, la guerra fredda e la lucida pazzia di quella che il nostro governo definisce politica di equilibrio (militare). E’ evidente però che la critica dei movimenti non violenti non può arrestarsi solo alla richiesta di una più responsabile politica estera da parte del Governo, ma deve colpire anche le cause dei contrasti e delle lotte, a volte molto aspre, che si verificano nel paese. Infatti, tra le loro richieste, sensatissime, vi sono quelle d’un taglio netto delle spese militari a favore delle spese sociali; quindi potenziamento delle istituzioni di protezione e tutela dei cittadini e, finalmente, una revisione dei rapporti economici su cui si basano le attuali sovrastrutture. […] Non basta più oggi rispolverare vecchi slogan patriottardi di triste memoria o gettare in galera gli obiettori di coscienza, s’impone invece una risposta precisa che dissolva, se lo può, i dubbi e le critiche.[59]

Le maglie della censura non dovevano essere poi così strette se simili considerazioni, di taglio chiaramente marxista, potevano essere tranquillamente pubblicate. La risposta di Riccardo Vattuone, autore dell’articolo incriminato, è pronta: dopo avere rimarcato la chiara connotazione ideologica dell’intervento di Zamboni, il giovane riconosce che la non violenza non è un movimento spontaneo, ma non la ricondurrebbe a squilibri di ordine economico sociale. Essa sarebbe frutto di “un’epoca di anarchia morale, di capellonismo, di isterismi collettivi, epoca in cui il fenomeno più spontaneo (sic!) è il tifo della domenica. […] Patria per te è un “vecchio slogan” che si rispolvera all’occorrenza, i non-violenti, gente da prendere in considerazione; mi dispiace tanto dirlo, ma a te il nome patria dà fastidio (così mi sembra di aver capito) perché è un ideale che unifica, d’impedimento a chi vuol anarchia per imporsi; critichi i non violenti perché li giudichi poco organizzati: irregimentarli bisogna! Scusa il tono un po’ polemico e accetta con simpatia questa mia risposta.”[60]

Sul numero successivo (aprile 1967) l’articolo “La farsa del capellonismo” permette di cogliere con maggiore nettezza la linea di Riccardo Vattuone, il quale mette a segno una virulenta critica della cultura beat. Lo studente associa il fenomeno beat alla “mentalità da scioperati” tipica dell’italiano medio, riconducendola a una continuità con un costume nazionale:

In Inghilterra, la patria elettiva, il fenomeno beat non impressiona più nessuno, nemmeno coloro che temevano che queste pazzie giovanili non fossero che un indice pauroso dell’idiozia media del giovane degli anni sessanta. In Italia non ha mai impressionato nessuno, perché i capelloni nostrani hanno riflettuto e riflettono semplicemente un “modus vivendi” che è proprio dell’italiano del dopoguerra. Ci spieghiamo: quella tendenza al dolce far nulla, al vivere alla giornata, alla protesta sistematica è una caratteristica peculiare dell’italiano medio, che in ufficio, a lavorare, in genere ci va sempre con i proverbiali “intestini in mano”, con il quotidiano da sfoderare appena il capoufficio ha girato l’angolo più vicino, con tutte le possibili magagne, per tornare a casa prima; è chiaro che, ad un simile prototipo di italiano i capelloni non facciano alcuna impressione, semmai una certa compassione… Ma il beat, signori miei, è un’altra cosa, ci dicono i veri capelloni oppure quelli che sono beat, ma che non si vogliono confondere fra la massa degli esagitati, il beat è filosofia, prima che il capellonismo; il beat è un’idea che ha avuto la sfortuna di trovare disposti ad accoglierla migliaia di fessacchiotti esaltati da una sola speranza, fare chiasso (notare l’eufemismo).[61]

Nel numero di aprile si occupa di rispondere a tale veemente attacco Vittorio D’Anna, il quale osserva pacatamente come non sia con l’ingiuria che si comprende un movimento mondiale. Il giovane rivendica la riscoperta del valore dell’individuo come reazione emotiva in una società di massa complessa che le ideologie tradizionali con colgono nella sua dimensione alienante. Il beat è un atteggiamento che va al di là dei segni esteriori come i capelli:

Infatti, lo si voglia o no, il fenomeno beat è un fenomeno di massa, che investe tutto il mondo occidentale, dagli USA alla Gran Bretagna, dalla Svezia all’Olanda […] Per la prima volta, questo è importantissimo, l’alienazione esce dalle aule professorali, cessa di essere oggetto di disquisizione tra intellettuali e diviene una realtà che aderisce alla vita di tutti, una realtà cui partecipano le masse, e non più solo un’élite di iniziati. Il beat rappresenta infatti le contraddizioni del giovane di oggi, immesso in una società a lui estranea, in una società dominata dai fenomeni di massa, in una società in cui l’individualità viene continuamente mortificata ed annullata; e da qui nasce quell’individualismo esasperato che caratterizza il giovane beat, ma questo individualismo ha il proprio vizio di origine nel vivere nell’ambito di una società di massa. Il giovane si viene quindi a trovare in una realtà troppo complessa, troppo caotica, che quasi incomprensibilmente si trasforma con gran velocità, ed in questa realtà i metodi analitici e le ideologie tradizionali risultano insufficienti e parziali; e così, il giovane viene a trovarsi, da una parte, di fronte a quei gravissimi problemi, drammaticamente postigli, e, da un’altra, viene a mancare dei mezzi necessari per risolvere questi stessi problemi. Da qui la crisi individualistica che di fronte alle contraddizioni del reale l’individuo risulta l’unico valore ancora esistente. Ci troviamo di fronte ad una reazione emotiva, quasi isterica, da disadattato, ma anche da persona che vive e soffre di irresolubili problemi di un mondo alienante. [62]

Un intervento che avrà una certa risonanza, oltre alla lettera di Gianpiero Ghini, Gaetano Insolera e Giorgio Orlandi sulla situazione greca, è l’articolo sul Vietnam di Mauro Mariani pubblicato nel marzo 1967, in cui dopo un preambolo che mette a fuoco la situazione si osserva:

La posta in gioco, quindi, non è il solo Vietnam, ma anche buona parte dei paesi cosiddetti neutrali, in particolare quelli dello scacchiere dell’Estremo Oriente. Quindi mi lasciano completamente indifferente sia i patetici appelli dei comunisti di tutto il mondo, sia le superiori ragioni ideali dei rappresentanti del mondo libero: questa guerra è come le altre, sporca, se si vuole, come le altre, in cui, dei contendenti, come al solito avrà torto chi avrà perso, perché non avrà saputo difendere efficacemente i propri interessi: non si possono giudicare col metro della morale la maggior parte delle guerre, e specialmente quelle combattute per mantenere o acquistare prestigio politico. Chi ritiene che il futuro del mondo sarà comunista darà ragione alla Cina, chi al contrario considera il comunismo un male da combattere darà ragione agli Stati Uniti; ma la sostanza della guerra rimane la stessa: un male, un sovvertimento dei valori umani che taluni mascherano con nomi altisonanti.[63]

Su questa sensibilità globale vanno a innestarsi le prime proteste giovanili del 1967, periodo in cui l’OR era riuscito a uscire dalla dimensione degli obiettivi più limitati, aprendosi a contatti con altri istituti, rispetto ai quali si proponeva con un ruolo di guida, ad esempio per la stesura dello statuto dell’OR.[64] Anche La Rana non può che registrare e commentare i fermenti del movimento degli studenti medi. Nel 1967 Giorgio Graffi si chiede: “Che succede tra gli studenti bolognesi?”, riferendosi alle agitazioni di fine gennaio e inizio febbraio di cui abbiamo parlato nella prima parte dell’articolo e ricostruendone le vicende: a fine gennaio il consiglio interstudentesco (di cui il giovane contesta la legittimità, in quanto non costituito ufficialmente di fronte all’autorità scolastica e agli OR e perché “formato da persone di volta in volta diverse e in numero variabile”) aveva indetto per il 31 gennaio una giornata di astensione dalle lezioni per le scuole liceali e tecniche, ma, pur riconoscendo che lo sciopero è un’azione dimostrativa utile a sottolineare che gli studenti non sono una massa inerte e passiva, ma hanno esigenze e diritti e vogliono esprimersi anche loro sulla riforma della scuola, Graffi ritiene che debba costituire un’arma occasionale, non una strategia costante. Sottolinea inoltre come le astensioni siano proseguite senza consultarsi con gli OR e che in altre scuole sono stati presi provvedimenti.[65] Nel numero successivo una lettera firmata risponde all’articolo di Graffi sull’agitazione studentesca del 31 gennaio, a cui fu “parzialmente interessato” anche il Galvani, con l’ambizione di intercettare l’opinione della maggioranza degli studenti del Galvani: a prescindere dal problema giuridico della legittimità dello sciopero studentesco, lo scrivente concorda con i dubbi di Graffi circa l’autorità del consiglio interstudentesco di organizzare lo sciopero, anche perché non risulta chiaro chi siano i registi di questa organizzazione. A suo avviso i problemi della scuola non vanno affrontati con lo sciopero, spesso inteso come “un’ottima ragione per un giorno di lezione in meno”.[66]

La moderazione della linea assunta è chiara e contribuisce, probabilmente, a segnare la sorte de La Rana, oltre che dell’OR. La divergenza tra la direzione del giornale e quella del movimento studentesco nella fase della radicalizzazione conducono a esiti diversi: da una parte, la pubblicazione è destinata a spegnere la sua voce nel 1968, in concomitanza con il fallimento dell’OR, mentre dall’altra, le inquietudini che avevano affollato le sue pagine assumono altre forme, sciamando nelle piazze.

Il 1969: l’anno degli operai in un liceo borghese

Il cosiddetto “anno degli studenti” si era concluso nel liceo di via Castiglione con gli strascichi delle vicende autunnali coagulate intorno all’affaire Franchini. Il 1969, “anno degli operai”, rappresenta un nuovo urto all’ordine simbolico tradizionale, con la demolizione delle frontiere sociali e l’intreccio dei linguaggi di studenti e operai, come osserva Pierre Bourdieu. Diventa doppiamente interessante ricostruire l’impatto di tali sviluppi sulle dinamiche interne e sul ruolo, sempre più marginale, svolto dal borghesissimo liceo nelle proteste cittadine.

Lasciatosi alle spalle l’impressionistico spontaneismo che lo storico Andrea Rapini individua nella prima fase del ’68 bolognese, caratterizzata perlopiù dall’assenza della guida di un soggetto politico definito e strutturato, il movimento studentesco si era aperto a una seconda fase incentrata su una critica più sistematica dell’intera società, su sollecitazione di avanguardie già politicizzate negli anni precedenti e vicine alla sinistra: nella città felsinea i riferimenti sono Francesco Garibaldo, Franco Berardi, Antonio Genovese, Roberto Grandi e intellettuali come Gianni Scalia, Federico Stame, Roberto Roversi, Pietro Bonfiglioli e Vittorio Boarini.[67] La sezione universitaria comunista (SUC) e la FIGC esercitano una significativa influenza politica anche sul movimento degli studenti medi, dimostrando di coltivare posizioni non del tutto allineate con quelle del partito, che comunque a livello cittadino si mostra attento alle rivendicazioni studentesche.[68] La terza fase individuata da Rapini prende gradualmente corpo tra l’estate e l’autunno del 1968, per svilupparsi sino al dicembre ‘69 nella forma di una saldatura tra studenti e classe operaia, individuata come soggetto antisistema, anche nella convinzione che la forza lavoro intellettuale sia destinata a proletarizzarsi: gli studenti cominciano ad autorappresentano non più come élite, ma come forza lavoro in formazione.[69] Già nell’estate del ’68, con il definirsi della percezione di un nemico comune, si cerca il dialogo mediante volantinaggi ai cancelli della fabbrica e la tessitura di “collegamenti organici” di gramsciana memoria, formando comitati di operai e studenti universitari e avviando le prime iniziative.

Gli studenti medi bolognesi cominciano a essere seriamente coinvolti in tale alleanza a cavallo tra la fine del ’68 e l’avvio del ’69, segnando, come vedremo, un momento di ridimensionamento del ruolo del Galvani a livello cittadino. Infatti, sebbene un gruppo di studenti dello storico liceo mantenga la sua partecipazione attiva al movimento e si allinei a tale svolta, si assiste a un graduale disimpegno della maggioranza rispetto a tale sviluppo. Risulta piuttosto comprensibile che altri indirizzi di studio, come le scuole professionali e tecniche, ma anche i licei scientifici, avvertano più acutamente il problema di un sapere sempre più declinato alle esigenze dell’economia di mercato e la necessità della saldatura con le forze operaie. Questa constatazione trova riscontro anche nella lettura dei volantini e dei quotidiani locali dell’epoca: ad esempio, da gennaio e sino alla conclusione dell’anno scolastico 1968/1969 proseguono le cronache dei sussulti studenteschi, con nuovi disordini a livello nazionale e locale negli atenei e nelle scuole medie superiori (manifestazioni, occupazioni, sgomberi, arresti, scontri con la polizia), ma scorrendo le pagine i nomi ricorrenti delle scuole che conquistano le luci della ribalta giornalistica sono quelli del Righi, Fermi, ITIS, Aldini Valeriani, Sirani, Fioravanti, Rubbiani, Laura Bassi, Marconi, mentre il nome del Galvani, in prima linea nell’autunno del ’68, sostanzialmente scompare.

I temi che infiammano i giovani, in questo inverno che declina verso la primavera, oltre a quelli del lavoro e alle vicende internazionali (in questa fase tengono banco le vicende di Praga e naturalmente ancora il Vietnam) sono spesso legati alla scuola, in particolare in relazione alla proposta di riforma universitaria e dell’esame di maturità del ministro Sullo.[70] Sempre piuttosto critico nei confronti delle proteste studentesche, il Resto del Carlino paventa che le contestazioni approdino a Sanremo, ma in realtà il sacro rito nazionalpopolare ne uscirà illeso, come viene spiegato nei giorni successivi, con la cronaca spoetizzante del “tradimento” di uno dei capi della temuta contestazione, il quale avrebbe venduto il piano della protesta ai carabinieri “per diecimila lire”, consentendo loro di sventarlo.[71] A Roma, invece, a fine febbraio le proteste per la riforma sfociano in uno scontro tra la polizia schierata a difesa dell’Università e il movimento studentesco che manifesta contro la serrata dell’ateneo imposta dal rettore della “Sapienza” D’Avack.

Gli studenti bolognesi in questa fase seguono le vicende romane, mettendo in evidenza i pericoli della riforma Sullo e gli intenti repressivi del governo. In un volantino del movimento risalente a tale periodo si legge: “L’obiettivo attuale del potere politico centrale è quello di puntare all’eliminazione del mov stud per far passare la riforma Sullo, prima a livello sociale (pacificazione nell’università) poi a livello istituzionale.” Dopo un riferimento agli avvenimenti di Roma si chiarisce che: 

La repressione del mov stud si presenta dunque come un segmento di un piano più vasto e che trova in questo momento nell’università un momento di “sperimentazione” sia dal punto di vista militare, che politico. Questo piano mira appunto a stroncare sul nascere ogni forma di lotta che fuoriesca dai modelli e dai limiti istituzionali. La nostra lotta ha assolto perfettamente ai suoi compiti: da una parte mettendo in crisi definitivamente il potere accademico togliendolo di mezzo come apparato politicamente autonomo, riducendolo a braccio repressivo del potere politico, ha provocato la serrata … Dall’altra ha costretto il potere statuale, sconfitto sul piano politico, a mostrarci il suo volto più vero: quello repressivo, chiarendo una volta per tutte e a livello di massa, che qualsiasi tipo di riforma in questo momento non può che essere accompagnata e imposta dai mitra. Che tutte le riforme sono riforme repressive nel senso che mirano ad inglobare e controllare le masse che lottano per il rovesciamento dei rapporti di produzione. … La risposta alla repressione non va data però sulla logica dello scontro militare, che è quello al quale ci invita il governo, bensì di quello politico. Dovremo e sapremo affrontare anche lo scontro militare ma in questo momento, proprio perché il piano repressivo è diretto contro tutte le forze sociali antagonistiche al capitale, ciò che più conta è creare un tessuto politico permanente che muova nella direzione di un collegamento con altre forze sociali e dello sviluppo di lotte che ci vedano organizzati unitariamente. Questo si realizza organizzando la nostra presenza fra tutte queste forze sociali, nelle fabbriche, nelle campagne, nelle scuole. Il pci e il psiup, che organizzano parte di queste forze sociali, hanno indetto per questa sera alle 20.30 una manifestazione contro la repressione. Ci sono differenze profonde e contraddizioni fra il nostro discorso politico e quello di questi partiti ma un obbiettivo ci accomuna in questo momento; la lotta contro la repressione.[72]

E’ un documento che, oltre ad attestare la saldatura del fronte studentesco con altre forze sociali, fa rabbrividire per i riferimenti a un terreno di scontro che prefigura lo scenario di violenza degli anni di piombo, aperto dalla strage di piazza Fontana, sancendo la fine del sogno velleitario di poter cambiare il mondo con la forza gioiosa e pacifica delle piazze giovanili. Il mese di marzo sarà particolarmente denso di avvenimenti a Bologna, sulla scorta delle proteste degli universitari e degli studenti medi per la riforma Sullo e per l’azione di repressione del movimento.

In questa fase i conflitti e le incomprensioni tra docenti e studenti che abbiamo registrato al Galvani si evidenziano in forme più drammatiche anche in altri istituti della città: emblematica l’intervista alla prof.ssa Floriana Stefanelli delle Aldini sul Resto del Carlino dell’11 febbraio 1969, la quale fa riferimento alle richieste vaghe di una minoranza, uno “sparuto gruppo di demagoghi improvvisati sostenuti da professori maoisti”, la cui progettualità “vaga nell’assurdo e nell’utopico”, e si appella “a chi di dovere” e ai genitori. Le tensioni aumentano sino a che 106 su 136 professori dell’Itis si rifiutano di fare lezione a metà febbraio. I contestatori sono 70 su 1300, secondo i docenti esasperati dopo quattro mesi di lezioni a singhiozzo, scioperi e contestazioni, oltre a un tentativo da parte degli studenti di partecipare agli scrutini di gennaio. Pochissimi docenti difendono gli studenti dalle accuse rivolte dai colleghi. Anche gli insegnanti del Righi protestano per l’occupazione e segnalano che riescono a fare lezione solo i rari professori favorevoli al movimento.

