Il Vangelo secondo Pasolini, Andrea Cerica

Il vangelo secondo Pasolini

Andrea Cerica

            Inizio da una premessa che servirà per introdurvi alle mie ricerche sul Vangelo secondo Matteo di Pasolini, al mio metodo: avrà al centro un altro film che parla della vita, morte e resurrezione di Cristo; poi passerò a Pasolini e tratterò di alcune caratteristiche importanti del suo film e infine illustrerò nel dettaglio che cosa ho scoperto una decina di anni fa. Anche se non mi occupo subito nel dettaglio di Pasolini, da lui comincio.

Fig. 1

            Sullo schermo vedete il dodicesimo cartello dei titoli di testa del Vangelo secondo Matteo di Pasolini: all’inizio del film e nella quarta pagina della sceneggiatura (pubblicata nel settembre 1964 in contemporanea all’uscita del film), il regista dichiara la propria fonte, cioè quale edizione del vangelo di Matteo ha utilizzato per allestire i dialoghi. La caratteristica più saliente del Vangelo di Pasolini, evidente fin dal titolo (secondo Matteo), è che è stato sceneggiato interamente a partire dal Nuovo Testamento, cioè quasi tutto quello che viene visualizzato e detto non è frutto di pura invenzione, ma è ricavato dal primo dei quattro vangeli.

            Nella storia del cinema sono stati prodotti moltissimi film che trattano della vita di Cristo o di episodi tratti dall’Antico Testamento e molti contengono delle citazioni testuali, cioè esattamente quello che è scritto nella Bibbia: si tratta di citazioni espresse ora attraverso la parola degli attori ora visualizzate attraverso degli intertitoli su sfondo nero, bianco o figurato; gli intertitoli sono cartelli simili a quello della fig. 1 che interrompono la colonna visiva principale, ossia quella in cui si vedono recitare gli attori e costruite le scenografie, e che visualizzano per pochi secondi una breve citazione scritta; è una tecnica non più comune oggi ma era ovviamente diffusa nel cinema muto, quindi fino agli anni ’20, perché non c’era altro modo di far parlare un attore in alcuni momenti centrali che visualizzando le parole scritte su un cartello.

            Vi faccio un esempio che ci serve non soltanto a comprendere meglio una tecnica ormai desueta, ma che permetterà di parlare anche di Pasolini. Ho scelto un film americano del 1927 che ha segnato la tradizione del cinema biblico, The King of Kings (Il re dei re) di Cecile De Mille. Ora vi proietto un estratto dalla sequenza della crocifissione: in certi momenti vedrete la colonna visiva interrotta da un intertitolo che vi tradurrò; è un film muto, perciò non sentirete parole né musiche.

Fig. 2

            «Se è il Re d’Israele scenda dalla croce e noi Gli crederemo». Oltre a essere citato uno degli insulti riportati dal vangelo di Matteo, in basso a destra è addirittura riportato il numero del versetto («Matt. 27, 42»). Ma andiamo avanti con la sequenza della crocifissione e vediamo gli altri intertitoli.

Fig. 3

            «Tu che distruggi il Tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva Te stesso, scendi dalla croce!». È un’altra provocazione che ricorre nel vangelo di Matteo quasi identica, eppure, come mostra l’indicazione del versetto («Mark 15, 29-30»), è desunta dal vangelo di Marco. La risposta di Cristo ai provocatori è tratta invece dal vangelo di Luca.

Fig. 4

            «Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno». Quindi, dopo Matteo e Marco, Luca («Luke 23, 34»); ma con una piccola trasformazione. Nel vangelo di Luca questa preghiera di perdono pronunciata da Cristo non è rivolta ai provocatori che gli dicono di scendere dalla croce, bensì ai carnefici che lo crocifiggono; solo che De Mille non poteva farla rivolgere ai carnefici perché ha scelto di non visualizzarli: ha preferito non filmare l’atto violento della crocifissione. Siamo lontani anni luce dal film di Mel Gibson The Passion of the Christ (La passione di Cristo, 2004), nel quale la visualizzazione della violenza e del sangue è estrema.

