Jo ti recuardi, Casarsa. Il tempo friulano di Pier Paolo Pasolini

Jo ti recuardi, Casarsa. Il tempo friulano di Pier Paolo Pasolini


Classe 2^ A (a.s. 2015/16)
 

Per quale motivo abbiamo deciso di occuparci del Pasolini friulano? Perché ci siamo sentiti tanto arditi da spingerci in questo viaggio verso l’ignoto Friuli? Perché significa studiare le origini di P.P. Pasolini, non solo cronologiche, e significa attingere un nucleo profondo da cui si dipanano l’esperienza e la produzione seguente. Una spiegazione del motivo per cui il percorso letterario del poeta è partito proprio dal Friuli ce la dà lui stesso, parlando di sé in terza persona nell’Introduzione alla Poesia dialettale del Novecento:Egli si trovava in presenza di una lingua da cui era distinto: un lingua non sua, ma materna, non sua, ma parlata da coloro che egli amava con dolcezza e violenza, torbidamente e candidamente: il suo regresso da una lingua all’altra – anteriore e infinitamente più pura – era un regresso lungo i gradi dell’essere […]. Ed ecco la rottura linguistica, il ritorno a una lingua più vicina al mondo”.

“Il friulano rappresenta dunque un ponte gettato verso un altro tempo, sopra un vuoto esistenziale”, come afferma Guido Santato.[1] In quanto estraneo alle impurità e agli automatismi della comunicazione quotidiana – quella del mondo bolognese in cui di fatto Pasolini viveva – e nella lontananza e nello scarto da essa, il linguaggio di Casarsa, vergine proprio perché mai scritto, poté trasfigurarsi nel poeta in deposito di suoni attoniti da origini del mondo, quando la parola combaciava con la cosa e con il cuore segreto  dell’essere, suoni capaci di favorire un vero innamoramento acustico o uno choc sensoriale anche ora che l’uomo era precipitato nel tempo storico.

Il friulano si colloca quindi in un punto dove il qui coincide con nessuna parte, in un altrove e in un altro tempo abitati da personaggi forniti di tratti archetipici e simbolici. Casarsa pertanto è il luogo dell’assoluto, “il luogo che sconvolge nella sua immobilità omnicomprensiva le categorie dell’interpretazione del tempo e dello spazio, dell’uomo e delle sue vicende…Essa è dunque la terra dove non valgono le consuete opposizioni morte-vita, luce-buio, parola-silenzio, passato presente”.[2] Questo soprattutto nella prima raccolta del 1942,  Poesie a Casarsa, sulle quali abbiamo in particolare accentrato l’attenzione.

È una realtà al di fuori dei confini temporali; il tempo, che pure non è fermo ma trascorre, non ha il potere di produrre alcun cambiamento, né nel paesaggio né nelle persone. È un tempo circolare che si ripete in eterno, mitico e metastorico: si tratta del tempo della natura, pausato dal ritmo di giorni, stagioni, vita e morte; il tutto rivissuto in una dimensione interiore segnata da emozioni e sentimenti[3]

Casarsa è il luogo dell’assoluto anche in termini strettamente spaziali: è la patria perduta, la terra sacra ed originaria. Davanti a Pasolini adolescente si schiude il mondo contadino offrendo l’incanto della sua arcaicità e purezza. Il paese materno viene idealizzato, come luogo mitico ed edenico. Nelle poesie il paese non ha in realtà una caratterizzazione specifica: è un paese-tipo, non ha niente di particolare se non il fatto di essere il me paìs. Spesso le immagini della vita casarsese si affastellano: il chiarore dell’estate, il giallo dei campi di granoturco, le rane e i grilli, il Tagliamento, ma anche le mosche sulla tavola unta, i copriletto bianchi che sanno di pulci morte, tutte cose che per Pasolini acquistano un significato profondo, visioni di rara bellezza. In tutta la raccolta di poesie friulane il suo paese è vivo solo di presenze animali o vegetali, e le uniche creature umane a cui è dato il privilegio di popolarlo sono donne e ragazzi.

Anche i personaggi sono dotati di tratti simbolici e archetipici. Tutte le figure femminili presenti sono in qualche modo madri. Non dimentichiamo che Pasolini colloca all’origine della poesia un eccesso di amore per la madre: “Oggi è venuta mia madre a trovarmi ed è partita da poco. Pensando a lei provo una dolorosa fitta d’amore; mi vuole troppo bene, ed anch’io. Sono poeta per lei.” [4] L’immagine della madre viene scissa in due aspetti opposti e complementari: da un lato c’è la madre “mari” (cioè adulta), dall’altro la madre “fruta” (cioè la madre-fanciulla). In entrambe queste accezioni è sempre posta in antitesi rispetto al poeta-figlio: quanto lei è luce e spontaneità, egli è buio e razionalità.