Sebbene non più in prima fila negli onori della cronaca, questi sommovimenti coinvolgono anche il Galvani, dove, come in altre scuole, erano state concesse le assemblee previste, entro certi limiti, dalla circolare Sullo di gennaio. In una Seduta del Consiglio dei Professori del 12 febbraio 1969, infatti, viene letta dal preside la circolare ministeriale del 17 gennaio 1969 e il Consiglio si esprime a favore della mozione degli studenti che chiedono un’assemblea generale congiunta di studenti e insegnanti.[73] Tuttavia, qualcosa è cambiato: la concessione dell’assemblea non basta a placare gli animi e, nel marzo 1969, un volantino del “movimento Galvani” evidenzia la radicalizzazione del gruppo più attivo nella direzione di una connotazione ideologica sempre più evidente:

MARCIARE DISUNITI COLPIRE UNITI (LENIN)

OGGI A BOLOGNA MOLTI COMPAGNI SONO IMPEGNATI NELLE LORO SCUOLE IN UNA RISPOSTA ALLA REPRESSIONE LA QUALE TROVA UN VALIDO STRUMENTO ANCHE NEI CRITERI DIDATTICI E SELETTIVI. ESSI NON POSSONO REAGIRE SE NON CON UNA PRESENZA CONTINUAMENTE ATTIVA CHE TESTIMONIA LA LORO RISPOSTA POLITICA LA CUI FORZA, CON LE MASSE CHE L’ESERCITANO, COSTITUISCE, PER IL MOMENTO, L’UNICO BLOCCO ALL’OPERAZIONE REPRESSIVA DELLE AUTORITA’.

MARCIARE DISUNITI COLPIRE UNITI!

SE OGGI NON E’ POSSIBILE UNA AZIONE UNITARIA A LIVELLO CITTADINO E’ PERO’ DOVEROSA UNA UNITA’ DI AZIONI DIVERSE CHE ABBIANO PERO’ LO STESSO OBBIETTIVO. E’ QUESTO SISTEMA, E’ QUESTO ORDINE SOCIALE TRAMITE IL QUALE PASSA LA POLITICA DEL BASTONE, LA VERA REALTA’ DAVANTI ALLA QUALE OGGI SONO POSTE TUTTE LE MASSE STUDENTESCHE E OPERAIE.

E’ LA NEGAZIONE DI TALE ORDINE SOCIALE IL VERO OBBIETTIVO A CUI TUTTI DOBBIAMO PRESTARCI NELLA LOTTA, PER FAVORIRE LA LIBERAZIONE DI TUTTE QUELLE MASSE CHE TALE “ORDINE”, CHE TALE “PACE SOCIALE”, RENDE OPPRESSE IN CONDIZIONI INUMANE SODDISFACENDO AI SOLI INTERESSI DELLA CLASSE DOMINANTE.

CONTINUIAMO OGGI IL DIBATTITO NELLE CLASSI, NEI CORRIDOI, NEI CESSI PERCHE’ TUTTI I COMPAGNI SIANO DISPONIBILI ANCHE NEL MOMENTO DELLA LOTTA!

SIATE REALISTI CHIEDETE L’IMPOSSIBILE

HASTA LA VICTORIA SIEMPRE!

movimento studentesco del Galvani[74]

E’ palese l’evoluzione del lessico e dei riferimenti politico-ideologici rispetto ai volantini del 1968, in un immaginario sincretico che tiene insieme gli slogan del maggio francese, Lenin, Che Guevara, studenti figli della classe dominante (molti dei quali, come ricorda Stefano Cammelli, non avevano mai visto un operaio in vita loro) e proletari alienati dal lavoro di fabbrica. Risulta chiaro, alla luce di tale prospettiva, perché l’assemblea non può essere più una concessione sufficiente a placare le rivendicazioni studentesche. Nel marzo del 1969, in occasione dell’occupazione delle Rubbiani, un volantino del movimento spiega:

RUBBIANI OCCUPATO! LA LOTTA SI STA GENERALIZZANDO NELLE SCUOLE, GLI ISTITUTI PROFESSIONALI SCENDONO IN LOTTA LA POLIZIA PRONTA A INTERVENIRE! In questi ultimi giorni di fine trimestre l’apparato scolastico e poliziesco sta intervenendo a tutti i livelli contro gli studenti. La polizia proseguendo il disegno politico iniziato con lo sgombro delle Università di Roma e Bologna con l’assedio di interi quartieri della città, si prepara a intervenire contro le scuole medie. I presidi forti dell’appoggio poliziesco e del clima di repressione didattica (voti e interrogazioni) e familiare vigente in questo periodo della scuola stanno (ricatto di fine trimestre) togliendo agli studenti anche le concessioni e il potere conquistato con le lotte del primo e secondo trimestre. L’assemblea Sullo com’era prevista dal Ministro si è trasformata in uno dei tanti momenti burocratici della vita scolastica dal momento che non ha più potere di decidere e di organizzare la lotta.

Il Movimento studentesco medio chiede una partecipazione degli studenti agli scrutini per “contestare i metodi di valutazione classista”, sposando una piattaforma di lotta specifica per gli istituti professionali per il riconoscimento del diploma di qualifica e la revisione del percorso di inserimento al lavoro.[75] In queste rivendicazioni il Galvani cerca faticosamente il suo spazio e la sua identità, particolarmente difficili da individuare per un liceo classico, in primis prendendo posizione in sostegno degli studenti delle altre scuole, ma anche evidenziando la necessità di una saldatura tra teoria e pratica, forse per sfuggire a possibili accuse di ozioso intellettualismo e mostrare aderenza alle istanze più pragmatiche avanzate da indirizzi scolastici più vicini al mondo del lavoro:

IMMINENTI PROVVEDIMENTI DISCIPLINARI SOLLECITATI DAL PROVVEDITORE AI PRESIDI DELLE SCUOLE” (RESTO DEL CARLINO)

ITIS: 20 DENUNCE A STUDENTI MARCONI: 5 STUDENTI ESPULSI PER TUTTO L’ANNO

MILANO: 2 LICEI CHIUSI LA REPRESSIONE STA PASSANDO E PASSERA’ IN TUTTE LE SCUOLE SE NON CI OPPONIAMO SUBITO.

TUTTA LA POPOLAZIONE STUDENTESCA MEDIA CITTADINA HA DECISO PER OGGI, NEL CORSO DI 2 ASSEMBLEE TENUTESI LUNEDI’ E IERI, UNA GIORNATA DI LOTTA.

GLI STUDENTI DEL GALVANI INDICONO

ASSEMBLEA GENERALE STRAORDINARIA ALLA FACOLTA’ DI LETTERE

DA TENERSI IMMEDIATAMENTE PER DISCUTERE LA NOSTRA POSIZIONE NELL’AMBITO STUDENTESCO CITTADINO

STUDENTI DEL GALVANI DEL MOVIMENTO STUDENTESCO

SE POSSEDIAMO UNA GIUSTA TEORIA, MA CI LIMITIAMO A FARNE OGGETTO DI CONVERSAZIONE SENZA METTERLA IN PRATICA, ALLORA QUESTA TEORIA PER QUANTO BUONA NON HA ALCUNA IMPORTANZA[76]

Il 24 marzo 1969 il movimento studentesco medio, appresa la notizia delle dimissioni del ministro Sullo, motivate in parte dalla situazione di tensione generata dalla sua proposta di riforma, si esprime sulla repressione nei confronti degli studenti e promuove la richiesta di assemblee straordinarie in tutte le scuole:

Le dimissioni di Sullo appaiono come il coronamento di una manovra reazionaria evidenziatasi già da tempo attraverso le repressioni scolastiche e poliziesche. Questa manovra repressiva viene portata avanti dalle forze di destra, che tentano di restaurare la struttura autoritaria-fascista della scuola, scossa dal Movimento Studentesco, per privare gli studenti del potere conquistato nelle lotte di novembre. Sappiamo che questo potere non risiedeva tanto nelle concessioni delle autorità scolastiche, alquanto vaghi e passibili di varie interpretazioni, (Circolare Sullo), ma nella forza organizzata del Movimento Studentesco. Ciò è dimostrato dal fatto che in alcune scuole della nostra città non si è tenuta nessuna assemblea Sullo, per il semplice motivo che gli studenti non hanno saputo conquistarsela.[77]

Il volantino prosegue elencando i provvedimenti volti a soffocare le rivendicazioni: sospensioni e denunce a studentesse dell’istituto Rubbiani, aggressione da parte del vicepreside dell’ITIS a uno studente usando “le leggi fasciste del 1925 costruite su misura per questo intento”, e si conclude promuovendo con urgenza la richiesta di assemblee straordinarie in tutte le scuole. Per le vicende del Galvani è interessante il retro del volantino, dove si legge un testo del movimento del liceo classico di via Castiglione in cui emergono le tensioni tra l’ala moderata e “riformista” degli studenti, che aveva maturato ed espresso la sua esperienza nell’OR e nel giornalino (e si coagulava intorno alla figura di Biagi), e l’ala più radicale e massimalista, guidata da Enrico Petazzoni, coadiuvato da Paolo Isola, che, pur messa in minoranza nel corso di un’assemblea tenuta il 22 marzo, insiste sulla sua linea:

IL M.S. DEL GALVANI SULLA ASSEMBLEA DI SABATO

La mozione Biagi approvata nell’assemblea generale del Galvani si pone in un atteggiamento mistificatorio e riformista nei riguardi del problema delle masse studentesche nella scuola:

  1. Mistificatorio perché, raccolto il motivo della linea del mov. stud. ha tentato di oscurarlo in una forma risolutiva che non deriva da alcuna analisi. Lo studente si sente oppresso nella scuola e si sente libero solo lontano da essa. – Un 6 in latino invece di un 5 non può risolvere questa contraddizione.
  2. riformistico perché nella sostanza nessuna realtà viene modificata. Si tratta di un riformismo della peggiore specie quando la mozione Biagi è impossibilitata ad aprire nuove prospettive, magari future, di effettiva partecipazione critica degli studenti alla “operazione” degli scrutini, ma permette a questa una veste formalmente più democratica all’insegna di quella rappresentanza (sic!) di studenti che non può che constatare e avvallare il voto e il giudizio degli insegnanti che rimangono inappellabili.

Di contro alla approvazione di questa mozione l’Ass. ha espresso, nei voti favorevoli alla mozione Isola e in parte negli atteggiamenti di astensione, anche una certa sua disponibilità, tanto più notevole quanto più politiche e precise ne sono state le motivazioni, al discorso inverso. Come nella fabbrica, così anche nella scuola la contraddizione principale è dovuta all’inevitabile cozzare degli interessi a cui le strutture scolastiche rispondono con gli interessi e le esigenze degli studenti. Da questo cozzare di interessi derivano i criteri selettivi della scuola che fa “passare” solo chi ha subordinato o annullato le proprie esigenze in nome di quelle dei gruppi di potere (economico-politico) dominanti.

L’affermazione dei nostri diritti non è un patetico appello al sig. Preside, ma un APPELLO ALLA COSCIENZA POLITICA DELLE MASSE STUD. che nella lotta possono e debbono trovare le forme della loro liberazione.  

Contro l’azione riformistica di chi vorrà partecipare all’operazione selettiva della scuola il M.S. invita tutti i compagni che hanno aderito alla sya (sic) proposta o che ne richiedono chiarimenti, a partecipare ALLA RIUNIONE DEL COLLETTIVO PER DEFINIRE ULTERIORMENTE IL PROBLEMA E PER CERCARE FORME NUOVE DI PARTECIPAZIONE NELLA MASSA STUDENTESCA. OGGI ALL’ISTITUTO CAVAZZA (v. Castiglione) ORE 15.[78]

P.S. il Collettivo tratterà questo problema collateralmente ai problemi indicati nell’altra facciata di questo volantino[79] 

Evidentemente la mozione vincente si pone in un’ottica di negoziazione (ad esempio si limita a rivendicare la partecipazione di una rappresentanza di studenti allo scrutinio in veste di osservatori, istanza già avanzata nella primavera del 1968), confermando l’approccio pragmatico e mediatore che caratterizzava l’OR e La Rana, per cui era già un passo significativo riconoscere negli studenti interlocutori con cui ragionare su come migliorare la realtà scolastica. L’altra ala, che si identifica nella mozione Isola, colloca il problema degli scrutini in un orizzonte più ampio, come parte di un sistema di selezione funzionale al progetto politico della classe dominante, per cui la scuola poteva essere migliorata solamente apportando modifiche sostanziali alla società e al sistema economico. L’equiparazione della realtà scolastica al sistema di fabbrica, probabilmente, non convince la maggior parte dei benestanti studenti del Galvani, per loro stessa ammissione non avvezzi, se non in casi eccezionali, alla lettura di Marx o dei francofortesi. Tuttavia, lo zoccolo duro dei massimalisti non demorde, operando un rovesciamento dialettico nella lettura di quanto avvenuto: a fronte di un numero significativo di astenuti, il fatto di avere comunque coagulato un certo consenso intorno a una proposta connotata politicamente fa sperare che le masse studentesche possano, nel tempo, rendersi consapevoli ed emanciparsi dai meccanismi di dominio impliciti nelle istituzioni totali. 

Un documento dell’archivio Berti ci permette di comprendere meglio la linea dei “massimalisti”:

Ogni studente all’interno della scuola vive quotidianamente in uno stato di profondo disagio. A livello spontaneo il disagio si esprime nel quasi totale disinteresse per ciò che si studia. Di qui nasce il massiccio fenomeno del menefreghismo, il rifiuto della collaborazione e spesso l’astio contro i professori, in definitiva, la continua “rompitura”. Per cui lo studente vegeta avendo come unica meta il sei, cioè la sopravvivenza come studente. Ma qualora in questa situazione si inserisca un nucleo di studenti più o meno organizzati, con obbiettivi di modificazione più o meno radicale delle condizioni esistenti, assai facilmente si passa al rifiuto aperto, all’agitazione, alla lotta studentesca. Concretamente ciò si è verificato a Bologna negli ultimi due anni: una serie di scioperi nel ’67, di occupazioni nel ’68. Queste azioni di massa sono sempre sorte in situazioni di particolare tensione (in presenza di lotte nelle università, ecc.) o si sono configurate come momentanee e disarticolate esplosioni di contraddizioni. Sono stati formulati, durante queste lotte, una serie di obbiettivi generali (spesso generici), ma non si è mai fatto un programma concreto di agitazioni con obbiettivi e strumenti di mobilitazione, non si è mai arrivati (ed è la lacuna più grave) ad una forma di organizzazione che unificasse, programmasse, generalizzasse le masse. Oggi, se vogliamo continuare il lavoro degli anni scorsi superandone i limiti ci troviamo di fronte questi due problemi: da un lato dare vigore e organicità all’azione dei singoli gruppi in ogni istituto, dall’altro collegare fra loro le varie scuole, costituire cioè, un Movimento Studentesco che agisce politicamente a livello cittadino.[80]

Dopo avere sottolineato la necessità di un contatto costante con la base e quindi uno stretto rapporto con la propria realtà, “un’azione di inchiesta permanente sulla base studentesca” con “cellule di classe, di corso, di piano”, si rivendica il potere dell’assemblea e non degli organismi rappresentativi a democrazia delegata: “Potere all’assemblea in tutte le scuole al di là di qualsiasi organismo rappresentativo” e “mobilitazione permanente sui temi oggettivamente presenti all’interno di ciascuna scuola e soggettivamente sollevati dal Movimento Studentesco cittadino.” Il testo prosegue: “I capoccia fanno in continuazione piccoli e grandi piani sulle nostre teste; noi dobbiamo rispondere pianificando la lotta perché essa diventi realmente la nostra normalità. Accanto al lavoro pratico dobbiamo portare avanti anche un approfondito lavoro teorico sugli obbiettivi interni alla scuola ed esterni per collegarci alle altre forze sociali.”. L’impianto teorico e la concretizzazione delle richieste di un locale a disposizione e di strumenti come ciclostile e radio a circuito interno fanno ragionevolmente supporre che questo testo, come di consueto non firmato, sia stato prodotto da Petazzoni e Isola.

Il 25 marzo 1969, per ordine del giudice istruttore Orlandini, vengono arrestati sei studenti e un’operaia. La vicenda aveva preso avvio a inizio marzo, durante uno sciopero alla fabbrica Longo, dove si erano verificati scontri tra studenti, operai e polizia ed era stato arrestato lo studente di giurisprudenza Stefano Grossi. Un corteo improvvisato ne aveva chiesto la liberazione, scontrandosi nuovamente con le forze dell’ordine. Nei giorni successivi continuano tensioni e disordini, sino agli arresti con l’accusa di “violenza e minaccia a pubblico ufficiale con armi improprie”. Tra gli arrestati Franco Berardi e Otello Ciavatti. Nei giorni successivi davanti al carcere di San Giovanni in Monte si svolgono manifestazioni di protesta. Mentre Grossi sarà rilasciato in libertà provvisoria a fine aprile e il suo caso seguirà un iter autonomo, il processo agli altri arrestati si concluderà alcuni mesi dopo con condanne di 6 mesi e 10 giorni. Il PCI assumerà un atteggiamento di condanna degli estremismi, ma il Comune verrà comunque accusato dal Resto del carlino (il 31 marzo in cronaca di bologna) di essere troppo conciliante con le agitazioni studentesche per indurre i ragazzi ad abbracciare il PCI.

