Il mondo fuori. Sessantotto e dintorni al Liceo Galvani.
(I parte)
Articolo della Prof.ssa Verena Gasperotti pubblicato nei Quaderni di cultura del Galvani, anno 24, nr. 2, 2019 (prima parte) e nel nr. doppio anno 25-26, nr. 1-2, 2021-22.
Verena Gasperotti
Premessa
Qualunque tentativo di analisi e ricostruzione lineare del movimento del ’68 è destinato a scontrarsi in primis con la difficoltà di mettere a fuoco in modo univoco un oggetto di indagine che, non solo per la valenza più evocativa che definitoria della sua denominazione, appare per sua stessa natura fluido e sfuggente. La ricchezza di categorie interpretative, non sempre robuste e persuasive, offerte da una bibliografia che si è notevolmente arricchita negli ultimi anni, in particolare in concomitanza con il cinquantesimo anniversario dell’«anno degli studenti», non consente di superare il problema: che si sia trattato di un movimento generazionale rivelatore dei conflitti generati dal passaggio da cultura della scarsità a cultura dell’abbondanza, una più pulsionale e transitoria rivolta edipica, oppure una ribellione morale contro l’autorità potente ma priva di credibilità delle istituzioni occidentali, volta a smascherarne la falsa coscienza, il movimento sembra comunque portare su di sé la cifra dello sconfinamento, del tentativo di abbattere quelle barriere che rappresentavano gli assi portanti della fase storica contro cui si scaglia: barriere territoriali, di classe, di genere, di razza. E’ possibile così parlare di un lungo Sessantotto, che si dilata nel tempo e non si lascia delimitare a un singolo anno, e di un Sessantotto policentrico, che dilaga nello spazio con un sincronismo la cui spiegazione costituisce tutt’ora una sfida storiografica aperta.[1]
Ricostruire la storia del Liceo Galvani nei tardi anni Sessanta, circoscrivendo quindi un luogo e una finestra temporale definita, può costituire un vantaggio e nel contempo un limite: un vantaggio dal momento che è possibile occuparsi di un segmento definito nel magma di complesse dinamiche e vicende di quel periodo storico, un limite in quanto viene sacrificata l’ampiezza dello sguardo che un oggetto di studio così imponente sembra imporre. Di certo si tratta di un punto di vista che ci consente, molto semplicemente, di comprendere se e come l’onda d’urto del mare magnum sessantottino abbia dato quantomeno una spallata al portone del liceo considerato la roccaforte della tradizione classica e il riferimento ineludibile della borghesia bolognese. Insediato nella cinquecentesca insula gesuitica, a sua volta collocata entro il perimetro degli indirizzi eccellenti della città felsinea, il liceo era reduce dalla compiaciuta celebrazione del centenario, officiata sotto la guida del preside Angelo Campanelli, e non sembrava del tutto pronto ad affrontare le vicende che scompaginarono la liturgia di una quotidianità scolastica che da decenni sembrava rappresentare una sorta di permanenza impermeabile al mutamento: qualunque cosa accada, “Gallia est omnis divisa in partes tres”.
Tra laconici mezzi avvertimenti (“Al Galvani nel ’68 non è accaduto nulla”) e nella consapevolezza della tensione quasi ossimorica implicita nell’immagine di un Galvani “barricadero”, la ricerca è cominciata con la consultazione dei materiali presenti nell’archivio storico del liceo (verbali delle riunioni dei professori e del collegio di presidenza, oltre alla corrispondenza riservata) e negli archivi cittadini (in particolare i volantini e i giornali dell’epoca). E’ così che sono tornate alla luce le tracce delle lunghe rivendicazioni studentesche, oltre a una vicenda da molti dimenticata che ha rappresentato per diversi aspetti il cuore delle proteste dell’anno 1968 al liceo Galvani: l’allontanamento dell’insegnante di religione padre Franchini per le sue idee troppo “moderne” e la reazione dei suoi giovani allievi. La ricerca ha raggiunto dimensioni tali da richiedere una suddivisione dell’articolo in due parti: nella prima parte, qui pubblicata, verrà coperto il periodo che dal 1967 conduce all’autunno del 1968. Nella seconda parte si prenderà in esame in particolare il 1969, proponendo alcune riflessioni complessive su quanto emerso.