            L’epoca in cui Gibson gira La passione di Cristo, i primi anni del XXI secolo, è ben diversa da quella in cui De Mille gira Il re dei re. Il cinema è un’arte più di altre connessa alle dinamiche commerciali, perché di norma un film non viene prodotto se il produttore, quando gli presentano il soggetto o il primo abbozzo di sceneggiatura, ha già il presentimento che quel film non avrà un pubblico: il pubblico a cui si rivolge Gibson è abituato e interessato a vedere sullo schermo violenze di ogni tipo, quello di De Mille invece no, perché negli anni ’20 i registi si autocensuravano e, quando non lo facevano, intervenivano gli organi di censura (anche nei paesi democratici come gli Stati Uniti). C’è dunque una ragione storica se De Mille non ha visualizzato la trafittura di Cristo sulla croce, ma in ogni caso è a questa reticenza che noi dobbiamo guardare per comprendere la trasformazione del vangelo operata dal film: mancando la crocifissione e mancando i carnefici, la preghiera di perdono di Cristo è stata ricollocata, riposizionata in una situazione in cui potesse funzionare ancora, e così i carnefici carnali sono stati sostituiti dai carnefici verbali.

            Ho fatto questo lungo commento al terzo intertitolo perché è un esempio di come ho lavorato e di qual è stato il mio metodo di studio nei confronti del Vangelo secondo Matteo di Pasolini. Non ho lavorato sulle modifiche di contenuto rispetto al testo di Matteo come ho fatto nell’esempio, perché questo studio era già stato fatto: lo aveva firmato Zygmunt Barański, un medievista inglese, vale a dire uno studioso esperto di letteratura italiana medievale, Dante in particolare; nel 1999 Barański aveva pubblicato un saggio in cui spiegava nel dettaglio tutte le modifiche di contenuto tra il vangelo di Matteo e il film di Pasolini. Io ho studiato invece le differenze fra la traduzione consultata e i dialoghi del film e quest’analisi, anche se condotta sul piano della forma del film, in realtà ha illuminato anche alcuni aspetti contenutistici, come chi mi aveva preceduto. Dopo lo vedremo nel dettaglio, ora torniamo al film di De Mille.

            Mi sono soffermato sul terzo intertitolo anche per farvi capire che negli adattamenti cinematografici di testi letterari antichi o moderni è inevitabile che avvengano delle modifiche rispetto all’originale, perché si tratta di adattare un testo scritto a una nuova situazione storica e a una nuova forma di comunicazione e di conseguenza di mutarne in parte il significato; questo vale sia per Il re dei re di De Mille sia per il Vangelo secondo Matteo di Pasolini sia per ogni altro adattamento cinematografico.

            Dopo la preghiera del perdono, il film di De Mille visualizza un altro passo del vangelo di Luca, il breve dialogo fra Cristo e i due ladroni: episodio che c’è soltanto nel vangelo di Luca e che viene espresso nel film con la solita tecnica dell’interitolo. Segue un episodio che non c’è né tra i sinottici né nel vangelo di Giovanni: la fraternizzazione fra Maria e la madre del cattivo ladrone; è un’aggiunta che mira a intensificare il perdono misericordioso e quindi il messaggio positivo del vangelo. Dopo la preghiera di Cristo per i provocatori e dopo il perdono nei confronti del ladrone buono, Maria, che nel Salve Regina è definita «mater misericordiae», compie un terzo atto d’amore: in questo modo, diversamente da quanto accade nelle Scritture, alla figura del protagonista Cristo segue la figura della deuteragonista Maria, e usare due attori di misericordia anziché uno solo serve appunto per enfatizzare il messaggio positivo della Passione. Vediamo insieme il seguito della sequenza e soffermiamoci sull’intertitolo che visualizza la battuta della madre del cattivo ladrone.

Fig. 5

            «Quello è il mio ragazzo», dice la donna a Maria; ed è segnale esplicito della novità di quest’episodio l’assenza in basso a destra del versetto. Non è l’unico caso, ci sono anzi altri episodi inventati dalla sceneggiatrice Jeanie MacPherson. Ma prima di insistere su questo punto vediamo l’abbraccio fra le due donne che veicola il tema della fraternizzazione e che non a caso viene interpunto da una dissolvenza in nero (la dissolvenza in nero è un segno d’interpunzione forte, che spesso cioè serve per marcare l’importanza di un dato episodio).