Il giorno dopo gli arresti, il 26 marzo, il movimento studentesco del Galvani prende posizione, declinando la questione anche rispetto alla diatriba interna tra riformisti e radicali:

E CHI AVESSE ANCORA DEI DUBBI OGGI DEVE CHIAMARLI PER NOME

Giorni fa alle Rubbiani 5 studentesse sono state denunciate

87 studentesse hanno avuto 6 in condotta

12 studentesse sono state sospese per un mese.

IERI all’ITIS 6 studenti sono stati convocati in questura per un interrogatorio

IERI 6 studenti e un’operaia sono stati arrestati a casa loro per un picchettaggio di 20 giorni fa alla fabbrica Longo (l’incursione notturna nelle case private è la stessa che si è sempre operata quando perfino le istituzioni parlamentari erano superate dall’ordine poliziesco)

IERI SULLO ha riconosciuto in Parlamento CHE LA SCUOLA E’ DIVENTATA UN PROBLEMA DEL MINISTERO DEGLI INTERNI (POLIZIA)

Questo vuol dire che la linea riformistica imposta dal governo non apre nessuno spazio alla possibilità di critica delle masse, ma che si accompagna invece a una repressione quale ancora non si era avuta. Il riformismo mira a creare una falsa pace sociale in cui i reali antagonismi siano risolti a tutto vantaggio dei gruppi di potere.

NON PERMETTEREMO CHE PASSI QUESTA LINEA.

Rifiutare oggi una scelta di lotta significa che non avremo la possibilità di parlare se non per dire ciò che piace ai detentori del potere politico. Rifiutare oggi di rispondere a tutto ciò significa venire meno alle proprie responsabilità.

Movimento studentesco del galvani[81]

L’allarme sulla repressione del movimento viene espresso anche su Controstampa, notiziario del movimento studentesco di Bologna e supplemento di Operai e studenti. Nel testo si cita Flaminio Piccoli che parla di lotta “dura e severa” contro i gruppi che usano il problema universitario in modo strumentale per obiettivi opposti o estranei alla riforma, ma anche il primo ministro Mariano Rumor che il 9 marzo aveva chiesto “decisione” nei confronti del movimento studentesco: “Saremo colpevoli – ha detto Rumor – se non rifiutassimo con decisione il tentativo di distorcere il metodo del rinnovamento coraggioso ma democratico con quello della violenza, se non ci opponessimo alla tentazione dissipatrice della protesta irrazionale, tanto più eversiva quanto più confusa e inconcludente. Essa tende a sopraffare il dibattito critico e costruttivo dei più con la minaccia e l’aggressione dei pochi”. [82] A tale osservazione il notiziario risponde sottolineando che la riforma non è democratica e la violenza è da parte della polizia, difendendo la protesta dall’accusa di irrazionalità e di rappresentare una minoranza. Su Controstampa n.2 si fa riferimento anche alle dichiarazioni di Maurice Grimaud, prefetto di polizia di Parigi, il quale promuove l’idea dell’”arresto preventivo” di 750 cittadini “per non dar loro occasione di commettere un qualsiasi reato”, rimarcando: “E’ sempre esecrabile arrestare persone che non hanno ancora fatto nulla, ma nel passato (Italia docet, ndr) questo genere di misure preventive si sono rivelate efficaci”.[83]

Il ridimensionamento del ruolo del Galvani, nonostante lo strenuo tentativo degli irriducibili, appare inevitabile alla luce di un volantino del 26 aprile 1969 rivolto a tutti gli studenti da parte del movimento studentesco medio, che invita ad aderire all’assemblea promossa dall’ECAP “insieme alla classe operaia” sul problema della formazione professionale, “aprendo un discorso nuovo all’interno del movimento sulla formazione della forza lavoro che investe un arco di scuole, dai licei scientifici agli istituti professionali”.[84] Questo “discorso nuovo” non poteva che sancire l’esclusione dei percorsi di studio classici, non menzionati, confermando la difficoltà nel conservare un ruolo di guida di tali istituti nell’evoluzione della protesta e nel mantenere il coinvolgimento degli studenti del liceo Galvani nelle attività del movimento. Tuttavia, il gruppo non demorde e a inizio maggio diffonde un volantino:

STUDENTI DEL GALVANI – OGGI ALLE ORE 17,30

ASSEMBLEA A MAGISTERO (largo Trombetti 4)

DOPO LE LOTTE DI QUESTO ANNO – DOPO IL LAVORO POLITICO PORTATO AVANTI NELLE CELLULE

E’ NECESSARIO CHE CI RITROVIAMO PERCHE’ TUTTO CIO’ NON VADA PERDUTO PERCHE’ SI POSSA FARE IL PUNTO DELLA SITUAZIONE ATTUALE E DARE QUINDI UNA VALUTAZIONE POLITICA DEGLI AVVENIMENTI CHE ANCORA STANNO AVVENENDO ALL’INTERNO E ALL’ESTERNO DELLA SCUOLA

DOBBIAMO PRENDERE DECISIONI OPERATIVE IMMEDIATE RIGUARDANTI:

L’OPPORTUNITA’ O MENO DI CONVOCARE UN’ASSEMBLEA

IL PROBLEMA DEI CONTATTI DA NON PERDERE

IL LAVORO POLITICO ESTIVO

IL DISCORSO POLITICO RIGUARDANTE IL PERIODO DI FINE ANNO

L’IMPORTANZA E L’URGENZA DI QUESTI PROBLEMI DEVONO IMPEGNARE TUTTI A PARTECIPARE ATTIVAMENTE A QUESTA RIUNIONE[85]

cicl. in proprio                                 mov. stud del galvani

Una ricostruzione interessante delle tappe delle rivendicazioni del movimento medio bolognese che permette di capire cosa siano le cellule, oltre a comprendere meglio il ruolo del Galvani in questa fase ed evidenziare le differenze rispetto alle vicende del 1968, appare sul quarto numero di Controstampa.[86] Nel lungo testo si fa riferimento alla prima fase di lotta spontaneista, collocabile tra il 1967 e il 1968, che aveva in particolare l’obiettivo di ottenere l’assemblea, sebbene mancasse ancora una chiarificazione teorica del significato dell’assemblea, la sua valenza di mezzo di lotta utile per affrontare i problemi e le contraddizioni degli studenti. Questa assenza di chiarezza ha reso le assemblee poi concesse dal ministro Sullo nel gennaio del 1969 “strumentali a obiettivi riformisti”. Il vero problema era infatti il contenuto delle assemblee, più che la forma: alcune scuole hanno usato le assemblee proficuamente per avviare un discorso politico su temi ritenuti fondamentali come: “a) funzione della scuola nel sistema capitalistico, b) condizione dello studente, c) unità di operai e studenti”. Da qui prende avvio, secondo il notiziario, la seconda fase, caratterizzata da diverse linee politiche nel movimento degli studenti medi rispetto ai temi e soprattutto rispetto ai metodi a seconda delle singole scuole.[87] Tra le scuole dove, anziché far guidare le masse da una ristretta avanguardia, si tenta un coinvolgimento attivo e consapevole degli studenti, viene esplicitamente menzionato, seppure per poche righe, il Galvani: “Così per esempio è avvenuto al Galvani attraverso le “cellule di sezione” (in cui si è strutturato tutto il liceo) ove si è svolto un importante lavoro di chiarificazione di tutti quei temi che la base aveva meno percepito o che le erano meno chiari”.[88] Le cellule di sezione avevano dunque sostituito l’OR, sebbene non fossero state sufficienti a coinvolgere attivamente gli studenti nelle nuove proteste, che proseguono sino alla fine dell’anno scolastico. Il gruppo ristretto del Galvani si impegna comunque in manifestazioni contro gli studenti incarcerati con gli studenti del Marconi e del Laura Bassi:

STUDENTI DEL MARCONI-LAURA BASSI-GALVANI

MARTEDI’ 27 MAGGIO – MANIFESTAZIONE PER GLI STUDENTI INCARCERATI

GIOVEDI’ 29 MAGGIO – PROCESSO A 6 STUDENTI E 2 OPERAI[89]

[…] La vera risposta alla repressione è l’intensificazione della lotta che può essere attuata solo continuando ad approfondire il collegamento, ora ancora episodico e sporadico, tra studenti ed operai. Dobbiamo organizzare la lotta di massa nei COMITATI DI BASE, che costituiscono l’unica organizzazione permanente che la classe si sia data al di fuori degli organi istituzionali. Gli studenti medi devono impegnarsi insieme agli operai e al Movimento Studentesco universitario nella strutturazione del loro lavoro estivo nei COMITATI DI BASE.[90]

Ma ormai gli studenti più attivi non ricordano iniziative di grande rilievo, anche perché erano perlopiù chiusi in casa a studiare, talvolta costretti dai genitori, per evitare voti penalizzanti o sonore bocciature. Forse non è un caso se a inizio giugno il volantino congiunto di Marconi e Laura Bassi non inserisca più il nome del Galvani nel denunciare il problema del blocco degli scrutini. I professori sono in sciopero e bloccano scrutini ed esami, ad avviso dei giovani, “spinti dai sindacati di destra e dai sindacati dei presidi” con la complicità del ministro Ferrari Aggradi. In un volantino del 10 giugno 1969 si chiarisce che gli studenti medi sono coinvolti nei comitati di base operai e studenti e il movimento studentesco denuncia:

studenti

i sindacati dei professori approfittando della chiusura delle scuole e quindi dell’assenza del movimento studentesco per portare avanti uno sciopero che, al di là di alcune richieste giuste, ha come fine ultimo quello di contrattare l’adesione dei Sindacati della scuola ad una riforma scolastica che, ora, passa sulla testa degli studenti, per poi contrapporre, in Ottobre, al movimento studentesco il fronte unito Governo-sindacati della scuola. Da ciò consegue la necessità che il M.S. non cessi di esistere con la fine dell’anno scolastico, ma si dia, durante il periodo estivo, una struttura tale che gli permetta ad Ottobre di spezzare immediatamente l’isolamento nel quale il governo lo pone.[91]

Si propone dunque di lavorare su “1) analisi delle lotte dello scorso anno a livello generale e dei singoli istituti, 2) analisi dei piani di riforma scolastica e prospettive di apertura della lotta in ottobre, 3) partecipazione attiva degli studenti medi ai lavori dei comitati di base operai-studenti”.

Dopo le turbolenze primaverili e la chiusura del difficile anno scolastico 1968/69, il 31 agosto 1969 i docenti del Galvani sono riuniti dalla prof.ssa Maria de Varda, la quale comunica ai colleghi che il prof. Marcelli (e possiamo immaginare con quale soddisfazione, dopo l’annus horribilis vissuto), ha assunto un incarico di insegnamento all’università. “Il Consiglio rivolge un deferente saluto al sig. Preside” che, dopo una breve reggenza della De Varda, sarà sostituito da un volto noto, Davide Giordano, già docente di lettere classiche nel liceo e poi preside a Piacenza. Ligio alle indicazioni della circolare Sullo, Giordano concede un’assemblea agli studenti il 24 ottobre nel cinema Odeon e poi presiede il suo primo collegio il 6 novembre 1969, dedicato come di consueto al regolamento interno e alle norme didattiche e disciplinari, con un discorso conciliante sulla situazione della scuola: 

Egli ritiene che, per un retto funzionamento dell’Istituto scolastico, motivo di essenziale interesse sia il duplice riconoscimento del principio di autorità (da non confondere con autoritarismo) e di quello di libertà, col conseguente rispetto delle persone, delle idee e dei metodi di lavoro di ciascuno; soltanto nell’osservanza di tali valori che stanno alla base di ogni concezione umana e civile si potrà far fronte – e superarli con spirito di dedizione e di abnegazione – ai disagi e alle incomprensioni provenienti dalle critiche mosse alla scuola, critiche talvolta anche giuste come quelle che investono l’autorità che degenera in autoritarismo; quel sistema educativo passivo ed inerte che vede il fine ultimo dell’opera della scuola negli esami e nel fiscalismo legalitario della rigida osservanza di alcune norme (che pure potrebbero essere intese ed applicate con più umana apertura).[92]

Il Preside fa presente che “anche altri appunti, ben più pesanti e spesso ingiusti, si volgano contro la scuola: la contestazione globale vede in essa e nelle persone che vi lavorano le “pedine” di un ingranaggio arcaico e propone metodi ed operazioni fuori dalle attuali possibilità di realizzazione”. Prosegue ricordando che è “deprecabile lo scadimento culturale in una ipotetica società del domani fondata su principi di facile e incerta preparazione culturale e civile”, sottolineando, inoltre, come il particolare momento di difficoltà:

[…] imponga un sincero dialogo con gli alunni e che l’accoglimento delle loro richieste più ragionevoli (ivi comprese quelle relative alle assemblee, secondo le modalità di legge, talora aspramente criticate da elementi contrari ad innovazioni di rilievo) rientra nell’ambito di una normale apertura umana, che vede nella discussione uno dei momenti più formativi non solo della preparazione culturale, ma soprattutto della formazione civica degli studenti. […] Premesso che le richieste studentesche di innovazioni metodologiche e, nell’ambito consentito dalla legge, strutturali, quando rispondano a criteri di razionalità e funzionalità, possono e devono essere valutate e accolte nelle loro migliori prospettive, il Preside dà lettura di una proposta di lavoro avanzata dagli alunni della III F. Essa comporterebbe uno studio collettivo (in ore non scolastiche) dei giovani distribuiti in gruppi ed una successiva discussione in classe, alla presenza e con l’intervento del Professore, al quale spetta il compito di collegare i vari argomenti. Il Preside lascia al prudente consiglio dei Professori l’accoglimento di tali innovazioni, purché non contrastino con le disposizioni legislative attuali e non pregiudichino l’organico sviluppo dei programmi. Resta comunque ferma l’esigenza di tutelare la disciplina interna e di non permettere che le richieste innovatrici degli studenti degenerino in atti contrari al rispetto e alle norme di una civile convivenza: soltanto in questo caso si dovrà ricorrere a sanzioni disciplinari, o, in casi estremi, all’intervento degli organi previsti dalla legge.[93]

Come abbiamo già potuto osservare in altre occasioni, anche nel corso di questa seduta i docenti si dividono tra perplessità sulla centralità del lavoro di gruppo rispetto al lavoro in aula e timori per l’impatto sullo svolgimento dei programmi. Il preside propone riunioni per materie affini con ascolto di delegazioni di studenti in merito alle questioni metodologiche e possiamo ben immaginare alcune delle proposte, alla luce degli interventi su La Rana degli anni precedenti. Altri docenti si mostrano più propositivi, come la prof.ssa Fanti e don Contiero, il quale propone iniziative culturali e assistenziali. Il preside stesso promuove l’organizzazione di rappresentazioni teatrali e conferma la tradizione delle conferenze de “I martedì del Galvani”. Vi è anche chi pone il problema della valutazione in classi numerose o con alunni non disponibili a farsi valutare, per cui il preside suggerisce di tenere conto degli interventi, proponendo lezioni dialogiche. Giordano si trova anche a dover arginare le resistenze di chi contesta la validità delle assemblee degli studenti, ricordando quanto stabilito dalla circolare Sullo del 17 gennaio, di cui il prof. Dario Galli mette ancora in dubbio la legittimità, insistendo sulla possibilità di impugnare tale circolare.

Il clima di guardinga disponibilità del collegio, a cui la primavera aveva risparmiato le lotte dilanianti verificatesi in altri istituti, si inserisce in un avvio di anno scolastico che annuncia nuovi fermenti. Già il primo ottobre, primo giorno di scuola, nella cronaca locale L’Unità riporta la notizia del corteo per una scuola democratica e il diritto allo studio, ricordando l’attenzione della giunta comunista per questi temi. Nelle settimane successive, si moltiplicano le notizie di cortei e proteste di migliaia di operai contro il carovita, l’aumento dei canoni d’affitto e a favore di una radicale politica di riforme. Anche i docenti medi in corteo chiedono lavoro e lo sdoppiamento delle “classi-mostro”. Ricominciano poi le occupazioni nelle scuole, con le Aldini in protesta conto il preside e la rivendicazione di gruppi di studio sul futuro del tecnico (gruppi che coinvolgeranno anche liceali), cui si affianca l’ITIS e poi il Righi. Le notizie dei cortei studenteschi in città (ad esempio il 9 novembre ne sono protagonisti Righi, Laura Bassi, Marconi e Rubbiani), nei quali “i giovani comunisti indicano l’esigenza di stretto collegamento con gli obiettivi della classe operaia”, non vedono mai citato il liceo Galvani.[94] Cominciano anche a fioccare le sanzioni: 112 allievi sospesi al Pacinotti (che verrà poi chiuso a tempo indeterminato per decisione del collegio dei professori), il 13 novembre vengono arrestati due studenti al Fermi e puniti 110 studenti alle Laura Bassi. Il 14 novembre gli studenti manifestano in piazza Maggiore “contro l’ondata di repressione”, ottenendo (15 novembre) “Il solidale appoggio dei comunisti alla responsabile lotta degli studenti medi” (sempre L’Unità, cronaca di Bologna), nell’ottica di un rinnovamento della scuola saldato a un rinnovamento della società e all’alleanza con gli operai.