La disponibilità di fonti scritte, talvolta anche piuttosto verbose, non consente di compensare l’assenza di fonti che restituiscano una componente vitale di quegli anni, ovvero la dialettica, tutta orale, delle assemblee e dei gruppi di studio, oltre alle dinamiche delle relazioni interpersonali quotidiane, che assunsero una rilevanza esistenziale e politica probabilmente senza precedenti. Non sarebbe dunque stato possibile contestualizzare, integrare e collocare in un qualche orizzonte di senso gli elementi raccolti nel corso della ricerca in archivio senza gli incontri con alcuni protagonisti delle vicende di allora. Le loro testimonianze sono state particolarmente interessanti anche per la peculiarità del fenomeno preso in esame, arrivando spesso ad assumere il senso della rievocazione di un vissuto che ha determinato un destino personale. Resta inteso, onde fugare un equivoco oggi pervasivo che tende a equiparare storia e memoria, che la ricostruzione storica qui proposta è comunque il frutto di un’analisi e confronto di tutte le fonti disponibili, anche alla luce delle significative discrepanze tra le memorie individuali raccolte.
Sono infinitamente grata per la loro generosa disponibilità agli ex studenti del liceo Galvani che hanno accettato di rievocare con me quegli anni al liceo Galvani e un segmento della loro storia: Nicola Baldini, Stefano Bonaga, Mauria Bergonzini, Giuliano Berti Arnoaldi Veli, Francesco Bottino, Stefano Cammelli, Silvia Evangelisti, Stefano Falqui Massidda, Gianpiero Ghini, Giorgio Graffi, Alberto Guenzi, Paolo Isola, Giorgio Orlandi, Doda Pancaldi, Enrico Petazzoni, Patrizia Pulga, Riccardo Rossi, Sandra Soster – il loro contributo è molto più significativo di quanto non possa apparire nello spazio limitato di un articolo. Sarebbe stato difficile venire a capo di certi snodi senza le conversazioni con Enrico Petazzoni e il prezioso archivio personale di Giuliano Berti Arnoaldi Veli.[2] Sono riconoscente anche all’unico ex studente da me interpellato che ha preferito non ricordare quegli anni, da lui giudicati esiziali per la scuola e la società italiana, perché il suo silenzio non indifferente mi ha resa ancora più consapevole di quanto sia intricata la matassa di fatti, ragioni ed emozioni che ho solo cominciato a dipanare. Ringrazio per la gentilezza e la professionalità il personale dell’Istituto Parri, dell’Istituto Gramsci e dell’Archiginnasio.
Devo infine un ringraziamento particolare a Padre Enzo Franchini, che a 89 anni, pur con la vista offuscata, sa vedere tanto lontano e in profondità.
1 La quiete prima della tempesta: il Liceo Galvani negli anni Sessanta
Il liceo Galvani negli anni Sessanta si presentava come una scuola rigidamente tradizionalista improntata, quanto meno nelle intenzioni dei docenti e del preside, a una rigorosa disciplina. La lettura dei verbali dei collegi dei professori ci consente di rintracciare ripetuti riferimenti al controllo quasi ossessivo degli studenti. Il preside Umberto Marcelli, subentrato ad Angelo Campanelli proprio con l’avvio dell’anno scolastico 1967/68, si dilunga sulla questione in particolare nel corso del collegio del 20 novembre del 1967, in cui precisa la scansione oraria dell’ingresso (in tempi separati) di alunne e alunni e prosegue toccando anche altri aspetti:[3]
Le alunne nell’interno della scuola debbono indossare un grembiule nero. Durante la lezione di Educazione Fisica gli alunni e le alunne debbono indossare la divisa regolamentare. Tra le 7.45 e le 8 gli alunni dovranno soffermarsi nei corridoi il minimo tempo possibile, entrando al più presto disciplinatamente nelle rispettive aule e trattenendovisi. Al suono di inizio delle lezioni (ore 8) ogni alunno dovrà trovarsi al proprio posto. Il capoclasse sarà responsabile della disciplina, e dovrà comunicare all’insegnante presente in aula ogni eventuale fatto che possa turbare il regolare andamento delle lezioni. Gli alunni dovranno di regola rimanere nelle rispettive aule: potranno uscire da esse solo con l’autorizzazione degli insegnanti; a fine ora, non dovranno uscire dalle aule. Ore 10.55-11.05: INTERVALLO: le alunne restano nelle aule; gli alunni possono recarsi nei corridoi. Nessuno potrà allontanarsi dal piano in cui si trova la propria aula. […] Non è consentito l’ingresso nella scuola dopo l’inizio delle lezioni. Gli eventuali ritardatari saranno trattenuti fuori dalle aule, in un locale indicato dalla Presidenza, fino alla fine delle lezioni.[4]