E il figlio che si nutre di questo affetto e di questo conforto si presenta come Narciso in una serie compatta di componimenti. L’immagine di Narciso diventa il luogo in cui la vita e la morte si incontrano e si riflettono in un gioco di specchi. Una suggestione che deriva da una lunga tradizione letteraria ripresa nel tardo ottocento, in cui questo personaggio, innamorato della bellezza assoluta, costituiva l’emblema del poeta ansioso di penetrare al di là delle apparenze. La sua natura è contradditoria, come si evince dalle numerose opposizioni semantiche. Narciso è “nero d’amore”: se l’amore è la condizione che lo connota, il colore nero indica  disperazione  e narcisismo, poiché rivela l’incapacità di uscire da sé e giungere agli altri: Pasolini rimane così imprigionato nell’amore assoluto verso la madre e in quello narcisistico verso di sé.

Come osserva Santato, l’azione di specchiarsi  elimina ogni distinzione tra passato e presente, rievocando  un passato continuamente rivissuto nelle forme del presente: vivere diventa pertanto sempre un rivivere attraverso il ricordo che, come era stato per Leopardi, produce la riemersione delle immagini di una felicità perduta. “Il sentimento del tempo è pertanto sentimento della perdita, mentre l’andare avanti è un tornare indietro sotto il peso del rimpianto”.[5] Il sentimento della perdita si traduce poi nella percezione della morte, presente in ogni istante della vita. L’immagine della morte è non a caso un motivo conduttore in tutta l’opera di Pasolini. La poesia diventa pertanto esperienza anticipata della morte e scoperta di un altro senso dell’essere di cui Narciso, come osserva di nuovo Santato, è immagine mitica, che vi coniuga il tema della fanciullezza, in  un connubio tipico di Pasolini, non solo nella fase friulana. Così scrive il nostro autore  in una lettera del 1941 all’amico Luciano Serra: Vedo distinto e chiaro il colore della morte sopra ogni cosa che mi circonda […]. Queste poesie che invio […] forse hanno impressi, anch’esse, il colore della morte […]. Ieri sera […] mi è parso di toccare fisicamente la morte. Ogni volta che sento suonare a morto, e chiedo notizie di quel morto […] mi par impossibile non vedere tutta la vita da oltre il punto della morte, vederla già passata e compiuta […]: trovarsi al punto della morte, e non aver avuto ancora il tempo di chiudere perfettamente il periodo della fanciullezza”. Vale la pena di sottolineare che le campane sono un’altra delle presenze che popolano la campagna di Casarsa, come un fantasma di suoni che, secondo Bazzocchi, [6] emergono dal passato, da una sorta di tomba, ma che sono anche culla del futuro.

Soffermiamoci ora sulla dimensione propriamente sonora di questa poesia.

        Il nini muàrt

   Sera imbarlumida, tal fossàl

    a cres l’aga, na fèmina plena

    a ciamina pal ciamp.

   Jo ti recuardi, Narcís, ti vèvis il colòur

    da la sera, quand li ciampanis

    a súnin di muàrt.

“Jo ti recuardi, Narcis” delimita nel ricordo il perimetro della sonorità, caratterizzata dalla ricorrenza della ci palatale, che, insieme al suono sordo della s di Narcis e al verso tronco a fine delle terzine fa argine nei confronti dei suoni vocalici, soprattutto i dittonghi (recuardi, muart) che premono. Sono infatti i suoni vocalici, che si fondono frequentemente ai colori (“imbarlumida”, cioè luminosa in questo caso) a spingere in una direzione affabulatrice e fascinatrice.

E non è un caso che siano proprio i dittonghi a chiudersi nel rifacimento di questa poesia ne La nuova gioventù, del 1975, al termine della parabola intellettuale e umana del poeta. Se nel testo originario si osserva la presenza di quattro dittonghi formati da vocale chiusa più aperta a fronte di solo uno formato all’inverso da aperta più chiusa, nel rifacimento  del 1975 il rapporto si inverte: si riducono a due quelli formati da vocale chiusa più aperta, mentre crescono a tre quelli che terminano per vocale chiusa.  Il senso di questo passaggio è evidente.

“Ho sempre avuto un atteggiamento sinceramente ostile al colonialismo angloamericano. Non nego d’essere stato anche io soggiogato da quella cultura, gli americani soprattutto fanno bella musica, ma noi abbiamo mezzi differenti, differenti radici. Alla loro perfezione tecnica abbiamo da contrapporre la melodia, ma c’è il pericolo che Creuza de Ma non venga recepito come deve, forse è prematuro. […] La musica dovrebbe essere un fatto catartico, ma quella di oggi è solo anfetaminica, snervante” (Fabrizio De André).[7]

In queste parole si riscontrano due concetti comuni alla sensibilità di Pasolini: radici, catarsi.