Non mancano le polemiche tra L’Unità e Il Resto del Carlino, che in quegli stessi giorni ricostruisce le vicende delle proteste studentesche con ben altri toni. L’11 novembre il quotidiano felsineo titola “Minoranza occupa la succursale del Fermi” un articolo nella cronaca di Bologna, specificando: “Le richieste avanzate da un gruppetto di estremisti riguardano proposte già dichiarate inaccettabili dagli insegnanti”. Prosegue poi: “Una cinquantina di estremisti del <<Movimento studentesco>> […] ha occupato la succursale di via Regnoli. […] L’occupazione, che non trova nessuna giustificazione, è stata definita dagli studenti <<un momento collettivo di lotta per ottenere una maggior libertà di stampa, di parola e di riunione all’interno dell’Istituto>>”. Il quotidiano fa riferimento all’appoggio fornito alle proteste del Fermi e del Pacinotti da parte di studenti universitari di Potere operaio. Emblematico il titolo del 15 novembre: “Studenti all’assalto: la polizia reagisce”, per riportare la notizia di scontri violenti davanti al Pacinotti con feriti tra gli studenti. Il 16 novembre Il Resto del Carlino fa riferimento per la prima volta al Galvani, raccontando di un’occupazione fallita:

Al liceo Galvani, invece, l’occupazione, votata nel corso di un’assemblea da una ristretta minoranza, è andata in fumo. Le forze dell’ordine infatti non appena sono apparse in via Castiglione hanno provocato una fuga generale. La polizia era giunta sul posto perché i contrasti tra gli studenti che volevano occupare e quelli che intendevano continuare le lezioni rischiavano di trasformarsi in incidenti.

Viste le informazioni poco dettagliate dei quotidiani (su L’Unità il titolo del 16 novembre recita: “I protagonisti di un grande movimento per una scuola nuova e antifascista”, in totale antitesi rispetto al quotidiano antagonista, e non si fa alcun riferimento specifico al Galvani), leggiamo come viene riportata la notizia dal preside Giordano al Consiglio del 15 novembre 1969, convocato alle 11.30 di mattina, evidentemente in tutta fretta e sull’onda degli eventi, con i professori presenti a scuola in quel momento “per discutere sugli avvenimenti in corso e per procedere ad eventuali decisioni qualora la già agitata situazione studentesca degeneri ulteriormente fino a richiedere immediati e straordinari provvedimenti.”[95] Il verbale segue il dipanarsi in fieri degli eventi riportando quanto esposto dal preside:

Egli comunica di avere disposto l’uscita degli alunni alle ore 11, perché l’edificio dichiarato instabile avrebbe potuto cedere sotto il peso delle persone ammassate in un solo locale. Il Preside, dopo aver richiamato l’obbligo del segreto d’Ufficio per i partecipanti alla riunione, espone i fatti: alle 8.10 molti giovani, anziché seguire le lezioni, si sono arbitrariamente riuniti nel corridoio del I piano ove hanno tenuto un’assemblea non autorizzata. Inutili sono state le sollecitazioni del Preside, che invitava i ragazzi a rientrare in aula, ricordando loro il dovere di ubbidienza alle disposizioni scolastiche. Considerata poi una mancanza isolata dell’alunno Berti Ceroni della III C (Il prof. Galli riferisce sull’episodio, dichiarandosi soddisfatto dell’inchiesta condotta dal Preside), il Preside e i Professori riflettono sulla situazione attuale; il Preside prepara la denuncia all’autorità giudiziaria del Sitting (sic, n.d.a.) avvenuto al I piano. A questo punto giunge la notizia che vi è, da parte di un gruppo di alunni, un tentativo di occupazione della scuola: le tesi sono varie: dalla richiesta di “drastici provvedimenti” contro i responsabili e dalla chiusura a tempo indeterminato del Liceo (prof. Galli), all’intervento, qualora fosse indispensabile, della Polizia. Altra tesi è quella che propone sì il ricorso ai mezzi previsti dalla legge, non senza però aver dato ad una delegazione di ragazzi invitati nell’aula, la possibilità di esprimere i motivi delle loro azioni, invitandoli a desistere, per ricorrere, poi, se necessario alle forze dell’Ordine (Preside, Proff. Arcangeli, Pizzardi, Galli, Lugli, Silvestri, Paolucci e altri). La maggior parte degli insegnanti si oppone, ritenendo opportuno, però, che si rechi dagli studenti il Preside col Consiglio di Presidenza: in questo momento il Capo d’Istituto viene a conoscenza della presenza all’uscita della scuola (il cui portone è stato chiuso) di studenti contrari all’occupazione e di altre persone, estranee alla scuola, dalle quali si prevede un’azione violenta. Alla preoccupazione civile e morale già esistente, si aggiunge la necessità di evitare incidenti possibili ora più che mai e si chiede l’intervento delle forze dell’Ordine. Dopo il ritorno alla normalità e l’allontanamento di tutti, i Professori tornano nell’aula di fisica: sono convocati per una seduta del Collegio il 17 p.v. alle ore 16.30. La seduta è tolta alle ore 14.[96]

Gli studenti presenti quel giorno ricordano che fuori dal portone del liceo si erano radunati gruppi di destra pronti a entrare per scontrarsi con i contestatori intenzionati a occupare la scuola. La vicenda è ricostruita nuovamente, a posteriori, nella riunione del 17 novembre 1969, convocata per discutere i fatti ed emanare eventuali provvedimenti.[97] Si tratta decisamente di un battesimo di fuoco, che vede Giordano affrontare una questione incandescente già nel suo secondo collegio come preside del Galvani. Dopo aver ripercorso gli eventi, il preside ottiene un’approvazione unanime della propria linea e “ricorda la necessità di evitare nella scuola ogni tipo di propaganda politica e di ricorrere, in caso di necessità, alle sanzioni disciplinari contro gli studenti che turbino la vita scolastica, indipendentemente dal loro credo politico”.[98]

Si apre poi la discussione tra i docenti, che ancora una volta appaiono divisi. Il prof. Galli osserva che bisognava chiamare subito le forze dell’ordine, non appena gli alunni erano usciti dalle aule per il sit in, e “si dichiara insoddisfatto dell’atteggiamento del vicepreside, il quale ha rifiutato di denunciare alla Polizia i promotori dell’azione di sabato, che, a suo avviso, sono sovvertitori dell’ordine e del diritto e celano, nel discorso scolastico, una volontà di turbamento sociale. Dà lettura dell’art. 361 del Cod. penale”. Il Preside, dal canto suo, “dà lettura di due mozioni studentesche: una della sezione G, che auspica il normale svolgimento del lavoro scolastico pur in un clima fervido di riforma; l’altra del corso A (liceo), non firmata, che prospetta una risposta violenta a chi disturba il funzionamento del liceo”.[99] Anche gli studenti sono dunque in aperto conflitto tra loro.

Il vicepreside Viglino si difende dalle accuse di Galli e:

[…] ricordata la situazione di sabato (coloro che stavano all’esterno gettavano giornali accesi all’interno, erano armati di bastoni e di spranghe, pronti ad entrare dopo le ore 14 per “fare piazza pulita”; gli occupanti d’altra parte, informati di ciò, non volevano uscire), fa presente che la sua condizione di educatore gli fa rifiutare il modo repressivo, per operare il recupero dei giovani. D’altra parte non si può punire, se non con leggi scolastiche, l’infrazione delle norme scolastiche. Egli propende quindi per l’esclusione di gravi provvedimenti disciplinari.[100]

In questo Viglino è confortato da altri docenti inclini a punizioni moderate, seguendo le disposizioni del Provveditorato, che Giordano dice di avere interpellato. C’è chi si preoccupa per i danni e chiede un sopralluogo tecnico per l’edificio e chi comincia a mettere a fuoco quali studenti hanno aizzato la protesta, sottolineando come Stefano Cammelli (figlio del prof. Cammelli) avesse tenuto un comizio in corridoio con un megafono, esprimendosi in modo offensivo contro i professori, per poi fuggire con Enrico Petazzoni dai tetti, in modo da entrare dalle finestre alle Aldini ed evitare così la polizia.[101] I docenti più ostili sottolineano che i gruppi di studio abbiano motivazioni politiche e non culturali, e che siano quindi concepiti non col fine di approfondire, ma di scardinare il sistema. Respinta la proposta di consentire agli accusati di difendersi davanti al collegio per non creare un precedente, viene da alcuni suggerita una ammonizione e formulata una proposta, integralmente riportata nel verbale, in cui viene specificato che “l’intervento della Polizia è stato richiesto non perché venisse compiuta azione di repressione contro l’una o l’altra fazione in procinto di scontrarsi, ma per evitare una deprecabile lotta nell’interno dell’Istituto, suscettibile di degenerazioni cruente in presenza di alunni, insegnanti e personale vario tutti bloccati per la chiusura del portone”, approvando l’operato del Preside e del Consiglio di presidenza:

Il Collegio stesso, sensibile a una situazione disciplinare interna che va rapidamente degenerando per causa, o con il pretesto, di contrastanti opinioni a sfondo politico, auspicando un rapido ritorno alla normalità non per compressione autoritaria, ma per libero convincimento, non ritiene opportuno che si proceda a provvedimenti disciplinari che, se applicati secondo la legislazione scolastica, dovrebbero essere estremamente gravi. Pertanto, nella speranza di ottenere che la vita della scuola, configurata nella coesistenza dello studio delle discipline programmate e nella libera critica degli attuali ordinamenti della società, riprenda con regolarità, invita il Preside ad ammonire (per iscritto) tutti coloro che, per sua conoscenza, hanno contribuito a creare disordine ed abuso ignorando volontariamente od involontariamente leggi e regolamenti. Raccomanda quindi al Preside, qualora per l’avvenire si verificasse recidività in reati scolastici, civili o penali, di agire con inflessibile severità.[102]

A questo punto Giordano dà lettura del regolamento sulle punizioni disciplinari e chiede un elenco di responsabili: “Egli richiama l’atteggiamento irrispettoso di Cammelli e prende atto delle ripetute denunce da parte dei Professori delle mancanze disciplinari che hanno turbato il regolare andamento della scuola. […] Si dichiara dell’avviso di applicare scrupolosamente le norme sulle punizioni disciplinari secondo la gravità delle mancanze.” Si formula quindi un elenco di ragazzi ritenuti responsabili, ricordando che si deve punire non tenendo conto del credo politico, ma delle mancanze scolastiche. C’è chi chiede di punire chiunque fosse fuori dall’aula, chi ricorda di punire o denunciare chi percuoteva con ferri il portone della scuola, chi accusa di vittimismo gli occupanti asserragliati all’interno, chi insiste sulle sanzioni per coloro che saltavano dai tetti.

Per quanto riguarda coloro che avevano tentato lo sfondamento del portone con le spranghe, il preside ne chiede i nomi. Non sorprendentemente, il prof. Galli riporta la testimonianza del figlio, secondo il quale gli alunni esterni si sono “comportati bene”, immediatamente smentito da molti professori presenti. Viglino, ad esempio, afferma di avere visto all’esterno gli atti violenti descritti, ma non è in grado di fare nomi. Arcangeli ha visto un alunno con maglione nero allontanarsi con una spranga. La proposta moderata di Viglino viene bocciata con 18 favorevoli e 39 contrari, si decide quindi di punire Cammelli, Petazzoni, Berti Ceroni, Pagni, Furlò, Ghermandi e Bottino. Il preside propone una sospensione per i primi quattro: sono favorevoli 45 professori. Gli altri tre saranno ammoniti, così come coloro che sabato non erano in classe. La seduta è tolta alle 21.40, dopo oltre cinque ore di discussione, e il 18 novembre vengono inviate le lettere con i provvedimenti disciplinari per Cammelli, Petazzoni, Pagni, Berti Ceroni: cinque giorni di sospensione dal 18 al 22 novembre con la motivazione: “Ha turbato il regolare andamento della scuola”. Il 19 novembre il Provveditore scrive ai capi di istituto segnalando l’obbligo di riportare le occupazioni all’autorità giudiziaria e il giorno dopo Giordano scrive un nuovo resoconto degli eventi per la Questura.

Sorprendentemente, ma non troppo, visto che in altre scuole i conflitti avevano assunto caratteri ben più drammatici, avranno più eco sui giornali le preoccupazioni per la stabilità dell’edificio rispetto alle rivendicazioni degli studenti. Il 27 novembre 1969 Il Resto del Carlino nelle pagine locali denuncia: “Pericolante l’edificio del Galvani? Allarmanti accertamenti dell’Ufficio tecnico comunale – E’ necessario un chiarimento delle autorità che tranquillizzi le famiglie degli studenti”. Già nei giorni precedenti il quotidiano aveva pubblicato alcune lettere che denunciavano il “piccolo terremoto” provocato dai contestatori nell’edificio cinquecentesco monumento nazionale. Così prosegue l’articolo: “Il preside ha affisso cartelli che vietano di raggrupparsi nelle aree a rischio, inviando anche una lettera alle famiglie in cui comunica di essere pronto, per la comune incolumità, a chiudere la scuola temporaneamente. I primi rilievi sembrano evidenziare che primo e secondo piano non possano accogliere assembramenti, così come le scale.”

Anche L’Unità del 27 novembre riporta nella cronaca locale il titolo “Al liceo Galvani clima da “crollo” incombente” con un’allusione al “candore” del Resto del Carlino. L’articolo spiega che il quotidiano “padronale” ha pubblicato la lettera di un genitore (sotto l’eloquente titolo “Contestatori come il terremoto”) preoccupato per la stabilità dell’edificio dopo il sit in dei giovani che, battendo i piedi sul pavimento, hanno fatto tremare l’edificio “dalle fondamenta fino al tetto”. Commenta il giornalista: “Siamo dinanzi a un duplice, becero, comportamento. Da un lato si strumentalizza il fatto in chiave di anticontestazione e, dall’altro, si lascia intendere che se l’edificio è pericolante la colpa è della turbolenza studentesca. E veniamo al preside: perché mai si aspetta un sit-in studentesco per scoprire che l’edificio del liceo presenta gravi lesioni? Le crepe e le lesioni non possono essere sorte all’improvviso.”

Da Manifestipolitici.it, banca dati open access della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna (www.manifestipolitici.it) – Proprietà manifesto originale: Fondazione Gramsci Emilia-Romagna (Bologna).

Il 24 novembre 1969 nel verbale di riunione del Consiglio di presidenza si fa riferimento al fatto che “gli addetti alla sistemazione dei locali dell’edificio scolastico, pur non ravvisando alcun pericolo riguardo l’uso normale delle scale e dei corridoi di disimpegno, raccomandano che si evitino assembramenti eccessivi”, per cui si decide di scaglionare le uscite. Il 27 novembre 1969 il Provveditore ricorda che la stabilità dell’edificio scolastico richiede attenzioni che, se non possono essere garantite, rendono opportuno sospendere le lezioni.[103] La vicenda sembra chiudersi così, senza particolari strascichi se non sul fronte delle misure cautelative per garantire la sicurezza: delle rivendicazioni studentesche all’origine di tale tentativo di occupazione non parleranno più né i documenti di archivio né i giornali locali.

Nell’autunno 1969 si assiste oltretutto a una graduale erosione del movimento studentesco medio: lo scenario appare occupato dai conflitti del lavoro e dalla formazione di gruppi radicalizzati come Lotta continua e Potere operaio. Quest’ultimo, nel primo numero dell’omonimo organo di informazione, sottolinea la necessità di assicurare nell’azione l’egemonia della lotta operaia sulle lotte studentesche e proletarie. Il vero spartiacque, che segnerà l’avvio di una nuova e sanguinosa stagione, è il 12 dicembre 1969, data associata dagli ex studenti di allora a un vero e proprio trauma collettivo. Con la strage di piazza Fontana entrano nel quadro nuove variabili che “rendendo più torbido lo scenario della conflittualità smorzarono non poco lo slancio vitale e la carica di energia” dei movimenti giovanili, decretando il primato di thanatos su eros. I giovani si trovano di fronte al “dato scioccante di una manifesta volontà stragista”, cui si somma la crisi della fiducia tra governanti e governati, alla luce delle ingerenze da parte delle istituzioni nelle indagini.[104] Sino a quel momento la violenza non appariva certo la cifra di un movimento fondamentalmente pacifico, in linea con la visione del situazionismo francese, recepita dal movimento italiano, per cui: “La rivoluzione sarà una festa o non sarà”.[105]

In occasione del cinquantenario, i bilanci di quanto avvenuto vedono affiancarsi giudizi positivi a valutazioni critiche, come quella di Franco Ferrarotti, il quale nel quarantennale si è trovato a osservare che il ’68 è stato una protesta che non è riuscita a farsi progetto, in quanto si è trattato di una sollevazione emotiva che non ha saputo tradursi in un piano razionale di autentica trasformazione sociale. Di altro avviso Maura Pozzati, che ricorda come non ci sia discorso sulla scuola, sull’istruzione, sui diritti della donna, sulla comunicazione di massa, sulla rivoluzione del costume, sull’opera d’arte che non passi per il ’68, in sintonia con Vittorio Foa, il quale ha sostenuto che mai nella storia un così piccolo numero di persone ha conquistato in così poco tempo un così gran numero di diritti per un così gran numero di persone. Al di là delle valutazioni storiografiche, gli ex alunni ricordano quegli anni come uno snodo cruciale del loro percorso di formazione, pur cogliendone retrospettivamente certe ingenuità o i velleitarismi. Di certo l’adesione al movimento studentesco, o quanto meno la consapevolezza dell’urgenza di certi temi, ha indotto molti giovani del Galvani a operare un decentramento rispetto a una condizione di ovattato privilegio e a non sottrarsi alle sfide poste alla loro generazione.

Un ricordo di Mauria Bergonzini

È un compito difficile quello di ripensare ai cinque anni passati al “Galvani” fra le fine degli anni Sessanta e il 1971, anno della mia maturità. Sono stata una delle tante alunne, senza infamia e senza lode, sempre promossa, discretamente, nella sezione allora più d’élite del Liceo, la sezione C.

Ricordo questo: nel settembre dopo la maturità andai alla Libreria Nanni e lì vendetti il Vocabolario di greco “Rocci”. Conservai, chissà perché, i due volumi del “Campanini Carboni”.

Non che la mia scelta universitaria fosse troppo dissonante: avevo scelto di iscrivermi al corso di laurea di filosofia e alla fine ho avuto la fortuna di laurearmi, con orgoglio, con il prof. Enzo Collotti, quando la nostra università, fra le prime in Italia, istituì corsi di laurea in storia e nel mio caso di storia contemporanea.