Fig. 6

            Abbiamo visto che nel film di De Mille l’adattamento del testo evangelico avviene a partire dal testo stesso: i dialoghi vengono ricavati dalle Scritture, ma da tutti e tre i vangeli sinottici e con delle aggiunte. Come vi dicevo all’inizio, ciò avviene anche in altri film sulla vita di Cristo. Quello che di nuovo il Vangelo secondo Matteo ha fatto è la dipendenza integrale da un unico testo, il primo dei tre sinottici.

            Gli unici due episodi aggiunti da Pasolini sono il gesto del soldato romano che porge la borraccia a Cristo durante la processione verso il Golgota e la sequenza del passaggio e del pianto di Cristo di fronte alla casa di Maria, una sequenza di circa un minuto che occorre intorno alla metà del film. Quindi, su un’opera lunga più di due ore poco più di un minuto è frutto di totale invenzione. Non esiste altro film così legato al testo originale della Bibbia.

            Questa scelta radicale però non va fraintesa: si è molto parlato di fedeltà di Pasolini al vangelo; questo per la scelta di sceneggiare il film solo a partire dal vangelo di Matteo e anche perché Pasolini stesso ha più volte parlato di «fedeltà» nelle dichiarazioni alla stampa: ha usato espressamente la parola «fedeltà» e addirittura aggiunto l’attributo «letterale». Non condivido questa parola per due ragioni.

            La prima è che il vangelo di Matteo viene citato, sì, ma come era inevitabile – dato che è anche il più lungo – con molti tagli e inoltre con dei ricollocamenti di episodi, cioè con alcuni sovvertimenti a livello narrativo-strutturale: ad esempio la guarigione del lebbroso descritta al capitolo ottavo del vangelo di Matteo precede il discorso della montagna, mentre nell’originale avviene il contrario.

            Ma la ragione principale per cui non è opportuno parlare di fedeltà in riferimento al Vangelo secondo Matteo di Pasolini è che i dialoghi e gli episodi sono desunti dall’originale, sì, ma ciò non basta a fare del film un’opera fedele; perché un adattamento cinematografico di un testo letterario non può mai essere fedele al suo modello, implica sempre e inevitabilmente delle trasformazioni. Perciò vediamo adesso quali sono le trasformazioni di significato presenti in un film pur così vicino alla lettera del testo antico.

***

            Il Vangelo di Pasolini è commentato da moltissime musiche, tra queste si sentono due canti rivoluzionari russi: Vy zhertvoiu pali e Oh ma vaste steppe, che vogliono dire rispettivamente Sei caduto vittima e Oh, grande steppa.Questi due commenti musicali introducono un tema politico: interpretare il movimento gesuano come movimento di lotta rivoluzionaria contro lo sfruttamento delle classi subalterne risale all’ermeneutica marxista avviata dal saggio del filosofo Friedrich Engels sulle origini del cristianesimo; e questo tema non è affatto marginale, è anzi uno dei due assi tematici portanti del film di Pasolini: anzitutto perché il film è dedicato a papa Giovanni XXIII, che aveva cercato di far dialogare la Chiesa con il blocco comunista e aveva istituito il Concilio Vaticano II nel tentativo di innovarla, e in secondo luogo perché l’attore protagonista non è un belloccio come Henry Warner, il Cristo de Il re dei re, ma uno studente universitario spagnolo antifranchista, che mai prima del 1964 era stato attore e che Pasolini aveva incontrato solo perché questo ragazzo, Enrique Irazoqui, era andato a casa sua per chiedergli un aiuto nella lotta contro il regime fascista di Francisco Franco.

