La memoria ritrovata di due studentesse d’eccezione. Le scrittrici partigiane Viganò e Zangrandi e il liceo “Galvani”
In occasione del proprio 150° il liceo “Galvani” di Bologna ha deciso di onorare la memoria dei propri studenti impegnatisi nella Resistenza con una giornata di studio intitolata Credere nell’Italia nuova. Donne e uomini del Galvani nella Resistenza. Il ricordo degli studenti caduti nella lotta contro il nazifascismo era stato tenuto vivo e trasmesso come un valore irrinunciabile per una scuola che dal 1860 ha rappresentato un punto di riferimento per l’istruzione superiore a Bologna. Si trattava di Mario Jacchia, già avvocato affermato e padre di famiglia quando decise di rischiare tutto, di Giuliano Benassi, deportato in Germania e ucciso nel campo di Oelsen, del giovanissimo Emanuele Giovanelli, fucilato a Fossoli, di Andrea Paglieri, di Gianni Palmieri, di Romeo Rodrigues Pereira, trucidato alle Fosse Ardeatine, di Sergio Tavernari, lanciatosi nel vuoto per non cadere in mano ai nazifascisti.
Era stata smarrita, invece, la memoria di due partigiane divenute scrittrici della Resistenza: Renata Viganò, autrice del celebre romanzo L’Agnese va a morire, ora tradotto in molte lingue e trasformato in un film di successo, e Giovanna Zangrandi, autrice del più bel diario partigiano della nostra letteratura, I giorni veri, ingiustamente dimenticato dopo un primo meritato successo.
Come può succedere che una scuola “dimentichi” due studentesse di questo calibro? Teoricamente una scuola, attraverso l’archivio che custodisce il registro dei voti, non ha difficoltà a ricordarsi di tutti i suoi studenti. Questi studenti frequentano le sue aule in età adolescenziale quando non sono ancora ciò che diventeranno da adulti; è inevitabile che, a distanza di tempo, la scuola vada orgogliosa soprattutto di quelli che hanno fatto successo. Ma perché il “Galvani” allora si è dimenticato della Viganò e della Zangrandi? E’ presto detto: la Viganò non si diplomò perché fu costretta ad andare a lavorare e una scuola ha cura soprattutto degli elenchi dei diplomati e di loro si ricorda più facilmente; quanto alla Zangrandi, non si chiamava Giovanna Zangrandi quando frequentava il “Galvani” ma Alma Bevilacqua. Giovanna Zangrandi è lo pseudonimo letterario scelto per demarcare ancora più profondamente i due “territori” cronologici, geografici e psicologici della sua vita, l’Emilia non amata e il Cadore, idealizzato e scelto come patria d’elezione.
Ma vediamola la storia di queste due ragazze, nate a giugno, che, a distanza di dieci anni – tanti erano quelli che le separavano anagraficamente – frequentarono il corso A del liceo Galvani, avendo in comune anche l’insegnante di lettere classiche, il prof. Beltrami, e quello di italiano, il prof. Lovarini, che seppe riconoscere le capacità espressive dell’uno e dell’altra.
Renata Viganò era nata a Bologna, in via Broccaindosso 1, il 17 giugno del 1900 in seno a un’agiata famiglia borghese. La bisnonna paterna, Caterina, energica e risoluta, era stata la fondatrice delle fortune economiche della famiglia, la cui azienda prosperò con il noleggio di carrozze a cavallo. Il ricordo degli anni d’infanzia vissuti nel lusso, secondo i rituali e le forme proprie delle classi ricche, faranno dire a Renata:
“Io non sono nata dal popolo. Non ho avuto perciò il grande insegnamento di un’infanzia dura, di genitori premuti da lavori faticosi, da privazioni quotidiane. Ma la mia estrazione borghese non impedì che fossi portata a preferire le persone del popolo alla vellutata, stagnante, bigotta simulazione della classe a cui appartenevo.”
Renata fu una precocissima poetessa e la sua prima raccolta Ginestra in fiore, stampata a cura della famiglia, le fece conquistare le cronache del giornale locale, Il Resto del Carlino, che il 22 gennaio del 1913 le dedicò un breve articolo, intitolato “La poetessa dodicenne”, in occasione della festa che l’istituto scolastico privato, frequentato fino ad allora, organizzò per lei. Proprio in quell’anno Renata, che si era trasferita con la famiglia in un accogliente appartamento in via Cartolerie 17, passò alla scuola pubblica, poco distante da casa, il “Galvani”. Superato l’esame di ammissione fu iscritta in III ginnasio A, corrispondente all’attuale III media. Ebbe tempo di concludere il ginnasio inferiore, di frequentare il ginnasio superiore e la prima liceo, sempre con profitto lusinghiero. Al termine della V ginnasio il voto in italiano fu 10, a testimonianza di una carriera scolastica brillante. Nel 1915 aveva dato alle stampe una seconda raccolta poetica: Piccole fiamme. Quando, nel 1917, la ditta di famiglia fallì, Renata non esitò ad andare a lavorare. Aveva sognato di fare il medico e si fece prima inserviente e poi infermiera.