Perché andai a vendere il “Rocci”? Chissà perché? Non avevo avuto problemi con il greco. Qualche soldo in tasca? La fine di un pezzo di studi e di vita? La convinzione che non mi sarebbe più servito? Non lo so.

So solo che lì, nella sezione C del Galvani, ho avuto la sensazione, prima della consapevolezza, delle stratificazioni sociali, della ricchezza, spesso esibita, delle appartenenze ideologiche che si manifestavano nei gesti più semplici, nei comportamenti, nelle appartenenze amicali, nei vestiti, forse anche nelle merende di metà mattina.

Non era quello un ambiente che facilitasse le pari opportunità o l’attenzione al principio di uguaglianza e al principio costituzionale della rimozione degli ostacoli. Se ci penso ora vedo una scuola prevalentemente, se non esclusivamente, orientata alla trasmissione di contenuti, temi, tradizioni, lontana da tutto quello che fuori di lì, nel mondo, succedeva.

Non avevo questa precisa consapevolezza, ma in modo emotivo e istintivo lo capivo. I compagni maschi erano certo più “potenti” e capaci di affermarsi e forse a loro andavano le migliori attenzioni e sollecitazioni degli insegnanti.

Fra questi c’erano persone tanto diverse fra loro. Forse, ripensandoci ora, questa loro diversità è stata per noi un bene perché ci offrivano la possibilità di vedere e capire la molteplicità e la legittimità delle differenze.

Nel settembre fra la seconda e la terza mori all’improvviso Gaetano Arcangeli.

Non ricordo di aver particolarmente sofferto per questo. Come gli altri insegnanti non era una persona che manifestasse una qualche genuina sensibilità verso gli alunni. Forse – si diceva – era attratto dalla fascinazione per le più belle ragazze. Ma queste erano chiacchiere. Di lui ricordo, con grande chiarezza e piacere, il modo in cui conduceva le interrogazioni: non c’era una chiamata fra i nomi del registro di classe o il sorteggio di un numero a caso, a modo di tombola, per mantenere alta la suspence. C’era la ricerca di uno sguardo fra i tanti, spesso furbescamente abbassati, l’avvicinarsi sornione e gentile al prescelto per l’interrogazione, una specie di corteggiamento per la scelta. E poi ci si sedeva insieme, su due seggiole davanti alla cattedra, per avviare una specie di conversazione. A me toccò dialogare con lui su Machiavelli. Chissà mai perché faceva così? Certo era sempre una interrogazione, ma aveva in sé qualcosa di originale, di meno autoritario della chiamata alla cattedra. Appunto un dialogo, più che una richiesta di risposte.

E poi, naturalmente, c’è stata l’Olga Prati, per me da adulta semplicemente l’Olga, compagna nel coordinamento delle donne dell’Anpi. Questo passaggio – avvenuto nel tempo da austera professoressa di matematica e fisica ad amica affettuosa e mentore sensibile – mi rende davvero difficile un ricordo abbastanza oggettivo perché non solo l’ho stimata, ma le ho voluto bene. Non dimentico il suo primo ingresso in classe: non aprì il registro, non recitò i nomi dall’inizio alla fine nell’attesa di un rituale “presente”, ma chiese ad ognuno ed ognuna una breve presentazione personale. Cosa straordinaria – e anche difficile – rispetto alle normali procedure. Amava soprattutto la fisica e ne introdusse lo studio con un innovativo metodo sperimentale, supportato da grossi libri editi da Zanichelli. Per questo capitava di andare a riempire secchi d’acqua nei gabinetti per poi versarli dentro bacinelle appoggiate sui banchi affiancati l’uno all’altro. Non c’era un laboratorio e ci si arrangiava così. Io, a dire il vero, ho sempre capito poco. Poi si ammalò e non la vedemmo per molto molto tempo. Non arrivammo con lei alla maturità. Si sentiva una certa sua vicinanza alle lotte studentesche, ma non ricordo su questo sue parole esplicite, forse un atteggiamento empatico. Si sapeva che era una comunista. Chissà, forse viveva quel tempo con un intimo sentimento di piacere e soddisfazione, lei che proprio nell’ambiente universitario, a Firenze, aveva cominciato il suo impegno di ragazza antifascista.

Ho ritrovato fra le carte di casa una nota di mio padre Luciano scritta per giustificare una mia assenza dovuta alla partecipazione ad un corteo studentesco. Come giustificare formalmente questo tipo di assenze? Se ne parlava molto, sempre alla ricerca di soluzioni accettabili per la burocrazia scolastica ma, allo stesso tempo, non troppo biecamente mascherate dietro semplici “lievi indisposizioni” o “motivi familiari”.

Non ricordo quale fosse l’insegnante cui consegnai la giustificazione in cui mio padre faceva riferimento alla libertà di partecipazione di cui avevo goduto nel pieno rispetto della Costituzione. Ora, riflettendo, mi pare anche strano che questa nota non sia stata conservata fra le pagine del registro di classe insieme alle tante altre carte di giustificazione, permessi, certificati…. Forse non era adeguata? forse il linguaggio era sorprendente rispetto alle consuetudini? O non era considerata una giustificazione valida? Non so e non ricordo se ci furono conseguenze. Certo è che sono orgogliosa di quelle righe (la cui importanza credo di non avere capito allora, se non in modo generico) e felice di averle ancora con me e non disperse negli archivi del “Galvani”.

Per concludere vorrei aggiungere una piccola nota su quest’ultima maturità, vissuta a distanza per le precauzioni antiCovid. Spero di aver sentito bene, alla radio, quando in primavera furono comunicate le materie della maturità, per i diversi percorsi di studio. Non so se sia stata una iniziativa del giornalista di turno o una precisa indicazione della ministra Azzolina, ma quest’anno l’ordine di presentazione delle materie di maturità non è partito, come sempre, dal liceo classico, ma dagli istituti tecnici. Vorrei riuscire a controllare questa affermazione. Ma se corrisponde al vero, ne sono felice.

Fossi nel momento della scelta, tornerei al liceo classico.

L’importante, per me, è farla diventare una scuola come le altre, tutte meritevoli di attenzioni, cure e risorse, e non destinarla, come spesso è stato e credo sia ancora, ad ambiente privilegiato per la formazione dei potenti.

Un ricordo di Mariarosa (Doda) Pancaldi

Quest’anno festeggio il cinquantesimo del mio ultimo anno di liceo. E’ fin troppo ovvio che non dovrei affatto festeggiare alcunché…ma lo faccio volentieri con un flash back quasi istantaneo.

“L’anno scorso è stato folgorante. All’ombra della solita ridda di insegnanti titolari e subentro di decine di supplenti per lo meno folkloristici, si è consumata la piccola rivoluzione sessantottina. Piccola se vista da fuori, molto profonda in me e fra molti dei miei compagni. Ormai il compagno vero e unico delle nostre giornate, il corridoio enorme del primo piano, larghissimo e freddo, il luogo proibito delle nostre assemblee rubate, è diventato oggetto del desiderio e simbolo della riserva indiana della contestazione al Galvani. Le assemblee ce le hanno spesso proibite per via della “instabilità strutturale” del luogo. Dopo una lunga mediazione della nostra insegnante di Scienze che ci chiede da tre anni di chiamarla zia, ci hanno consentito di riunirci ma solo se stiamo attaccati ai muri laterali e quindi in una unica fila che si snoda sulle due pareti lunghe del rettangolo. La scena è surreale e smonta decisamente gli entusiasmi. Ma il surreale si estende all’ora di uscita che già da tempo contempla che si esca una classe alla volta per non appesantire le scale dello storico liceo. L’ultimo colpo inferto a noi piccoli ribelli delle sezioni E ed F ma anche G e qualche D: siamo stati l’anno scorso spesso chiusi a chiave nel nostro piano onde non fosse consentito ai ragazzi dei piani superiori di comunicare con noi (molto pochi l‘avrebbero fatto) e, soprattutto, impedire a noi di portare ai piani superiori e quindi alle sezioni alte le nostre idee traviate. A parte le facezie mi porto dentro come folgorata Lettera a una Professoressa ed il sogno di una scuola aperta tutto il giorno, anche al pomeriggio.

I ragazzi delle altre scuole superiori ci ritengono pochi e inutili con indubbie ragioni numeriche e forse di qualità, a parte pochissimi nostri leader ammessi come portavoce alle assemblee del Righi, e noi gregari ormai ci consoliamo andando al pomeriggio dalle 17 davanti all’ITIS di via Saragozza dove si consumano confronti stanziali con la polizia che presidia l’istituto perennemente occupato.

Io mi sento esausta dalla lunghezza dei cinque anni di liceo e faccio fatica a fare già dal mattino presto i 10 gradini che portano al portone di ingresso sotto il portico. Serpeggia già fra noi la paura della nemesi del quinto anno: la maturità agognata e terrorizzante perché sarà pur più facile rispetto a due anni fa, ma diciamolo, la nostra preparazione è decisamente carente e non tanto per il tempo perso a contestare e sfilare in corteo non proprio quotidianamente, quanto per il fatto che ad oggi ho contato venti professori nelle principali materie in questi due anni e un po’. Si vedrà, ma non ho buoni auspici. Rimango abbastanza tranquilla perché in fondo sono una brava scolara….

Lo scorso anno si è consumato comunque un fatto epocale, almeno nella mia testa e, al suo culmine, ho visto anche la chiamata dei nostri padri (sì, solo e obbligatoriamente padri) a scuola in assemblea per valutare come reprimere i nostri bollenti spiriti. Mio padre, che non aveva mai messo piede in una mia scuola, si è lasciato convincere solo dalla presenza del senatore Luigi Orlandi, antifascista storico e padre di un mio compagno di sezione, che mio padre ha visto picchiare e perseguitare ripetutamente nel ventennio essendo suo vicino di casa. E’ tornato confortato dalle sue parole di fiducia in noi giovani, ma mentre parlava decine di altri padri lo subissavano di improperi e mi ha raccontato le sue tristi impressioni davanti alle intemperanze di altri genitori che non aveva mai rilevato nemmeno in parlamento.

Ecco, questo è il mio ricordo attualizzato insieme a molti visi che non ho più visto e ad amici mai più lasciati. Di quell’ultimo anno ricordo in particolare un unico professore che ci seguì imperterrito fino alla maturità con una paterna e autorevole vicinanza: Silvio Paolucci di greco e latino.

Giorgio Graffi: IL MIO ’68 AL GALVANI

Verena Gasperotti ha ricostruito molto bene gli avvenimenti del Sessantotto al Galvani nella prima parte del suo saggio, a cui rimando per un inquadramento preciso, e, a corredo della seconda, ha chiesto a chi li ha vissuti una testimonianza di quei mesi. Aderisco molto volentieri al suo invito, presentando qui qualche ricordo personale, che, ovviamente, non ha alcuna pretesa di esattezza né tantomeno di oggettività. Una cosa è però indiscutibile: il ’68 ha rappresentato un discrimine nella nostra storia recente, un autentico cambiamento epocale, che è illustrato benissimo dal confronto tra le due fotografie della stessa classe riprodotte nel saggio della Gasperotti, una risalente al ’67-’68 e l’altra al ’68-’69. Nella seconda, le ragazze non indossano più il grembiule, come disciplinatamente e severamente facevano nella prima, ma addirittura minigonna o pantaloni (anch’essi vietati in precedenza; ricordo ancora questo comunicato del preside Campanelli risalente al ’66 o al ’67: “mi hanno chiesto se è lecito che le studentesse vengano a scuola in pantaloni; no, non è lecito”). Questa rivoluzione del costume sembrava accompagnarsi ad una rivoluzione politica: nella fotografia del ’68-’69, oltre a qualche minigonna, appaiono molti pugni chiusi alzati, ma, mentre le minigonne sono di moda anche oggi, i pugni chiusi ormai appartengono decisamente al passato, che ci piaccia o no; però la loro presenza nella foto dell’anno precedente sarebbe stata altrettanto incredibile quanto quella di ragazze in minigonna, anzi forse ancora di più.

            Si sarà notato che i cambiamenti epocali di cui parlavo sono documentati da una foto che non risale al ’68, bensì al ’69: anzi, la prima delle due foto rappresenta ancora la situazione ancien régime. Questo è dovuto al fatto che la vera burrasca sessantottina arrivò al Galvani non nell’inverno-primavera, ma nell’autunno del 1968. Quindi, avendo io fatto l’esame di maturità nel luglio di quell’anno, non potei partecipare a quei mesi decisamente più significativi, ma solo assistervi dall’esterno, e anche in maniera un po’ distratta e marginale, perché nell’ottobre ero impegnato a preparare il concorso per la Normale di Pisa, dove poi mi trasferii ai primi di Novembre. Inoltre, partecipai in modo piuttosto distaccato anche alle giornate più calde del Marzo ’68, quando, tra l’altro, il preside Marcelli inviò una lettera “cortesemente perentoria” (come scrive la Gasperotti) ai genitori degli studenti, per invitarli a dissuadere i loro rampolli da azioni quali occupazioni, ecc. Questo distacco era in parte dovuto a una crisi tipicamente adolescenziale che attraversavo proprio in quel periodo, in parte a un non completo accordo con le caratteristiche che stava allora assumendo l’azione dei miei compagni più impegnati nella protesta: mentre la prima delle due cause non interessa ovviamente a nessuno, la seconda invece può avere un qualche valore di testimonianza, e quindi vi accennerò. In ogni caso, più che al ’68, i miei ricordi andranno di più ai “fermenti del ‘67”, come li chiama la Gasperotti, che per me si concretizzarono soprattutto nella mia attività, prima come redattore e poi come direttore, del giornale studentesco La rana, nell’anno scolastico ’66-‘67.

            Siamo ritornati indietro di un altro anno: fino al 1966. Quest’anno è però molto importante nella storia dei giornali studenteschi italiani, perché fu quello in cui esplose il caso del giornale del Liceo Parini di Milano, La zanzara. La storia può sembrare così paradossale a chi oggi non è almeno vicino ai settant’anni che forse vale la pena di ricordarla brevemente. La zanzara aveva pubblicato, nella primavera del ’66, un’inchiesta intitolata “Un dibattito sulla posizione della donna nella nostra società, cercando di esaminare i problemi del matrimonio, del lavoro femminile e del sesso”, che conteneva interviste a varie studentesse del liceo, alcune delle quali avevano osato dire che avrebbero praticato un’attività sessuale più intensa, se in Italia ci fosse stato un accesso più facile agli anticoncezionali. Per questo motivo, e a seguito della protesta di alcuni studenti appartenenti al gruppo “Gioventù studentesca” (antenato di “Comunione e liberazione”), la procura aveva mandato sotto processo i tre autori dell’inchiesta (Marco De Poli, Claudia Beltramo Ceppi e Marco Sassano), insieme allo stampatore del giornale e al preside del Parini, Daniele Mattalia, come di fatto responsabile del giornale stesso (all’epoca la maggiore età scattava a 21 anni, e quindi il direttore del giornale scolastico ben difficilmente poteva esserne nominato responsabile; i giornali di quel tipo uscivano come “pubblicazione non periodica a circolazione interna”, o questa almeno era la dicitura riportata sulla Rana). Il tribunale penale (presieduto da Luigi Bianchi d’Espinosa) assolse tutti, ma il sasso era stato gettato: i giornali studenteschi, oltre che essere sede di facili satire nei confronti di professori e compagni, oppure di tentativi letterari più o meno maldestri da parte di scrittori in erba, potevano cominciare a trattare di problemi che interessavano i giovani, da vicino o da lontano. L’argomento del sesso apparteneva certamente alle tematiche del primo tipo, ma, a quanto mi ricordi, ben pochi altri giornali scolastici osarono occuparsene, nel timore di passare guai simili a quelli degli studenti del Parini e del loro preside; ma anche altri problemi diventavano, sia pur lentamente e non per tutti, oggetto di discussione e di riflessione: ad esempio, la guerra nel Vietnam, che nel ’67 diventava sempre più cruenta, o la denuncia dei mali della scuola italiana contenuta in Lettera a una professoressa, uscito nel giugno di quello stesso anno. Non a caso, quindi, La rana pubblicò, nei numeri di quell’anno, un articolo sulla guerra vietnamita, uno sulle prospettive di una guerra nucleare (entrambi opera di Mauro Mariani) e uno su Lettera a una professoressa (autore il sottoscritto). Inoltre, molti di noi cominciavano ad avvertire sempre più lo stato di decrepitezza della scuola italiana, in particolare del liceo classico, e anche di questo si discuteva nel nostro giornale, sia pure in forme debitamente caute, per non incorrere nelle censure a cui eravamo sottoposti (come ho detto sopra, di fatto il preside era responsabile dei contenuti del giornale, i cui articoli quindi erano sottoposti al controllo preventivo di un docente a tale compito destinato). Dato però che questo genere di argomenti non interessavano la maggioranza dei nostri compagni, e neppure la totalità dei redattori, alternavamo agli articoli “impegnati” qualche pezzo vagamente umoristico e anche alcuni articoli di sport (ricordo un’intervista di Riccardo Vattuone al calciatore del Bologna Giacomo Bulgarelli). Di fatto, i portabandiera della linea “seria” eravamo io e Marco Biagi (un amico carissimo il cui barbaro assassinio mi riempie ancora di dolore e sgomento): un mio compagno di classe una volta mi disse che, quando prendeva in mano La rana, sistematicamente saltava tutti i pezzi che portavano la firma dell’uno o dell’altro. Ciononostante, oltre che a cercare di pubblicare sul giornale il maggior numero possibile di articoli dedicati ad argomenti “seri”, organizzavo anche dibattiti tra studenti e docenti, due per parte come relatori e poi discussione generale, su temi riguardanti l’organizzazione scolastica, i contenuti degli insegnamenti, ecc., anche in questo caso suscitando a volte reazioni un po’ perplesse, anche da parte di persone certamente non mal disposte. Una di queste era Giuseppe Gabelli, professore di storia e filosofia nella sezione A, e per lungo tempo militante del PCI (era stato tra l’altro assessore comunale all’istruzione, in una delle giunte del sindaco Dozza). Partecipando, dietro mia insistenza, come relatore ad uno di tali dibattiti, ci (mi) trovò particolarmente tristi, soprattutto data la nostra età, e citò (lui ateo e materialista) una frase di G.B. Vico: Aestuate Deo, quo pleni estis! Per quanto riguardava la mia seriosità, aveva certamente ragione: ma non si accorgeva (come molti suoi compagni di partito, del resto) che sotto la cenere covava ben altro fuoco.