            La dedica del film e la scelta dell’attore protagonista non sono due elementi secondari. La dedica perché non è a una persona privata, conosciuta dal dedicante, come avviene nella gran parte delle dediche, ma a una persona pubblica con cui Pasolini non scambiò mai una parola, e quindi la dedica non ha un valore sentimentale ma una risonanza politica. Semplificando potrei dire che il significato della dedica che vedrete nei titoli di testa è il seguente: «Io dedico questo film sul messaggio rivoluzionario di Cristo a un papa rivoluzionario che ha saputo valorizzare la rivoluzione di tale messaggio». Semplificando ulteriormente, visto che ci sono molte e molti giovani tra il pubblico, potrei dire che il papato di Giovanni XXIII assomiglia a quello di Francesco: due papati che hanno cercato di rinnovare un’istituzione politica millenaria come la Chiesa cattolica.

            La scelta dell’attore non è meno importante perché il linguaggio cinematografico è caratterizzato dall’interazione di codici multipli e anche la scelta di un attore può essere pregna di significato. Vi faccio un esempio. Se prima di andare a vedere un film leggete che nel cast c’è Elettra Lamborghini immagino che avrete già un’idea di quale tipo di personaggio interpreterà e più in generale capirete anche che non vi attenderà un film molto impegnato e impegnativo. Nel caso del film di Pasolini tutto ciò è meno immediato perché l’attore era uno sconosciuto; ma chi avesse letto sui giornali che Irazoqui era uno studente antifranchista scampato alla prigione avrebbe potuto già farsi un’idea sul film.

            Il tema politico-rivoluzionario è veicolato, anche se in modo meno esplicito, pure dalle musiche africane e afroamericane che commentano gli episodi, soprattutto il Gloria della Missa luba. La Missa luba è una versione congolese della messa tridentina, in cui cioè le preghiere sono cantate in latino, quindi secondo la liturgia romana, ma secondo ritmi della tradizione musicale del Congo. Il Vangelo secondo Matteo inizia e termina sulle note della Missa luba, questa costituisce perciò la musica più emblematica e memorabile dell’intero film, nonostante anche quelle di Bach e Mozart abbiano un particolare rilievo. La Missa luba ci riconduce a quel Terzo mondo africano che Pasolini mitizzò già a partire dagli anni ’50 e poi nel corso degli anni ’60 in quanto principale continente che poteva costituire una via alternativa tanto al neocapitalismo quanto al comunismo. Dell’Africa il poeta amava la vitalità, la giovialità, la spensieratezza, i colori, tutte qualità che gli sembravano perdute nelle società sviluppate, borghesi o comuniste che fossero.

            Per chi ha occhio attento e allenato al linguaggio cinematografico il tema politico è ben percepibile nella sequenza conclusiva, e quindi in una posizione di assoluto rilievo. Mentre risuona il Gloria della messa congolese, le ultime inquadrature del film insistono ripetutamente sulle falci dei contadini e su un bambino in groppa a Ninetto Davoli; la falce è naturalmente simbolo sovietico e sono altrettanto marcate in senso politico-rivoluzionario le voci del coro congolese, il bimbo e Ninetto, perché tutti e tre sono riferibili al mito del Terzo mondo appena accennato: il canto africano con la sua forza ritmico-percussiva che induce il corpo a muoversi, ad accompagnare il canto con la gestualità, il bimbo con la sua logica infantile, più fisica ed emotiva che mentale, e infine Ninetto Davoli con la sua allegria e spensieratezza, rappresentano tre istanze secondo il regista contrarie al razionalismo neocapitalistico. Vediamo l’intera sequenza conclusiva.

Fig. 7

            Come avete visto, nella sequenza finale più che il protagonista Cristo è la massa contadina ad avere risalto, in particolare le figure di Ninetto e del bimbo e la falce. Già questo esemplifica molto bene come il film sia tutt’altro che fedele all’originale e sia invece profondamente pasoliniano; sì, la battuta di Cristo è desunta senza modifiche testuali dal capitolo conclusivo del vangelo di Matteo, però l’attore che la pronuncia è visualizzato brevemente solo alla fine e questa reticenza a livello dell’immagine è molto eloquente perché il linguaggio iconico è il primo dei linguaggi cinematografici – un film può non avere effetti e colonna sonora, la colonna visiva invece è essenziale.