Quello che Pasolini definisce un percorso all’indietro lungo i gradi dell’essere, regresso ad un idioma purificato, è simile all’operazione musicale del cantautore; egli dice di salire in soffitta e riesumare gli strumenti impolverati che producono la musica di cui è in cerca. Questa soffitta è la musica mediterranea. Entrambi gli artisti sono in cerca di una “cripta” che sprigioni una cultura e la svincoli dalle forze esterne omologatrici. (La lingua aziendale in Pasolini; il retaggio americano in De Andrè)[8]. Il cantautore propone dapprima una lingua artificiosa, creativa: un finto arabo infiltrato dalle sonorità provenienti da tutta l’estensione del bacino mediterraneo. Questa sintesi avrebbe avuto molto a che vedere con un esperimento linguistico di Pasolini ritrovato in un quadernino di poesie; Hosas de lenguas romanas. Un prodotto da laboratorio: in lingua neolatina ideale un riassunto dell’essenza romanza, costituito da una base spagnola e innesti provenzali, italiani, friulani. L’ambizione del poeta è ridisegnare i tratti di una regione ideale, la Ladinia, che dalla Svizzera s’allarga fino al Friuli. Come tramite l’esperienza di una comune espressione poetica. Tuttavia per l’album musicale l’arabo è glissato e si tratteggia il Mediterraneo sul suono del genovese arcaico: non più miscellanea di un’identità ma simbolo compiuto di quest’identità, con un vocabolario di 1500 termini persiani, turchi, arabi.

Laddove il cantautore preleva, un genovese arcaico, impopolare, il  poeta riesuma il friulano, timorosi ambedue che il dettame della cultura dominante saboti dell’esterno la ricezione della bellezza al di là dell’ esperimento.

E’ comune l’approccio al popolo: gramsciano, lontano dagli svisamenti. L’occhio dell’artista non filtra il suono ma lo produce. I suoni della vita di piazza scandiscono il tempo fantasmagorico delle Poesie a Casarsa e l’album a sfondo ligure con una funzione simile: da un lato precipitano nella realtà del luogo e lo abitano, dall’altro assolutizzano la poesia e la svuotano (il tempo rimane scandito da una liturgia sottesa: quella popolare). Sul finale di Creuza de Ma è inserita una registrazione, che comprende una certa Caterina, definita da De André una cantante in re maggiore senza saperlo, in piazza Cavour, a Genova, al mercato del pesce. Questa sonorità popolaresca ha la funzione delle campane a messa la domenica in A dumènega, le stesse campane che nel Ninì Muart suonano a morto.

Ma, oltre a questo, il friulano di Pasolini fa musica da sé, al di là degli “avvenimenti sonori” che riproduce, e “[…]subito si stacca dalla prosa per le sue infantili possibilità di risonanza nel cuore […]” (Caproni, Pasolini)[9]


[1] G. Santato, Pier Paolo Pasolini. L’opera poetica, narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica. Ricostruzione critica, Carocci, Roma 2012

[2] A. Arveda, commento a P.P. Pasolini,  La meglio gioventù,  Salerno Roma 1998

[3]  G. Santato, op. cit.

[4] da una lettera di Pasolini,  citata in  Pier Paolo Pasolini. L’opera poetica, narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica. Ricostruzione critica, cit.

[5] G. Santato, op.cit.

[6] M.A. Bazzocchi, Pasolini e il fantasma della vocalità, in: Pasolini e la poesia dialettale, Marsilio, Venezia 2014, pp. 19 – 28

[7]Walter Pistarini, Il libro del mondo, Fabrizio de André, Giunti Firenze 2010

[8] M.A. Bazzocchi, op. cit.

[9] in La meglio gioventù con commento di Antonia Arveda

Bibliografia:

Pasolini P.P. (1954), La meglio gioventù, Sansoni, Firenze.

Pasolini P.P. (1998, a cura di Arveda A.), La meglio gioventù, Salerno, Roma.

Pasolini P.P. (16 settembre 1941), Lettera a Luciano Serra.

Pasolini P.P. (19 giugno 1943), Lettera a Farolfi, primavera 1943

Bazzocchi M.A. (1998), Pier Paolo Pasolini, Mondadori, Milano.

Bazzocchi M.A., Pasolini e il fantasma della vocalità, in: Pasolini e la poesia dialettale, Marsilio, Venezia 2014, pp. 19 – 28

Borghello G. (1986), Aspetti della linea Pascoli-Pasolini, Mursia Milano

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De Cilia N., Bisogna essere assolutamente moderni? Il tempo del mito e il tempo della storia in «poesie a Casarsa», in Pasolini e la poesia dialettale, Marsilio, Venezia 2014

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Pistarini W. (2010), Il libro del mondo, Fabrizio de André, Giunti Firenze.

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Santato G. (2012), Pier Paolo Pasolini. L’opera poetica, narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica. Ricostruzione critica, Carocci, Roma.

Voza P., Dalla «meglio gioventù» alla «nuova gioventù»: dall’eden friulano alla «crisi cosmica», in  

Pasolini e la poesia dialettale, Marsilio, Venezia 2014

Sitografia:

Centro studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa: http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it

Enciclopedia Treccani online: http://www.treccani.it/enciclopedia/

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