            In ogni caso, non mi perdevo d’animo, tanto che continuai ad organizzare dibattiti anche nell’anno scolastico successivo, il fatidico ’67-’68, quando non ero più direttore della Rana (incarico assunto da Marco Biagi), ma fui eletto presidente dell’organismo rappresentativo (OR) degli studenti. Il primo di questi dibattiti si svolse tra me e il nuovo preside, Umberto Marcelli, che sostanzialmente oppose alle mie non rivoluzionarie richieste un cortese, ma fermo, non possumus, “in nome delle leggi vigenti”. Nel frattempo molto cambiava nel mondo di fuori: con l’occupazione di Palazzo Campana a Torino, nel novembre 1967, di fatto il Sessantotto era già cominciato. Di lì a poco, come sappiamo, la protesta studentesca dilagò in quasi tutte le università d’Italia, Bologna compresa, e inevitabilmente finì col toccare anche le scuole medie superiori. È in questo contesto che fu stilato il volantino riprodotto da Verena Gasperotti alle pagine 26-27 del suo saggio, che, come scrive l’autrice, “colpisce immediatamente” per “il carattere pragmatico e circoscritto delle rivendicazioni”. Le ipotesi dell’autrice per spiegare questo particolare carattere corrispondono perfettamente alla realtà dei fatti, come posso affermare con cognizione di causa, dato che di buona parte del volantino fui autore io stesso: da un lato, l’autocensura per non incorrere nella censura da parte del preside; dall’altro il tentativo di coinvolgere maggiormente i compagni di istituto partendo da una serie di richieste concrete, vertenti su temi specifici. Inoltre, mi sentivo (come del resto mi sono sempre sentito in vita mia) un gradualista, un riformista, che non condivideva le posizioni estreme che allora stavano diventando dominanti, e lo rimasero per un pezzo. (Si potrebbe aggiungere che, in Italia e forse in tutta Europa, molti degli incendiari di quei tempi sono poi diventati pompieri, come si suol dire; ma questo discorso ci porterebbe troppo lontano). Pochi giorni più tardi (non ricordo esattamente quando), in occasione di un altro dei miei amati dibattiti, si verificò un’altra situazione che sempre più mi fece sentire lontano dall’orientamento che stava prevalendo. Quel dibattito vedeva, come al solito, la presenza di due docenti e due studenti: due di loro (appartenenti a ciascuna categoria) non mi ricordo più chi fossero, purtroppo; gli altri due erano un mio compagno di classe, Gabrio Geraci (anche lui tragicamente scomparso una ventina d’anni dopo), e un professore di religione, padre Enzo Franchini, la cui figura è stata così bene ricordata dalla Gasperotti. Mi permetto di aggiungere un breve inciso, per ringraziare padre Franchini (che con grande gioia apprendo essere ancora vivo e vegeto) per quello che mi ha insegnato, non di religione, o di filosofia (non era, del resto, insegnante nella mia sezione), ma di cinema: ne era infatti un grande esperto, e ricordo ancora la competenza e la passione con cui dirigeva i cineforum del Galvani; se ho imparato qualcosa di critica cinematografica, lo devo a lui. Tornando al dibattito di cui parlavo, non ricordo neppure quale fosse esattamente il suo tema (ma avrà riguardato inevitabilmente i contenuti degli insegnamenti e i rapporti professori-alunni), ma ricordo bene che il pubblico era insolitamente folto: vi partecipavano infatti vari studenti universitari, alcuni dei quali conoscevo, che spostarono la discussione proprio su quello che stava accadendo in quei giorni (uno di loro concluse il suo intervento esclamando “Potere agli studenti! Questa è la parola d’ordine da portare avanti!”). A torto o a ragione, non accettai che si uscisse dal tema previsto, e svolsi il mio ruolo di moderatore con una notevole durezza, tanto che alla fine fui accusato di autoritarismo da parecchi degli intervenuti, che lasciarono la sala. Da quel giorno, mi sentii sempre più estraneo alla piega che stavano prendendo gli avvenimenti, e quindi rimasi sostanzialmente estraneo alle giornate più “calde” del Marzo ’68, anche se, vorrei precisare, non mi sono mai sentito “dall’altra parte”.

Un ricordo di Gianpiero Ghini

Cercherò di superare la forte tentazione della nostalgia (e, soprattutto, dell’egocentrismo). Mi si chiedono ricordi, riflessioni, un bilancio.

Allora non lo avevo ancor deciso, ma sarei diventato un insegnante. Quindi sono rimasto nel mondo della scuola. Come erano, come sono diventati e come li ho reinterpretati i modelli della scuola?

La rivolta degli studenti è nata e si è sviluppata contro il modello autoritario della scuola, non solo la selezione, ma la trasmissione del sapere. Due brevi ricordi legati alla certezza che noi studenti avevamo allora che i nostri docenti avessero una loro “cultura” diversa dalla nostra: 1) in pieno movimento il mio prof. di italiano (Polloni) diede un tema (non ricordo il titolo) che svolsi incentrandolo sulla società autoritaria e (dato che avevo appena letto Marcuse) apprezzò molto (tanto da leggerlo in classe) e mi diede 9 e mezzo, dicendo che non poteva dare 10, perché non lo aveva preso mai neanche lui; 2) qualche anno dopo sostenni l’esame di Filosofia Morale concordando i testi e, tra gli altri portai Lukacs, Storia e coscienza di classe; l’anziano prof. Battaglia mi sorprese dimostrandomi che conosceva molto bene i risvolti di quel testo e apprezzando molto le mie “elucubrazioni”.

Pochi anni dopo cominciai a insegnare (Lettere e non Filosofia) e ho cominciato molto presto a dare qualche 10 (non tanti ovviamente) e non ho mai “sorpreso” i miei studenti, anzi ho sempre cercato di prevenirli indicando io i testi più “trendy”.

Un ricordo tira l’altro: solo tre anni prima, in quinta ginnasio, una pessima prof. mi aveva ridicolizzato davanti a tutta la classe come lettore di libri “porno” perché avevo fatto un tema su “Cioccolata a colazione”.

Ed ora una riflessione. La didattica dell’italiano e, in particolare, la scrittura e la lettura. Nella correzione degli scritti, anche i prof. migliori facevano un segno blu sotto gli errori, un segno rosso e blu sotto o a fianco delle imperfezioni e rosso per le cose che non gli piacevano e qualche misteriosa bisciolina: mai una indicazione più precisa! Come si imparava a scrivere? O leggendo (indicazione più diffusa) o andando a lezione privata. Per la lettura il discorso era diverso: alcuni brani di poesia venivano letti e spiegati (la parafrasi era assai diffusa, come compito assegnato, alle medie), ma per la prosa nulla o solo una introduzione di inquadramento storico e stilistico). Come si imparava a leggere un testo? Boh? E soprattutto non si leggeva mai un testo in classe. Tutto ciò è molto cambiato nel corso dei decenni successivi. Ho imparato insegnando che è molto più efficace fare riscrivere le parti o l’intero svolgimento di un tema, dando indicazioni e suggerimenti; ho imparato insegnando che la lettura di un testo attrae e sollecita la lettura.

Bilancio. Tutto il cambiamento che ho descritto finora è un prodotto del ’68. Certo i comportamenti, lo stile di vita ne sono usciti molto modificati. C’erano docenti bravi e carismatici e professori molto mediocri e oggi è ancora così. Ma l’autoritarismo, secondo me, non è cambiato più di tanto: l’esercizio della potestas ha certo più alti e bassi, ma l’auctoritas è sempre quella e si ha o non si ha, nella scuola e nella vita. E l’affermarsi di leader politici e di partiti personali di più o meno lunga durata ne sono la prova.

Comunque nostalgia pochina (egocentrismo un po’ di più).

E’ stato bello e divertente, ma poi è passato, come tutto passa.

Giuliano Berti Arnoaldi Veli (dalla premessa, datata dicembre 1989, al fascicolo dei volantini del Galvani del suo archivio personale)

E’ ormai un luogo comune – nell’odierna epoca yuppie – quello di considerare il ’68 come un evento inutilmente confusionario, e i sessantottini come persone che – finita l’università, esaurita l’ultima manifestazione – sono finite malamente. Ha scritto l’inossidabile Montanelli, sul suo “Giornale”, rispondendo ad un lettore che lo interpellava sul ’68: “Mi chiedi cosa il ’68 ha prodotto. Te lo dico subito: una marea di somari che, strappato il titolo di studio con la promozione obbligatoria e l’intimidazione – con le spranghe – dei professori, intasa oggi tutti i gangli della vita civile e amministrativa … Teste rotte, vetrine infrante e zucche vuote. Questo è, secondo me, il bilancio del ’68.” Questa rozza semplificazione non spiega tuttavia perché nel Movimento studentesco si riconoscessero tante persone studiosissime, licenziate e laureate con lode, che studiavano più della media (nino que no estudia…), pur parlando troppo di rivoluzione: che non sapevano fare, che non volevano fare, che non sapevano di non voler fare (lo capimmo più tardi, vedendo i risultati dei primi gesti rivoluzionari: “ma no, non era questo che intendevamo”). E’ vero che la rilettura dei volantini che sono qui di seguito riprodotti sembra dar ragione a Montanelli, tanta è la verbosità spesso vacua e grondante di luoghi comuni. Di più: tra gli ultimi occhieggiano già documenti politici provenienti dall’area padovana che, con gli occhi del poi, ci appaiono in una luce un po’ inquietante. E tuttavia c’era – sotto la verbosità, il linguaggio stereotipato, la confusione – c’era qualcosa che i vari Montanelli di allora e di adesso, ed i loro amici ricchissimi e famosissimi, non sono riusciti a capire. Prendiamoci almeno questa rivincita: continuiamo a non dirgli cos’era.

Riferimenti bibliografici essenziali

Adagio, Billi, Rapini, Urso (a cura di), Tra immaginazione e programmazione. Bologna di fronte al ’68, Punto Rosso, 1998.

Marco Boato, Il lungo ’68 in Italia e nel mondo, Editrice Morcelliana, 2018;

Franco Ferrarotti, Il ‘68 quarant’anni dopo, EDUP, 2008

Marcello Flores, Alberto De Bernardi, Il Sessantotto, Il Mulino, 2003

Glenda Furini e Guido gambetta (a cura di), 1968. L’anno degli studenti, catalogo della omonima mostra realizzata nel 2018 da Università di Bologna e Fondazione Gramsci Emilia Romagna

Erik Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, 1999

Robert Lumley, Dal ’68 agli anni di piombo, Giunti Editore, 1998

Peppino Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori riuniti, 1988


[1] L’affaire Franchini è ricostruito nella prima parte dell’articolo, pubblicata nei Quaderni del Galvani del dicembre 2019.

[2]Marco Bazzocchi in 1968. L’anno degli studenti, catalogo della omonima mostra realizzata nel 2018 da Università di Bologna e Fondazione Gramsci Emilia Romagna, p.8.

[3] L’ex studente Gianpaolo Ghini racconta che, nei giorni delle proteste e delle lezioni autogestite del novembre 1968, un’aula era stata battezzata “piazza Gramsci” e i banchi sistemati a ferro di cavallo, per favorire l’interazione tra gli studenti. Altri ricordano l’uso di piante, di palloncini e forme di espressione artistiche (come le impronte delle suole delle scarpe che si inerpicavano sulle pareti, a indicare il desiderio di fuga e l’insofferenza per gli spazi chiusi delle aule).

[4] Non dimentichiamo, oltre al caso dell’ostracismo nei confronti di padre Franchini, il caso della docente che aveva assistito alle riunioni degli studenti ed era stata per questo redarguita dal preside Umberto Marcelli, trovandosi costretta a giustificarsi per iscritto. Il preside è tuttavia infastidito anche da episodi ben più insignificanti di scarsa collaborazione ravvisabili, ad esempio, in ricorrenti lamentele espresse da alcuni professori che mettono in evidenza come le richieste degli studenti comportino per il corpo insegnante un “aggravio di lavoro non previsto dalle norme vigenti”, e quindi non obbligatorio (ad esempio, nel Consiglio plenario del 15 marzo 1968); il preside lamenta anche le assenze dei professori nei giorni dei disordini dell’autunno 1968 e si trova, nell’aprile 1969, a richiamare i docenti al rispetto delle decisioni prese dal Consiglio plenario del mese prima in relazione alla circolare “Sullo”, che prevedeva l’obbligo della presenza dei docenti alle riunioni di corso.

[5]Registro dei verbali del Collegio dei professori (dal 1967 al 1982), archivio storico del Liceo Galvani, p. 43. Ricordiamo, a proposito dell’intervento riferito all’orientamento del Comune, che in effetti la Giunta comunista si mostrava incline al dialogo con gli studenti, come polemicamente e ripetutamente sottolineato dal Resto del Carlino.

[6] Registro dei verbali del Collegio dei professori (dal 1967/68 al 1981/82), archivio storico del Liceo Galvani, pp. 45-47.

[7]Registro dei verbali del Collegio dei Professori (dal 1967/68 al 1981/82), archivio storico del Liceo Galvani p. 48.

[8] Registro delle Comunicazioni ai professori (dal 1967 al 1972), archivio storico del liceo Galvani, p. 38.

[9] Il ricordo di Doda Pancaldi è riportato per intero in calce all’articolo.

[10] Registro dei verbali del Collegio dei Professori (dal 1967/68 al 1981/82), archivio storico del liceo Galvani, p. 50-52.

[11] Riporto quanto scritto in nota nella prima parte dell’articolo a proposito della figura di Olga Prati, ben tratteggiata anche da Mauria Bergonzini nel suo ricordo posto in calce. La prof.ssa Olga Prati (1923-2018), storica insegnante di matematica e fisica del liceo, fece parte della Resistenza contribuendo alla liberazione della città di Ravenna. Successivamente fu tra le fondatrici dell’UDI e coordinatrice delle donne dell’ANPI. Ha pubblicato: Le donne ravennati nell’antifascismo e nella Resistenza, nel volume omonimo, Editore II Girasole, 1978; assieme a Silvio Paolucci ha pubblicato inoltre “Il liceo classico “Galvani” di Bologna durante il fascismo”, in Istituto regionale per la storia della resistenza e della guerra di liberazione in Emilia-Romagna, “Annale 3”, 1983; “Scuola e educazione in Emilia Romagna fra le due guerre”, a cura di Aldo Berselli e Vittorio Telmon, Bologna, Editrice CLUEB, 1983. Rispetto alle rivendicazioni degli studenti, la docente mantenne un atteggiamento di distaccata attenzione, dovuta probabilmente anche alla sua adesione al Partito comunista, che a sua volta aveva un atteggiamento ambivalente nei confronti della protesta.

[12] Corrispondenza riservata a.s. 1967/68, archivio storico Liceo Galvani.

[13] Seduta del 9 novembre 1968; alla fine di questa stessa seduta il preside “ricorda di tener presenti le finalità della scuola di stato che sono di promuovere nell’alunno una formazione culturale e spirituale libera soprattutto da ogni forma di ideologia.” Registro dei verbali del Collegio dei Professori (dal 1967/68 al 1981/82), archivio storico del Liceo Galvani, p. 37.

[14]Corrispondenza riservata a.s. 1965/66, archivio storico del Liceo Galvani.

[15] Nel fascicolo della corrispondenza riservata, insieme alla missiva menzionata, è presente anche la lettera che invita a firmare l’appello, promosso tra gli altri dai docenti universitari Marcello Ceccarelli, Vincenzo De Sabbata, Agostino Desalvo, Gianfranco Missiroli, Paolo Prodi e Vittorio Prodi. I docenti del Galvani firmano il seguente testo, scritto a mano: “I sottoscritti, pensosi della dignità e del diritto alla vita di ogni essere umano, confortati altresì dalle recenti e ripetute iniziative di pace di S.S. paolo VI, aderiscono al Comitato Universitario Bolognese associandosi così alla vasta corrente dell’opinione pubblica mondiale che ravvisa nel rispetto e nella applicazione degli accordi di Ginevra lo strumento adeguato del ristabilimento di umane condizioni di esistenza per le tormentate e infelici popolazioni del Vietnam”.

[16] Corrispondenza riservata a.s. 1968/69, archivio storico del Liceo Galvani. Per quanto concerne il successore di Campanelli, l’ex studente Carlo D’Adamo si dichiara convinto che “il preside Marcelli era proprio fascista, nel senso tecnico, storico e documentato del termine; le sue pubblicazioni e le sue lezioni (ad esempio sul Risorgimento e sulla prima guerra mondiale, chiamata la quarta guerra d’indipendenza, sull’opera di pacificazione di Mussolini, sulla spedizione in Russia, sull’intervento italiano in Grecia, ecc. ecc.) lo allineano alla pubblicistica di Candido, del Borghese, del Nuovo Meridiano, ecc.”.

[17] Corrispondenza riservata a.s. 1968/69, archivio storico del Liceo Galvani.