            Questo mi sembra un ottimo esempio di come sia possibile, senza alterare il modello sul piano testuale e anzi utilizzando le medesime parole, dire qualcosa di diverso. Nel caso specifico della sequenza conclusiva sono musica e immagine a cambiare significato alle parole di Matteo, due elementi che nel cinema sono prioritari rispetto ai dialoghi: salvo qualche battuta memorabile è improbabile che dopo un po’ di tempo dalla visione di un film siate in grado di ricordarne le parole, mentre potreste ricordarne le immagini e forse anche la musica; questo perché di fronte al grande schermo immagine e musica hanno maggiore forza comunicativa e si sedimentano più facilmente nella memoria del pubblico.

            Il Vangelo secondo Matteo è tra i film pasoliniani il più dialogato, quello in cui la parola ha una maggiore forza drammaturgica, ma se le parole riescono a rimanere impresse è grazie soprattutto alla bella dizione di Enrico Maria Salerno, non alle parole in sé: è il suo ritmo, è la sua enfasi, che riesce a dare una forza non comune ai dialoghi; però, come in qualsiasi film, immagine e musica sono comunque cognitivamente più rilevanti delle parole e quindi il messaggio che esse portano con sé non va assolutamente sottovalutato.

            Altra scelta dal chiaro valore politico è la scelta di Matera come set principale in cui ricostruire la Gerusalemme di Cristo. Alla fine degli anni ’40 la città lucana era divenuta vergogna nazionale perché ancora una buona parte della popolazione viveva nelle case-grotta e il governo per rimediare aveva scelto di urbanizzare la città con palazzoni moderni che non piacquero a Pasolini; mentre le istituzioni si vergognavano dell’umiltà degli materani che abitavano ancora nelle case-grotta, Pasolini invece decide di girare nel Meridione con comparse del luogo, lucane, calabresi, pugliesi: in sostanza con il Vangelo visualizza con forza tutta quella gente umile che il governo voleva celare modernizzandola.

            L’altro asse tematico portante del film è quello lirico-autobiografico: il film cioè non tratta solo della necessità di imitare la forza rivoluzionaria di Cristo per porre fine allo sfruttamento operato contro le classi subalterne, ma parla implicitamente anche della persecuzione subita dal regista, che alla pari di Cristo era stato messo in croce per la radicalità della critica mossa alle istituzioni politico-religiose; e che era stato perseguitato anche per l’orientamento sessuale: negli anni in cui visse Pasolini per la Chiesa l’omosessualità era un peccato, per lo stato era un reato, per la medicina era una malattia mentale.

            Tra gli attori non professionisti c’è anche la madre del regista, Susanna Colussi, chiamata a interpretare la Madonna adulta: fatto che contribuisce a dare al film tale piega autobiografica. Come ho già detto prima, la scelta di un attore non è un elemento irrilevante, specie quando non si tratta di un attore marginale: e per il rilievo iconico che viene dato a Maria nella sequenza della crocifissione, che è il vertice di tutto il film, la madre Susanna è senza dubbio il secondo volto che rimane impresso negli spettatori e nelle spettatrici dopo quello di Enrique Irazoqui. Il processo identificativo fra Cristo e Pasolini può apparire forse un po’ troppo allusivo per lo spettatore medio, non invece per chi conosce bene la vita e l’opera del regista: la produzione poetica giovanile di Pasolini è ricca di identificazioni Cristo-Pasolini e Maria-Susanna Colussi.

            Dunque, per avviarci alla conclusione di questo lungo discorso introduttivo, la scelta di ricavare il film direttamente dal testo di Matteo è ingannevole e culta, perché parla veramente solo a chi sa guardare al di sotto (o al di sopra) dell’apparente fedeltà. La ferma volontà di citare il testo biblico invece di sceneggiare di persona i dialoghi va interpretata come un elemento di profonda “pasolinianità” perché distingue il Vangelo secondo Matteo da tutti gli altri film biblici e perché, più in generale, la citazione di estesi brani di opere letterarie è un elemento peculiare di altri suoi film. Anche in Edipo re e in Medea Pasolini ha ricavato la quasi totalità delle battute dalle rispettive tragedie di Sofocle e di Euripide.