“Piantai con un taglio netto ogni rapporto con i ranghi borghesi e andai a fare prima l’inserviente poi l’infermiera negli ospedali. Era il lavoro che mi piaceva perché avevo tanto desiderato gli studi in medicina, e anche se allora umiliato, mal retribuito e faticoso, non me ne sono mai pentita. Così ebbi il mio posto nella classe operaia”
Nel frattempo il fascismo arrivò al potere e si trasformò in regime. Dopo la morte dei genitori e della vecchia “tata”, Renata visse con distacco la nuova situazione politica fino a che non incontrò, attraverso un’amica, gli oppositori comunisti al regime e colui che diventerà il compagno della sua vita, Antonio Meluschi.
“Lui pettinò la matassa un po’ arruffata dei miei pensieri, e incominciai così la mia vera “scuola di partito”.
Dopo che Meluschi, già dal 9 settembre 1943, si era unito ai partigiani, Renata, a Bologna, cominciò ad aiutare gli sbandati dell’esercito per poi partecipare, a sua volta, alla Resistenza, prima in Romagna e poi nelle valli di Comacchio, tenendo con sé il figlio adottivo Agostino, detto “Bu”, di soli sette anni.
La Resistenza fu “la cosa più importante nelle azioni della vita” della Viganò che da essa trasse la materia del suo capolavoro L’Agnese va a morire. Terminato nel 1949, fu spedito ad Einaudi e dato da leggere a Natalia Ginzburg che ne fu entusiasta e ne caldeggiò la pubblicazione. Valse alla sua autrice il premio Viareggio e un successo che dura nel tempo.
“Il personaggio dell’Agnese non è uno solo… L’Agnese è la sintesi, la rappresentazione di tutte le donne che sono partite da una loro semplice chiusa vita di lavoro duro… per trovarsi nella folla che ha costruito la strada della libertà.”
Renata si ispirò alla Resistenza per altre due opere: Donne nella Resistenza, scritto nel 1955 e Matrimonio in brigata, scritto nel 1976.
La Viganò aveva avuto il proprio esordio narrativo nel 1933 con Il lume spento. Dopo L’Agnese, la sua attenzione per le donne del popolo le fece scrivere Mondine nel 1952 e, dieci anni dopo, un bel romanzo Una storia di ragazze, che segue le vicende diverse e dolorose di ragazze di differente estrazione sociale ma egualmente “sopraffatte” dal mondo maschile. Nel piccolo appartamento di via Mascarella 63/2 Renata e Antonio Meluschi continuarono a vivere e ad accogliervi i molti amici artisti, scrittori, poeti, impegnandosi in discussioni e progetti culturali.
Renata morì a Bologna il 23 aprile del 1976, senza riuscire a vedere la trasposizione cinematografica della sua Agnese nel film di Giuliano Montaldo.
Bologna le ha dedicato un giardino con un piccolo monumento nel quartiere Savena. Il comune di S. Lazzaro le ha intitolato una strada come il comune di Pontecchio Marconi e la città di Ferrara. Una scuola elementare di Casalecchio di Reno porta il suo nome. Il Liceo “Galvani” le ha intitolato la sua sala insegnanti.
Nel 1923, dieci anni esatti dopo l’iscrizione di Renata Viganò, approdò al Galvani Alma Bevilacqua, anche lei in III ginnasio. Era un’adolescente molto infelice, il cui amatissimo padre, di professione veterinario, si era suicidato da poche settimane per una malattia nervosa che aveva colpito con intensità differente anche i suoi undici fratelli. La famiglia Bevilacqua era di Galliera, paese della bassa bolognese al confine con Ferrara. Alma vi era nata il 13 giugno 1910 e vi aveva frequentato la scuola elementare. Dopo due anni trascorsi a Desenzano sul Garda, nella vana speranza di un miglioramento della salute del padre, la ragazzina venne costretta dai parenti a trasferirsi con la madre a Bologna. Alma detestava i parenti, detestava la città, detestava la scuola che frequentava, insegnanti e compagni compresi.