[18] Giustificazione in possesso di Mauria Bergonzini e da lei gentilmente messa a disposizione. Altri ex studenti e studentesse ricordano la convocazione da parte del preside dei “padri” in occasione di un sit in di protesta, con l’intenzione di indurre i giovani a desistere. Se alcuni genitori stigmatizzarono severamente quanto stava avvenendo, altri assunsero un atteggiamento più bonario e comprensivo. Ad esempio, Silvia Evangelisti racconta che il padre si era precipitato al liceo dopo la telefonata del preside che lo avvertiva che la figlia era seduta per terra davanti alla presidenza, ma trovando l’atrio costellato di ragazzi seduti e resosi conto della situazione, si limitò a salutarla da lontano, facendole cenno che si sarebbero visti a casa. Una delle poche genitrici coinvolte, la madre di Patrizia Pulga (il padre, il pittore Bruno Pulga, era spesso all’estero), si presentò simpatizzando per la causa giovanile e il preside la congedò sbrigativamente dicendo “Con lei, signora, ho chiuso”.

[19] Ricordo riportato integralmente in calce all’articolo.

[20] Corrispondenza riservata, a.s. 1968/69, archivio storico Liceo Galvani.

19 Corrispondenza riservata a.s. 1968/69, archivio storico Liceo Galvani. Il 2 dicembre, in una nuova comunicazione al preside, il docente di lettere precisa che i disturbatori si sono scusati.

[22] Corrispondenza riservata a.s. 1969/70, archivio storico Liceo Galvani.

[23]Ci saranno ulteriori strascichi della vicenda. Ad esempio, il 15 marzo 1970 Dario Galli scrive al preside con riferimento all’ispezione di Cesare Brumati e riferisce che un alunno lo aveva provocato di fronte all’ispettore, affermando che il professore non spiegava nulla, e che l’ispettore non aveva reagito. In quell’occasione anche il giovane Berti Ceroni lo attacca; Mauria Bergonzini lo accusa inoltre di avere preparato gli alunni a rispondere a certe domande che ha ripetuto in presenza dell’ispettore. Il 14 settembre 1970 il provveditore chiede al preside informazioni sulla situazione dopo l’ispezione ministeriale dovuta al clima di grave tensione della classe. Pochi giorni dopo il preside rassicura chiarendo che la situazione è “normalizzata” senza apparente risentimento da parte del docente.

[24] E. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, 1999, p. 382.

[25] Lidia Ravera, videointervista: Il ’68: un ricordo personale e Gioventù a confronto, Videoconfronto/Il ’68 in L’Espresso web.

[26] Si veda MicroMega 1/08, p.34.

[27] Come ricorda Ugo Volli, i leader (inevitabilmente maschi, carismatici e generalmente con un retroterra cattolico o comunista) si circondano anche di uno “staff”, determinando, nella comunicazione, una certa omologazione alla parola del leader “grande legittimatore” (in 1968, L’anno degli studenti, p. 36).

[28] A questo proposito Giorgio Graffi osserva: “mio fratello me ne parlava già a proposito dei suoi anni al Galvani (1957-1962) e una volta sentii il preside Campanelli addirittura attribuirvi la collaborazione di Riccardo Bacchelli, quando quest’ultimo era allievo del Galvani” (corrispondenza privata).

[29] Si rimanda al ricordo di Giorgio Graffi riportato in calce. Anche gli stessi professori riconoscono che alcuni articoli di valore non vengono pubblicati per la censura, come avremo modo di constatare. Scorrendo i numeri disponibili risalenti al periodo tra il 1966 al 1968, prima dell’esplosione degli eventi autunnali, ricorre frequentemente l’allusione al rischio di irritare i docenti cui si espongono coloro che scrivono sul giornalino, suggerendo che comunque la censura non fosse sempre così rigida o sufficiente a evitare la disapprovazione dei più tradizionalisti. Alla luce dei verbali dei professori e di alcuni passi degli articoli, è lecito dedurre che alcuni docenti guardassero con simpatia all’esperienza, altri con maggiore sospetto, e che il preside Campanelli, promotore dell’iniziativa e descritto da molti ex studenti come bonario, pur nel suo tradizionalismo, tollerasse blandi azzardi negli articoli, purché nei binari di una dialettica democratica e tutto sommato inoffensiva.

[30] Giorgio Graffi sottolinea la matrice più cattolica che “democristiana” di molti redattori, osservando come, a sua memoria, nessuno al tempo fosse iscritto alla DC. E’ indubbio, come osservato nella prima parte dell’articolo, che molti esponenti del movimento abbiano maturato le loro convinzioni nel contesto di esperienze vissute nell’ambito dell’associazionismo cattolico. Un esempio significativo è il gruppo degli scout di San Domenico, di cui facevano parte alcuni studenti del Galvani particolarmente attivi. Sull’argomento ho avuto conversazioni illuminanti con Guido Armellini e Gianpaolo Rossini, sebbene non abbia avuto modo di sviluppare questo filone della ricerca nel presente articolo.

[31]Lo sottolinea Marco Boato in Il lungo 68. Anche gli ex studenti concordano nel ritenere che l’esperienza fiorentina abbia rappresentato un momento significativo del loro percorso di formazione.

[32]L’esperienza viene ricordata sui Quaderni del Galvani nr 5 del 1967 (“La risposta dei giovani al richiamo di Firenze”, di Yertha Patron e Daniele Vitali).

[33]La Rana, aprile 1967, p. 9.

[34] E. Hobsbawm, tra gli altri, coglie tra le peculiarità della cultura giovanile del periodo il suo “stupefacente internazionalismo”, che riconduce in particolare al veicolo dei consumi, citando come esempi paradigmatici i blue jeans e la musica rock. Si veda Il secolo breve, p. 384.

[35]La Rana, dicembre 1966, p. 5.

[36] La Rana, dicembre 1966, p.4, sottolineature mie. La denuncia del clima culturale stantio ed elitario si accompagna a uno sguardo che travalica i confini, come osserva in “La cultura in Italia” Stefano Mazzacurati, il quale invoca la necessità di una propaganda culturale di ampio respiro, denuncia i costi dell’industria culturale quintuplicati rispetto a Inghilterra e Francia (per esempio per libri e dischi) e l’ignoranza dilagante di un popolo che non legge “Sartre o Brecht” (La Rana, febbraio-marzo 1968).

[37] Lo statuto è pubblicato nel secondo numero dei Quaderni dell’ottobre del 1964, a firma di Angelo Campanelli, a conferma del controllo esercitato sull’organizzazione studentesca. Nella premessa si precisa che lo scopo dell’OR è favorire la partecipazione degli studenti alla vita della scuola in modo da renderla “simpatica, cordiale, in un’interessante collaborazione fra studenti e fra studenti e insegnanti”. Gli articoli che definiscono la natura dell’OR sono chiaramente ispirati ai primi articoli della Costituzione: si tratta di “un organismo democratico, fondato sull’impegno personale e attivo di ogni studente. La sovranità appartiene a tutti gli studenti che la esercitano nelle forme e nei limiti dello Statuto.” (art.1); tuttavia “L’OR non ha personalità giuridica. La sua autorità non è pertanto primaria ma derivata” in quanto riceve dal Capo dell’Istituto le “competenze di carattere organizzativo nell’ambito della vita dell’Istituto” (art.4). Si sottolinea l’indipendenza da gruppi o associazioni politiche e religiose nell’art. 3. La struttura giuridica si articola in: Consiglio (formato da tutti i rappresentanti eletti in numero di due per ciascuna classe del liceo e uno per le classi del ginnasio, con potere legislativo), che si riunisce una volta al mese; Giunta (composta dai capigruppo eletti dal consiglio tra i suoi membri su proposta del presidente, da un tesoriere eletto dal consiglio su proposta del presidente e dal presidente stesso) e Presidenza, e si riunisce ogni 15 giorni; il presidente eletto dal consiglio tra i suoi membri  è primus inter pares, presiede la giunta e il consiglio, si candida con il suo vice. Il titolo III stabilisce che un professore è garante degli atti dell’OR.

[38] E’ quanto si desume leggendo La Rana febbraio-marzo 1968.

[39]I Quaderni di cultura del Liceo-ginnasio Galvani, nr. 2, ottobre 1964, p. 382, la sottolineatura è mia, ma non lo è il virgolettato, che denota come il preside fosse consapevole del fatto che il giornalino non era, e non potesse essere considerato, uno spazio autonomo degli studenti.

[40] La Rana marzo 1967, p. 1.  Il direttore dimissionario era Amedeo Palmieri. Ricorda Graffi: “Le sue dimissioni furono causate, oltre che dalle difficoltà di vendite di cui parla Biagi, dal continuo conflitto con il sottoscritto sulla linea da dare al giornale: entrambi lo volevamo “impegnato”, ma lui sul versante letterario, io su quello, diciamo così, politico”.

[41]La Rana marzo 1967, p. 1.

[42] E’ piuttosto interessante che comportamenti oggi riconducibili a stereotipi di genere risultassero al tempo forme di ribellione nei confronti del modello femminile tradizionale e delle severe regole scolastiche, volte a svilire qualsiasi forma di civetteria e a stigmatizzare trucchi e abiti più “femminili” e seducenti, ispirati ai dettami della moda estera che si stavano rapidamente affermando – si pensi al vero e proprio tsunami della minigonna che i presidi e i professori del tempo tentavano senza successo di arginare, comminando sanzioni che risultavano inefficaci.

La mortificazione della femminilità delle ragazze, ricordata dalle stesse ex alunne nella prima parte dell’articolo, viene registrata ne La  Rana del maggio 1967, p. 5, da Riccardo Vattuone, in un articolo che vorrebbe essere umoristico e che oggi definiremmo probabilmente semplicemente sessista. Riferendosi al timore di punizioni per l’uso dei gabinetti come fumoirs il giovane si chiede: “Perché non ci date, per alleviare questi momenti di terrore, la visione di qualche compagna più carina, non le solite secchie (non “rapite” perché non le rapirebbe nessuno) che con la lingua penzoloni ci invidiano gli amici delle Aldini? Non impedite loro di truccarsi, fatele invece mimetizzare come esse sanno, allentateci (sic, n.d.a.) le sofferenze!”.

[43]La Rana, marzo 1967, p.2.

[44] In una lettera al giornale, Ferdinando Conti fa notare che non si possono accusare i “galvanini” di apatia solo per il fatto che non comprano La Rana o non esprimono le loro opinioni attraverso quel canale. Biagi risponde per le rime, insistendo sull’indifferenza riscontrata non solo in relazione agli stimoli del giornalino, ma anche in altri ambiti: per esempio il qualunquismo è “reso evidente dalla inconcludenza del nostro Organismo Rappresentativo che, come espressione della volontà comune, non ha (sic, n.d.a.) ancora approdato a risultati veramente concreti”. Il giovane trova poco consono il contegno di alcuni rappresentanti di classe e ne denuncia l’inettitudine, osservando come l’esperienza dell’OR sia utile per prepararsi a compiti di responsabilità nella società.

[45] Prendiamo per esempio l’articolo “I giovani e la politica” di Giorgio Graffi e Gabrio Geraci (marzo 1967): “E’ nostro parere che un giovane, per avere una formazione umana nel pieno senso della parola, non possa assolutamente prescindere dalla conoscenza della realtà sociale e politica in cui si trova a vivere; riteniamo infatti che una formazione in tal senso sia necessaria ai giovani per poter compiere con coscienza i loro futuri doveri di cittadino”. I due redattori raccontano di avere messo a punto un breve sondaggio tra gli studenti con l’intento di misurare l’interesse dei giovani per i problemi politici, ottenendo scarsa collaborazione soprattutto dagli studenti ginnasiali, accusati di poca serietà, e riscontrando in generale una scarsa consapevolezza. La maggioranza dei giovani dichiara di interessarsi a problemi politici, ma viene giudicata emblematica e rappresentativa la risposta di uno studente di prima liceo che afferma di occuparsene molto superficialmente, pur comprendendone l’importanza, perché più interessato ad altri problemi “più spiccioli ed immediati”. La domanda circa la consapevolezza dell’importanza di vivere in un regime democratico genera un equivoco di cui gli autori del sondaggio si sorprendono: la domanda era stata infatti travisata, a loro avviso, visto che alcuni studenti avevano messo in discussione il fatto di vivere davvero in un regime democratico, paradossalmente sulla base di considerazioni di segno opposto, in quanto alcuni avevano etichettato il sistema politico italiano come un regime totalitario di destra, altri di sinistra.[45] Interrogati circa il loro sentirsi in grado di esprimere un voto consapevole, i ginnasiali si mostrano paradossalmente più certi dei liceali, fenomeno spiegato, ragionevolmente, come un venir meno, con la crescita, delle false certezze giovanili. L’analisi dell’esito del questionario costituisce l’occasione per constatare l’importanza dell’introduzione dell’insegnamento dell’educazione civica, invocata in altri articoli di questi anni.

[46] L’immagine rimanda nuovamente, più che agli stereotipi di genere, alla realtà del tempo: si dà per scontato che i rappresentanti siano maschi e che le figure di potere cui si ispirano siano i padri. L’articolo prosegue poi osservando che il Resto del Carlino proponeva di introdurre la figura di un professore come controllore e consigliere degli OR, ma il giovane risponde che a tale scopo hanno deciso di eleggere cinque probiviri e osserva: “Ammesso di potere disporre di elementi comunicativi, fattivi e particolarmente adatti per la visione dei problemi attuali, la reazione degli studenti potrebbe essere naturalmente portata verso la diffidenza, e anche se l’esperimento riuscisse positivo, a tutti rimarrebbe un poco di amaro in bocca. Sarà incontentabilità, ma credo sia meglio continuare a tentare, così come facciamo, anche attraverso difficili e a volte avvilenti esperienze, pur di raggiungere la meta da soli.”

[47] La Rana anno VIII, febbraio-marzo 1968, direttore Marco Biagi. Il numero del 125esimo vede in prima pagina l’editoriale del preside Giorgio Magnani cui faccio riferimento.

[48]La Rana dicembre 1966, p.6.

[49] La serietà delle intenzioni di proporre concretamente un miglioramento della scuola si riscontra in altri articoli di questo e di successivi numeri: per esempio, Sandra Soster stila un resoconto dell’incontro nella sede del circolo d’arte e cultura organizzato dalla commissione cultura sull’annosa questione della dialettica tra cultura umanistica e scientifica e sull’eventuale anacronismo degli studi umanistici in una fase di sviluppo tecnologico, per poi osservare, forse per evitare la censura: “Come si sa, criticare è facile, in modo particolare per noi ragazzi d’oggi, forse come reazione a qualche cosa che ci è imposta come indiscutibilmente buona, da accettarsi senza batter ciglio: proporre però al posto di ciò che si è demolito nuovi progetti non è più cosa tanto facile”. In realtà le proposte non mancano: gli studenti del Liceo Righi avanzano l’ipotesi di una scuola media prolungata che fornisca buone basi classiche e scientifiche, introducendo nuove discipline assenti nei licei come pedagogia, sociologia economia, in modo da favorire scelte universitarie consapevoli, e distinguendo tra discipline obbligatorie e facoltative.

[50] La Rana, aprile 1967, pp. 6-7; in una scuola che contava un migliaio di studenti, la presenza all’incontro di un gruppo piuttosto esiguo fa comprendere quanto le tematiche affrontate non risultassero particolarmente coinvolgenti per la maggior parte dei giovani.

[51] Intervista a Stefano Cammelli, archivio personale. Nato a Firenze nel 1915 e morto nel 1982 a Bologna, Sergio Cammelli, docente di Lettere classiche, aderì in un primo tempo al partito della Democrazia cristiana, e fu poi un esponente del Partito cristiano-sociale. Cominciò a insegnare al liceo Galvani nel 1949, fu autore di testi scolastici e convinto sostenitore di più stretti rapporti tra la scuola e le famiglie degli allievi. Nel 1954 avviò la pubblicazione del periodico «Genitori. Incontri mensili tra famiglia e scuola», che affrontava temi come l’orientamento scolastico, la partecipazione delle famiglie alla scelta dei libri di testo, l’educazione sessuale e affettiva. Fu organizzatore di varie iniziative come i «viaggi di cultura» per studenti e genitori. Cammelli fu infatti attento anche alla dimensione internazionale, collegandosi a varie associazioni, come la Parents-Teachers Association statunitense, École des parents di Chambery e Fédération internationale des écoles des parents, nonché all’Unione internazionale organismi familiari. Nel 1963 aprì la sezione italiana dei Children’s International Summer Villages, espressione dell’UNESCO. La sua attività sul versante ecclesiale, in linea con il cardinale Lercaro, lo portò a inaugurare Bologna il Consultorio familiare, esperienza che confluì poi nell’Unione consultori italiani prematrimoniali e matrimoniali (UCIPEM) di cui il docente bolognese divenne presidente. Avviò inoltre un progetto di sviluppo nel Nord-est del Brasile, nella prospettiva di una lotta alla povertà e della promozione della dignità della persona.

[52] Nato a Bologna nel 1925, dove è morto nel 1917, Mario Pazzaglia ha insegnato per anni come docentedi Italiano e Latino, approdando anche al Liceo Galvani. Gli anni di insegnamento gli forniscono gli stimoli per la stesura della nota Antologia della letteratura italiana, edita da Zanichelli nel 1964. Docente alla Facoltà di Magistero e poi di Lettere dell’Università di Bologna, si è dedicato in particolare a studi danteschi e alla poetica di Pascoli, arrivando a fondare la “Rivista Pascoliana”, oltre a dirigere l’Accademia Pascoliana di San Mauro Pascoli.

[53] La prof.ssa Spina dal fondo della sala dissente, con atteggiamento definito “più conservatore”, invitando a non cadere nell’eccesso opposto e tessendo le lodi di Settembrini. A suo avviso il presente si costruisce sulle basi del passato e spesso gli autori moderni sono vuoti rispetto ai classici. Perplessa sul lavoro di gruppo, la docente denuncia “l’insincerità delle ultime manifestazioni, quando gli studenti erano stati ripetutamente ascoltati” e invita a fare manifestazioni pomeridiane per distinguere gli studenti svogliati. D’Adamo risponde osservando che ai giovani interessano autori che affrontino problemi vicini e che si può avere il senso della tradizione anche nel moderno.