***

            Fino a qui ho cercato di interpretare criticamente quel «secondo Matteo» del titolo, ora vi devo dire che anche il dodicesimo cartello dei titoli di testa non va preso alla lettera. Perché una decina di anni fa, durante le ricerche per la tesi di laurea magistrale, ho scoperto che Pasolini non ha usato soltanto la traduzione lì dichiarata, curata dalla Pro Civitate di Assisi, e soprattutto che l’ha modificata con dei microscopici ma costanti interventi.

            Anzitutto, l’autore nascosto della principale traduzione utilizzata è Benvenuto Matteucci: non un traduttore qualsiasi ma un teologo che aveva pubblicato molti scritti, che era in contatto con importanti intellettuali e letterati italiani come Giuseppe Ungaretti, Giovanni Papini, David Maria Turoldo e altri, che fu corrispondente dell’Osservatore romano durante il Concilio Vaticano II e dal 1971 al 1986 arcivescovo di Pisa. Sembra paradossale ma il suo nome non è mai stato fatto in riferimento al Vangelo secondo Matteo di Pasolini; questi ha omesso il suo nome e nessuno si è più preoccupato di recuperarlo.

            La Pro Civitate Christiana di Assisi, che aveva commissionato la traduzione dei vangeli a Matteucci, è un’associazione laicale fondata nel 1938 per diffondere il vangelo presso soggetti particolarmente lontani dalla fede e soprattutto malvisti dalle istituzioni ecclesiastiche centrali, come Pasolini, ed è soprattutto grazie all’interessamento del fondatore don Giovanni Rossi che il film poté nascere perché fu lui, anche attraverso i suoi collaboratori, che fece dialogare il regista con quest’associazione molto attiva ad esempio in ambito cinematografico (organizzava e organizza tuttora convegni sul cinema, e fu proprio ad Assisi in un convegno dell’autunno 1962 che Pasolini ebbe l’idea di fare il film).

            Prima che venisse assistito dai collaboratori di questa associazione, Pasolini si era messo a sceneggiare i dialoghi adoperando un’altra traduzione, firmata da Umberto Massi. Consultando a Firenze i materiali preparatori al film custoditi dall’archivio Pasolini, ho constatato che la prima traduzione non fu sostanzialmente modificata, la seconda invece fu rimaneggiata in più fasi; e così ho sottoposto a una profonda analisi l’intero rimaneggiamento pasoliniano del testo di Matteucci.

            A integrazione del dodicesimo cartello va perciò detto che i dialoghi del film sono un testo composito di cui Benvenuto Matteucci è il primo autore, ma al quale hanno contribuito in grande misura Pasolini e in misura minore pure il primo traduttore, Massi, di cui sono sopravvissute diverse parole nel film.

            Il rimaneggiamento della traduzione di Matteucci fu fatto talora per contenere le punte sublimi e stranianti della traduzione – l’autore era un letterato, non solo un teologo. Ma esiste un’altra tipologia d’intervento, molto più importante: esistono cioè delle modifiche al testo di Matteucci che hanno una funzione descrittiva, che concorrono cioè a caratterizzare lo status sociale dei personaggi perché il film è fortemente segnato dalla lotta di classe; cioè, mentre nelle battute dei personaggi sottoproletari predominano interventi che abbassano il registro stilistico-lessicale, si trovano invece interventi di segno opposto nelle battute di personaggi di stato sociale elevato come i farisei, principali rappresentanti del potere politico-religioso contro cui il Cristo pasoliniano si scaglia. Vi faccio qualche esempio.

Fig. 8

            «Maestro, noi vorremmo un segno da te», dice il fariseo ritratto nella fig. 8; ma la traduzione di Matteucci diceva: «Maestro, noi vogliamo un segno da te». Nella sequenza in cui i sacerdoti interrogano Cristo sul tributo a Cesare, uno di loro dice: «Maestro, noi sappiamo che tu sei sincero e insegni la via di Dio con franchezza e non ti curi di alcuno perché non usi guardare alla condizione degli uomini, di’ dunque che cosa ne pensi: è lecito pagare il tributo a Cesare o no?». Invece nella traduzione di Matteucci il sacerdote diceva: «[…] e non ti curi d’alcuno perché non riguardi in faccia alle persone […]».