“La scuola era un ex convento dalle aule-celle più buie della nostra casa e luride inoltre: muri sudici dal tempo del medioevo, ragnatele; del corpo insegnante si salvavano in due o tre. Davano del lei agli studenti, tra ragazzi e ragazze era pure rigoroso darsi del lei, classi miste, ragazze ben vestite, alcune belle o sofisticate. Io con la mia faccia larga e dura da provinciale, il cappotto da lutto grinzo tinto col super-iride, bollito in casa. Un mondo estraneo: odioso, come odiosi mi erano il greco e la “consecutio temporum”, a che mi sarebbero servite? Segretamente puntavo (casomai) su agraria o geologia; segretamente per ché avendole difese in casa degli zii, questi si erano scagliati tutti contro quelle materie da contadini, pfui, o da avventurieri; zio Angelo fece arringa sulla dignità e importanza di una laurea da professoressa, e alla peggio potevo studiare da farmacista, rende molto ecco……
Con mia madre tentai e ritentai di farmi passare al liceo scientifico, lei ebbe l’ingenuità di parlarne con gli zii e rifiutarono, la persuasero al no per quella scuolaccia nuova, pensate, ci sono iscritti perfino i figli del nostro uomo di fatica…
Strane pagelle portavo a casa, piene di tre e al massimo di cinque nelle materie umanistiche, un sette in matematica, la insegnava uno spilungone senza età, dicevano che fosse ingegnere, ma tossiva troppo per fare l’ingegnere; mi disse una volta: – Ti potevo dare, anzi dovevo darti otto, ma preside e … letterati si sono rifiutati e mi tocca ingoiare, zitta però… Oh, accidenti, dovevo darti del lei… Questo mondo di barbagianni. Dissi: – Fossero solo barbagianni vivi, gufi sapienti: ma sono morti, imbalsamati e pieni di tarme e pullini.”
A Bologna Alma ottenne la licenza liceale nel 1929 e poi la laurea in chimica nel 1933 con 108 su 110. L’anno dopo superò l’esame di abilitazione alla professione di chimico e conseguì il diploma in farmacia. Rimase come assistente volontaria a Geologia ma nel 1937, quando morì la madre, “una piccola vedova che con trecento lire al mese della pensione del babbo mi portò alla laurea”, decise di trasferirsi in Cadore, dove aveva trovato un posto di insegnante di scienze a Cortina nell’istituto privato “Antonelli”. Alma aveva conosciuto il Cadore, fino ad allora, durante le vacanze estive e le era apparso non solo un luogo di incomparabile bellezza naturalistica ma anche una terra in antitesi con quella della sua nascita: una terra dove la gente era più autentica, più sana, più forte e dove lei poteva mettere alla prova la sua audacia, il suo corpo e il suo spirito.
Alma fu maestra di sci, arrampicatrice, guida, in questo aiutata da un corpo piccolo, tozzo e muscoloso, che non le piaceva esteticamente ma che le consentiva di sfidare se stessa e la natura.
La passione per la scrittura la portò a pubblicare su giornali locali fascisti articoli di carattere scientifico. Alma era cresciuta in una scuola e in una università fasciste e, nonostante le riserve critiche della madre nei confronti del regime, non aveva sviluppato apparentemente nessuna forma dichiarata di ostilità, ma solo fastidio per certe imposizioni o per la retorica roboante e la rumorosità di certe manifestazioni. Ma con l’8 settembre 1943 maturò in lei la decisione di unirsi alle formazioni partigiane e diventò staffetta nella brigata “Pier Fortunato Calvi”, assumendo il nome di battaglia di Anna, che è quello con cui continuò ad essere chiamata in Cadore. Fu l’esperienza più intensa della sua vita ma anche quella che le portò via l’uomo amato, Severino Rizzardi, ucciso dai nazisti pochi giorni prima della fine della guerra.
Il racconto di quel tempo straordinario prese forma letteraria ne I giorni veri vent’anni dopo. Vent’anni di sedimentazione. Ha la forma di diario, ricavato dalle annotazioni che Anna scriveva allora su quaderni, recuperati a guerra finita. Va dall’autunno del 1942 all’aprile del 1945. Emoziona il lettore la tensione di quelle pagine asciutte ed essenziali, capaci di restituire nella loro “verità” uomini e donne, paesaggi e tempi, ma soprattutto valori morali che ispirano comportamenti, orientano scelte e giustificano sacrifici, compreso quello estremo.
“”I giorni veri” non è un romanzo anche se tale può sembrare. È un diario in cui fatti, luoghi e persone furono veri… Vorrei che dalla crudezza pulita della realtà uscisse una testimonianza e una moralità che molti miei contemporanei oggi o rinnegano o soffocano nell’adipe dei vari miracoli economici, che molti giovani non sanno.”