[54]La Rana, maggio 1967, pp.8-9. Giuseppe Gabelli, nato nel 1903 a Bologna, professore di storia e filosofia al Galvani dal 1935, fu uno dei professori che con Sandra Basilea, Giovanni Elkan, mons. Emilio Faggioli, Maria Nasi, Evangelista Valli, seppe mantenere un atteggiamento di critica nei confronti del regime, collaborando poi alla resistenza con altri intellettuali bolognesi. Ha pubblicato: Italia. Pagine del Risorgimento e dell’unità, a cura di G. Gabelli e F. Cecchini, Bologna, Cappelli, 1960, pp.168; Italia nuova. Pagine di trent’anni di storia contemporanea 1918-1948, a cura di G. Gabelli e F. Cecchini, Bologna, Cappelli, 1962, pp.228. Ornella Fanti, stimata docente di storia dell’arte morta nel 2019, è stata una docente storica del liceo, tra le firme più attive dei Quaderni.

[55]La Prati parla delle difficoltà del corso pilota della C, dove le interrogazioni meno fiscali inducevano gli studenti a impegnarsi con minore diligenza.

[56] La Rana, maggio 1967, p. 9. L’ultimo numero conservato da Giuliano Berti Arnoaldi Veli, e probabilmente l’ultimo numero de La Rana,torna ancora ad affrontare il tema della scuola alla luce di una tavola rotonda tra studenti e professori su “Cultura militante e accademica”: questa volta i ragazzi sono più numerosi (un centinaio di ragazzi), sebbene Ennio Bassi, autore dell’articolo, sottolinei l’apatia di coloro che non sono intervenuti, pur lamentandosi della scuola. Il resoconto è piuttosto succinto e si limita a elencare le questioni affrontate senza sviluppare i termini del dibattito: tra questi spiccano la consapevolezza del passaggio da scuola di selezione a scuola di massa, le critiche alla trasmissione di un sapere nozionistico, la necessità di impostare “un rapporto nuovo con tutti il corpo insegnanti, non con una decina”.

[57] La Rana, febbraio-marzo 1968, p. 13.

[58]A p. 19 del numero di febbraio-marzo 1968, come premessa a un articolo di Geraci sul 1968 come anno della pace, si precisa che sono graditi “articoli di qualunque parte essi siano: è un invito a valerci di una libertà che non in tutte le scuole è riconosciuta agli studenti.”

[59] La Rana, marzo 1967, p. 3.

[60]La Rana, marzo 1967, p. 3.

[61] La Rana aprile 1967, p.5. Non manca una critica poco lungimirante anche a Lucio Dalla, intervistato nel numero precedente in quanto fugace studente del liceo Galvani anni prima, il quale aveva dichiarato di potersi esprimere meglio nel beat. Vattuone chiosa con sicurezza: “…ci vuole solo un cretinotto di quelli sopracitati per non capire che esprimere meglio se stessi significa: <<Se non riesco a guadagnare anch’io qualcosa in questo mondo di scemi capelluti vuol dire che non valgo neanche una cicca!>> Sta sicuro, Lucio, una cicca la vali!”.

[62] La Rana, maggio 1967, p.2. Nella risposta “affettuosa”, Vattuone riconosce di essere stato forse poco chiaro e sbrigativo, ma insiste nell’offendere i “quattro deficienti” che somigliano a bestie ed espongono in modo criticabile le loro posizioni.

[63] La Rana marzo 1967, p. 12.

[64] Nel numero di dicembre 1966, p. 8, Giorgio Graffi in “Studenti a Bologna” spiega che la giunta dell’OR ha un nuovo statuto che prevede contatti con altri istituti, in particolare per partecipare a riunioni e gruppi di studio con Minghetti, Righi e Fermi. Emerge che l’anno prima era stato istituito il CIB (comitato interstudentesco bolognese), che costituiva un embrionale tentativo di coordinare gli organi rappresentativi di diverse scuole bolognese. I quattro licei avevano un OR eletto democraticamente dagli alunni e funzionante e auspicavano una estensione di tale sistema ad altre scuole, dove i capiclasse erano scelti dai docenti e non dai compagni e non disponevano di uno statuto scritto. Il Galvani si propone, mediante una specifica sottocommissione preposta ai rapporti con l’esterno in coordinamento con gli altri licei, di aiutare le altre scuole in questo senso, nella convinzione che sia fondamentale un’estensione del cib come “gruppo di azione comune a livello cittadino per le attività che interessano tutte le scuole di Bologna” nel tentativo di “farci superare i confini, un po’ angusti al giorno d’oggi, degli interessi del nostro istituto.”. Il CIB non era tuttavia risultato incisivo, in quanto si era perso in discussioni sul problema del vincolo di mandato e arenato per la sua scarsa rappresentatività a livello cittadino. Anche l’OR non ottiene molto in termini di dialogo costruttivo tra studenti e insegnanti e educazione alle libertà democratiche, ma almeno “una ventina di studenti su un migliaio si è scossa dal suo sonno…” e i gruppi di studio si tengono regolarmente. Quindi il Galvani si promuove tra le scuole capofila di un movimento cittadino di scuole attive, un ruolo che perderà nel corso del 1969.

[65] La Rana, marzo 1967, p. 8.

[66]La Rana, aprile 1967, p. 2.

[67] Andrea Rapini, “Per una storia del movimento studentesco: il caso bolognese”, Annali dell’Istituto Gramsci Emilia Romagna, vol. 2/3 2000, pp. 153-179. Da notare che Stame, Bonfiglioli e Roversi provenivano dal Galvani.

[68] Rapini osserva che, messo in discussione il rigido approccio storicistico, vengono sviluppati spunti tratti dal Gramsci “consiliare”, dai Grundrisse di Marx (tradotti proprio nel 1968 e anticipati sui Quaderni rossi nel 1964 col “Frammento sulle macchine”), dal maoismo e da Rosa Luxemburg, denotando una sensibilità antiautoritaria e antiburocratica più vicina a tematiche libertarie. Ciò determina una complessa dialettica rispetto all’ortodossia del partito che guida il Comune, faticosamente gestita sino alla fine del 1969, con l’esaurirsi del movimento e il sorgere dei gruppi extraparlamentari.

[69] Tutto ciò in sintonia con le Tesi della Sapienza, che analizzavano il processo di massificazione dell’università e il parallelo mutamento della condizione studentesca: gli studenti vengono concepiti come forza lavoro in formazione, parte integrante della classe operaia, per cui la controparte degli studenti non erano i rettori, ma la classe dominante nel suo complesso (tesi 20). Su questo tema si veda Oreste Scalzone nell’articolo Parlano i protagonisti – Studenti, Le 24 ore di Roma, in Vie Nuove, 29 febbraio 1968: “Gli studenti non sono una classe, e non possono essere una classe oggettivamente rivoluzionaria. Il gruppo sociale oggettivamente rivoluzionario è la classe operaia. Non compete dunque al movimento studentesco, come tale, un ruolo egemone nel movimento rivoluzionario, ma la sua lotta contro la struttura universitaria può allargare certe contraddizioni e dunque essere oggettivamente integrata nella lotta di classe, come momento particolare e marginale di essa.” Anche il Manifesto per un’università negativa di Trento insiste su questi temi, con un’elaborazione teorica che coglie l’università come produttrice di scienza borghese, assoggettata all’economia, e proponendo lo sviluppo di un pensiero negativo in grado di opporsi all’ideologia dominante.

[70]Fiorentino Sullo, esponente della Democrazia Cristiana e membro dell’assemblea costituente, entrò nel governo come ministro della pubblica istruzione nel 1968, nel primo governo Rumor, ma si dimise dopo pochi mesi. Non disponendo di tempi tecnici per poter portare a compimento una riforma dell’istruzione secondaria e di quella universitaria, riuscì ad adottare alcuni provvedimenti settoriali (nuovo esame di maturità, moltiplicazione delle sessioni di esame, possibilità di adottare dei piani di studio individuali, diritto di assemblea studentesca nelle scuole superiori, eccetera). Durante il suo mandato al dicastero dell’istruzione emanò il decreto ministeriale 20 gennaio 1969 che soppresse, a decorrere dall’anno scolastico 1968/1969, l’esame di ammissione per il passaggio dalla V classe ginnasiale alla I classe del liceo classico. Il 15 febbraio 1969 sul Resto del Carlino nazionale si illustrano i cambiamenti prospettati per le superiori, che sostanzialmente prevedono una sessione unica di maturità, una valutazione in decimi, due prove scritte (la prima di italiano e la seconda su materia caratterizzante indicata dal Ministero), una materia scelta dallo studente e una dalla commissione entro una rosa di quattro discipline, la commissione formata da cinque membri e un presidente esterni con un solo membro interno.

[71] A parte tre liceali che decidono un digiuno di protesta per sensibilizzare l’opinione pubblica sui quartieri poveri di Sanremo, tutto procede senza sussulti sino alla vittoria di Iva Zanicchi con Zingara.

[72]Volantino anonimo archivio Giuliano Berti Arnoaldi Veli senza data.

[73] Il Consiglio si esprime favorevolmente, a condizione che sia preceduta da assemblee di corso. Infatti, le riunioni dei corsi vengono indette tra il 17 e il 26 febbraio in orario pomeridiano, come attestano le Comunicazioni del preside ai professori. Al preside toccherà richiamare i professori a questo dovere, evidentemente adempiuto obtorto collo. Nella comunicazione del 29 aprile 1969 il preside ricorda le decisioni prese dal Consiglio plenario il 15 marzo e la circolare “Sullo”, che prevede l’obbligo della presenza dei docenti alle riunioni di corso.

[74] Volantino archivio Giuliano Berti Arnoaldi Veli, “marzo 1969” scritto a mano, sottolineature mie.

[75] Volantino archivio Giuliano Berti Arnoaldi Veli, marzo 1969 scritto a mano.

[76] Archivio Giuliano Berti Arnoaldi Veli.

[77]Archivio Giuliano Berti Arnoaldi Veli.

[78] Da notare che l’Istituto Cavazza era in sommossa a sua volta, e si era arrivati all’occupazione: nel fascicolo Berti un volantino del 30 aprile 1969 denuncia la repressione nei confronti degli studenti convittori, parlano di industria degli esclusi tendente a formare ghetti come istituti dei ciechi, manicomi e orfanotrofi.

[79] Archivio Giuliano Berti Arnoaldi Veli, 24/3/69 scritto a mano; il volantino generico è contro la repressione del movimento e convoca un’assemblea in sala Farnese per il 25/3)

[80] Archivio Giuliano Berti Arnoaldi Veli. Nel testo sono riconoscibili la linea e la piattaforma di rivendicazioni ricostruite da Paolo Isola nell’intervista (archivio personale).

[81] Archivio Giuliano Berti Arnoaldi Veli.

[82] Archivio Artemisio Assiri, fascicolo 2 15, inv. 662. Il notiziario vuole permettere una larga informazione politica fra il movimento studentesco medio di tutti gli istituti a Bologna per avviare una discussione più ampia, oltre a far conoscere alle fabbriche i problemi degli studenti e viceversa (nel numero 3, ad esempio, si occupa di informare gli studenti delle lotte operaie).

[83] Archivio Artemisio Assiri, fascicolo 2 15, inv. 662.

[84] Archivio Giuliano Berti Arnoaldi Veli, volantino ciclostilato alla CdL./Ecap. L’ECAP era un ente cooperativo per l’apprendimento che si era formato a livello nazionale negli anni Cinquanta occupandosi di formazione professionale.

[85] Volantino risalente al giorno 8/5/1969, archivio Giuliano Berti Arnoaldi Veli.

[86] Archivio Giuliano Berti Arnoaldi Veli.

[87]Il testo prosegue osservando che alle Aldini e all’ITIS, in virtù di una attenzione maggiore al problema dell’inserimento del diplomato nel mondo produttivo, la Federazione Giovanile Comunista Italiana ha impostato un piano puramente rivendicativo delle lotte, in un’ottica sindacale e senza consapevolezza della contraddizione fondamentale del sistema capitalistico, ovvero la divisione tra capitale e lavoro. Da qui discende l’utilizzo di parole d’ordine generiche e l’organizzazione di incontri con operai per conoscere la realtà di fabbrica con la mediazione del partito e del sindacato. Gli operai coinvolti erano dunque attivisti sindacali spesso staccati dalle masse operaie, per cui si osserva che ciò che era stato realizzato non era un confronto reale tra la base di studenti e operai, ma tra avanguardie. L’egemonia della FGCI a livello di movimento cittadino ha fatto sì che le scuole di punta da novembre in poi diventassero le Aldini e l’ITIS, determinando da quel momento i metodi e i contenuti delle lotte in funzione di quel modello. Altre scuole si sono adeguate a tale linea, favorendo dunque l’egemonia di tali istituti, mentre in alcune si è tentato un forte dialogo con la base, un suo coinvolgimento.

[88] Nel bollettino si coglie però che “operai e studenti uniti nella lotta” appartiene come slogan a due linee politiche diverse. I riformisti sostengono che i figli della borghesia studenti sono un ceto e in quanto oppressi si alleano con il proletariato (posizione dogmatica ascritta a PCI e Unione marxisti-leninisti). “Invece questo ragionamento basato su alleanze  non tiene conto del fatto che gli studenti non sono un ceto, non tiene conto delle strutture attuali del capitalismo che comportano: l’aumento numerico degli studenti, il capitale che deve ristrutturare la scuola per renderla funzionale alle nuove esigenze produttive richieste dal salto tecnologico attuale, la necessità del capitale di imporre una istruzione permanente per operai e studenti in modo da organizzare il consenso attorno al mito dell’efficienza aziendale come efficienza sociale, per recuperare i tecnici obsoleti, fornire tecnici qualificati. Il diritto allo studio è quindi un concetto ambiguo se non ha contenuti anticapitalistici (può coincidere con l’obbligo allo studio imposto dal capitale). Il capitale chiama all’efficienza sia gli studenti che gli operai e dunque assegna loro la stessa funzione all’interno di una stessa ristrutturazione. Bisogna attaccare il luogo di produzione e il laboratorio che forma la forza lavoro.” Si propone quindi un lavoro estivo di comitati di base studenti-operai al di là di mediazioni sindacali e partitiche. Si insiste sull’esperienza del Marconi come unico caso di partecipazione della base senza egemonia di partiti.  

[89] Berardi, Ciavatti, Gradogna, Martucci, Stisi e Serafini con le operaie Piarani e Burzi. Stefano Grassi era ancora in carcere in attesa della data del processo e dei capi di imputazione, secondo altri volantini.

[90] In Controstampa n. 4, a p. 10, a proposito della lotta degli studenti medi a Bologna, si spiega che i comitati di base si sono formati a febbraio (1969) contestualmente alle occupazioni e sono composti da tre commissioni: commissione stampa, commissione per le attività interne (biblioteche, cineforum, gruppi di studio), commissione per i contatti con gli altri istituti e col movimento universitario. Col tempo si aprono alla collaborazione con gli operai, diventando comitati di base operai-studenti.

[91] Archivio Giuliano Berti Arnoaldi Veli.

[92]Registro dei verbali del Collegio dei Professori (dal 1967/68 al 1981/82), archivio storico del liceo Galvani, p.62.

[93] Registro dei verbali del Collegio dei Professori (dal 1967/68 al 1981/82), archivio storico del liceo Galvani, p.64-5.

[94]Oltre 2000 studenti delle professionali si incontrano con operai dell’ACMA.

[95] Registro dei verbali del Collegio dei Professori (dal 1967/68 al 1981/82), archivio storico del liceo Galvani, p.68.

[96]Registro dei verbali del Collegio dei Professori (dal 1967/68 al 1981/82), archivio storico del liceo Galvani, p. 69.

[97] Quello stesso giorno, poche ore prima, il preside Giordano relaziona al provveditore quanto accaduto il 15 novembre, spiegando che poco dopo l’inizio delle lezioni gli studenti avevano tentato di avviare un’assemblea non autorizzata con pericolo per la stabilità dell’edificio (in quanto si erano radunati nel corridoio del primo piano). Vista l’inutilità dei tentativi di sgombrare il corridoio e far tornare in aula gli studenti, il preside spiega di aver deciso di mandare gli alunni a casa per evitare il temuto crollo e intemperanze da parte di “giovani di tendenze ideologiche opposte” affollati fuori dal portone. Nota tuttavia che un gruppo di alunne tornate dalla palestra per riprendere libri e cappotti non potevano uscire perché alcuni occupanti avevano chiuso il portone, scosso dall’esterno da “violenti colpi inferti da sconosciuti con un lungo tubo di ferro che ha danneggiato la serratura e qua e là la struttura lignea del portone”. A questo punto egli decide di chiedere l’intervento della polizia per evitare violenze e dichiara di non poter fare i nomi degli alunni occupanti perché non li conosce, essendo preside da un mese.

[98] Registro dei verbali del Collegio dei Professori (dal 1967/68 al 1981/82), archivio storico del liceo Galvani, p.70-71.

[99] Sezione menzionata dal caustico rilievo del prof. Gabelli riportato nel paragrafo precedente.

[100] Registro dei verbali del Collegio dei Professori (dal 1967/68 al 1981/82), archivio storico del liceo Galvani, pp. 71-2.

[101] Entrambi ricordano l’episodio, osservando che non era infrequente utilizzare come via di uscita i tetti.

[102] Registro dei verbali del Collegio dei Professori (dal 1967/68 al 1981/82), archivio storico del liceo Galvani, p. 74.

[103] Corrispondenza riservata a.s. 1969/70, archivio storico del liceo Galvani. Gli ex studenti ricordano il clima di ossessivo timore di un crollo, per cui bisognava camminare rasente ai muri.

[104] Si veda Marika Tolomelli, in 1968. L’anno degli studenti, op. cit. p. 18.

[105] La rivoluzione scritta da lei stessa, documenti del maggio, Comitato d’Azione Lettere Genova, in nelvento.net.


 [GG1]Sic? O piuttosto “che”?

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