            Nella battuta precedente, quella del fariseo con il copricapo ispirato agli affreschi aretini di Piero della Francesca, l’indicativo «vogliamo» scelto da Matteucci è sostituito dal condizionale perché il personaggio non si poteva esprimere in modo così diretto e popolare (cioè con l’indicativo), ma era meglio che usasse una forma di cortesia più consona alla sua classe, cioè il condizionale «vorremmo»; e nella battuta del tributo la pericope di testo «riguardi in faccia alle persone» viene riformulata con un giro di frase più verboso ed elegante per la stessa ragione: perché è un personaggio di status sociale elevato a parlare. Come avete visto, sono delle modifiche minime, ma non possono essere interpretate come degli interventi causali, fortuiti: anche perché negli appunti di regia della sceneggiatura il regista più di una volta, nel descrivere i farisei e gli altri potenti, fa riferimento al loro linguaggio forbito, proprio di una classe dominante.

            Di questi la sceneggiatura dice inoltre che si vestono con abiti lussuosi e pregiati, e infatti la forbitezza del parlato, cioè questi interventi di innalzamento di registro, vanno di pari passo con le scelte relative all’apparato costumistico: la contrapposizione fra classe dominante e sfruttati è veicolata nel film soprattutto attraverso l’elemento visuale; oltre a usare in questo senso citazioni figurative (è il caso famoso dei copricapi troncoconici che indossano i farisei, attinti dal ciclo pittorico aretino di Piero La leggenda della vera Croce), oltre a citazioni di questo tipo conta la gestione complessiva dei costumi: mentre i sottoproletari indossano abiti lisi, sporchi, bucati, e di colori poco valorizzabili dal monocromatismo della pellicola, e sono inoltre sempre sprovvisti di copricapi, i farisei, i sadducei, gli erodiani e parte dei soldati indossano svariati copricapi o diverse tipologie d’elmo, abiti di lusso, lavorati dal costumista Danilo Donati e spesso non colorati, bianchi e neri di modo che possano stagliarsi meglio nel monocromatismo della pellicola.

            Si possono riscontrare ulteriori tipologie di modifica della traduzione di Matteucci: quelle dettate dalla necessità di storicizzare la storia di Cristo, cioè di ridurne il valore metafisico, e quelle dettate dal passaggio a una diversa situazione comunicativa, cioè dalla lettura all’oralità della sala cinematografica.

            Tra le prime possiamo contare la sostituzione del lessico tematico della verità teologica con parole profane come «sincero»e«franchezza» – Matteucci diceva: «Noi sappiamo che tu sei veritiero e insegni la via di Dio con verità […]»; una modifica analoga si trova nella immediata risposta di Cristo al sacerdote. Matteucci faceva dire a Gesù: «Perché mi tentate, ipocriti?»; ma Pasolini ha preferito dire «insidiate» perché «tentate», nella precisa accezione di «cercare di indurre al peccato», fa parte della lessico liturgico cristiano, mentre «insidiate» è un termine più generico e laico. Queste sono modifiche molto piccole, ma in realtà potenti, perché laicizzano il vangelo di Matteo.

             Un esempio invece di trasformazione dettata dal nuovo medium è la rinuncia all’anastrofe «starà il Figlio dell’uomo» usata da Matteucci. Nella risposta al fariseo ritratto nella fig. 8 Pasolini preferisce riformulare le parole della traduzione e seguire l’ordine comune: «il Figlio dell’uomo starà tre giorni e tre notti nel seno della terra». Intervento analogo è la sostituzione di «cetaceo» con il più comune sostantivo «balena». Oppure l’aggiunta dell’avverbio «perfino», che serve per marcare con più forza la frase «gli uomini di Ninive risorgeranno nel giudizio»: è una modifica che dinamizza, rende più drammaturgico il testo, lo rende cioè più efficace in un contesto orale come quello filmico.

            Sono tutte modifiche che fanno capire come Pasolini abbia riadattato il testo di Matteo nel trasferirlo dalla pagina scritta allo schermo; e che il Vangelo secondo Matteo sia soprattutto un vangelo secondo Pasolini.

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