Così si esprimeva l’autrice nel 1963, quando il libro stava per uscire presso Mondadori. La sua forza e la sua bellezza non sono bastati a farlo diventare un “classico” della Resistenza. E’ stato ristampato nel 1998 da una casa editrice di Recco (GE) e avrà una ristampa nel 2012 per ISBN ed è questa una vera fortuna per il lettore.
La carriera di scrittrice di Giovanna aveva già conosciuto un importante successo nel 1954 con il romanzo I Brusaz, che ha come protagonista una straordinaria figura femminile, Sabina. L’opera, pubblicata da Mondadori nella collana “La Medusa degli Italiani”, le valse il premio Deledda, prestigioso nell’Italia di allora. Prestissimo erano cominciati i mutamenti di nome. Alma era diventata Alda, poi fu Anna e alfine Giovanna. Il cognome letterario fu Zangrandi. La notorietà le consentì collaborazioni con quotidiani e settimanali nazionali. Si era trasferita da Cortina a Borca di Cadore dove si costruì una casetta al limitare del bosco e dove ebbe come inseparabile compagno il fedele e vivace cane Attila.
“E la sua non fu vita di riposo, da cagnetto di lusso, nei suoi anni giovani mi seguiva felice in giri lunghissimi, anche in roccia facile talora, a nuoto nei laghi e nei fiumi, dietro ai miei sci d’inverno galleggiando sulla neve farinosa con una specie di “crawl” nonostante la mole di enorme lupo. Allegro, giocolone, mite con la gente amica della valle, riservatissimo e all’erta con i tipi sospetti… quanti traini e slitte di legno mi ha aiutata a trascinare! In anni in cui un’infermità mi bloccava le gambe tanto aiuto mi han dato nel superare erte salite tirandomi, aiutandomi col pettorale della slitta: aveva la forza di un cavallino.”
La carriera letteraria continuò con un nuovo romanzo di ambiente cadorino e con una protagonista femminile Orsola nelle stagioni (1959). Nonostante il male che l’aveva colpita, il morbo di Parkinson, e che le rendeva progressivamente più difficile la scrittura, l’autrice pubblicò nel 1966 Anni con Attila, una raccolta di sette straordinari racconti, di cui La sahariana, storia di una giacca che accompagna tutte le “stagioni” di Giovanna, si presenta come una vera e propria sceneggiatura della sua vita. Negli anni Settanta, uscirono una guida di Borca, Il diario di Chiara, ambientato nel 1848 trentino, Racconti partigiani e no e Gente alla Palua, una raccolta di racconti tra cui Il 47° cromosoma, preziosissimo per la ricostruzione di alcuni momenti della sua vita emiliana. Una sorta di prosecuzione dei Brusaz vide la luce molti anni dopo la morte dell’autrice e reca il titolo di Silenzio sotto l’erba (2010).
Gli ultimi anni di Anna furono tristissimi. La malattia le tolse l’autosufficienza. Il carattere le aveva sempre impedito di chiedere aiuto agli altri. Molti, del resto, erano morti, altri si erano dimenticati di lei. Chi la assistette e si preoccupò di assicurarle da vivere fu l’amico Arturo Fornasier, il giovane partigiano “Volpe” de I giorni veri, conosciuto nel 1944 in mezzo alle sventagliate di mitra di un rastrellamento nazista, a cui entrambi riuscirono a scampare.
Giovanna è morta il 20 gennaio del 1988 ed è sepolta, per sua volontà, accanto a suo padre e sua madre nel cimitero di San Vincenzo di Galliera nella tomba di famiglia dei Bevilacqua, ove riposano anche i nonni e gli zii. Per anni non c’è stata lapide a ricordarla fino a che il Comune di Galliera, fiero di averle dato i natali, non ha deciso di apporne una, che, da allora, viene onorata ogni anno, il 25 aprile, come omaggio alla partigiana e alla scrittrice.
Il “Galvani” le ha intitolato nel 2011 la propria aula magna.
Pagella di Renata Viganò, riferita alla V ginnasiale A, anno scolastico 1915-16.
Archivio storico del Liceo “Galvani”, Registro generale dei voti, Ginnasio, 1915-16
Renata Viganò con uno dei suoi gatti che può ricordare quello dell’Agnese
Pagella di Alma Bevilacqua relativa alla III liceale A, anno scolastico 1928-29. Archivio storico del Liceo “Galvani”, Registro generale dei voti, Liceo, 1928-29.
Giovanna Zangrandi con il fedele Attila sullo sfondo delle montagne del Cadore