Tali disposizioni sono ben vive nelle memorie delle alunne e degli alunni della seconda metà degli anni Sessanta, che tendono a convergere nel caratterizzare l’atmosfera del Galvani come piuttosto claustrofobica, impermeabile ai cambiamenti e agli stimoli che provenivano dal mondo esterno. Negli anni in cui si stava diffondendo una nuova moda giovanile che costituiva un vettore identitario generazionale significativo, alcuni ricordano in particolare la rigidità del dress code come una costrizione insopportabile: se i liceali di sesso maschile potevano presentarsi senza giacca (obbligatoria fino ai primi anni Sessanta), ma dovevano comunque indossare camicia e pantaloni lunghi (sostanzialmente gli stessi capi dei loro padri), più severi erano i vincoli per le ragazze, che dovevano portare gonne castigate rigorosamente sotto il grembiule nero; erano loro vietati i pantaloni, le minigonne e naturalmente il trucco. Tutti ricordano il preside Campanelli che controllava all’ingresso il rispetto delle regole del decoro, ribadite poi dal preside Marcelli. Una studentessa ricorda:
In 2a liceo (anno 1967/68) la professoressa di Scienze, molto brava ma rigidissima, mi mandò dal preside perché avevo gli occhi truccati. Il preside mi prese, mi portò nel bagno delle femmine e con il suo dito mi strofinò a lungo con l’acqua fredda il trucco che non veniva via: mi ricordo ancora il suo dito tozzo e il suo alito pesante come una violenza intollerabile. […] mi montava una rabbia verso chi mi opprimeva, verso chi voleva dire la sua sul MIO corpo e su cosa ne facevo; proprio in quel periodo era stata sospesa una ragazza con il grembiule aperto che non nascondeva la sua minigonna.[5]
Nel corso dell’anno scolastico 1968/69, un segno in apparenza solo esteriore di ribellione alle regole sarà per le ragazze proprio il rifiuto del grembiule (che alcune cominceranno a portare sistematicamente sbottonato o ad abbandonare) e l’utilizzo di capi riconducibili alla moda giovanile, in particolare minigonne e pantaloni, come risulta evidentissimo dal confronto della foto della classe terza F nel 1969 rispetto alla foto della stessa classe nell’anno precedente.[6]
L’ossessivo controllo del decoro degli studenti delinea una singolare continuità con l’abitudine del preside Ezio Chiorboli, che negli anni Trenta vigilava sulla porta principale l’ingresso degli studenti e delle studentesse, rispedendo a casa quelle che si fossero presentate truccate o troppo svestite e quelli che non fossero ben pettinati né eleganti a sufficienza.[7] Non si tratta dell’unico retaggio che suggerisce come il Galvani non avesse ancora fatto del tutto i conti con il suo passato fascista, optando per una forma di rimozione:[8] il 26 novembre del 1967 un alunno licenziato nel 1957 scrisse al preside Marcelli per segnalare che gli statuti dei premi che il liceo distribuiva annualmente agli studenti meritevoli risalivano al regime fascista, fornendo alcuni esempi: il premio Vittorio Capponi veniva assegnato a un alunno “di sesso maschile, di nazionalità italiana, di religione cattolica”; il premio “Maria Annunziata Sorbelli” specificava che perché un’alunna potesse essere designata vincitrice era necessario che fosse di razza ariana e appartenesse alla religione cattolica, e così via. L’autore della lettera sottolineava la pesante discriminazione non consona ai principi di uno stato e di una scuola laici: “Nessuno, mi pare, può non sentire l’infamia di questa distinzione, che è fondata, oltre tutto, su una categoria tipicamente fascista e nazista, priva di ogni base scientifica, come quella di “razza ariana”. […] Purtroppo, la conservazione degli statuti elencati sembra indicare che le tracce di una certa mentalità non sono state ancora definitivamente cancellate. Io che scrivo ho tardato a rendermi conto dell’esistenza di questi fatto al Liceo “Galvani” e lo riconosco con dispiacere.” Dopo avere espresso sconcerto per il fatto che docenti del Liceo non avessero già provveduto a modificare gli statuti, l’autore della lettera chiedeva di provvedere e di comunicarlo pubblicamente alla prima occasione.[9]
Il preside aveva risposto con sollecitudine il 28 novembre 1967 ai “giustificati rilievi” su “certe particolarità” degli statuti spiegando che la questione era stata fatta presente dal consiglio di amministrazione della cassa scolastica al suo insediamento. Si impegnava a provvedere e garantiva che comunque quelle disposizioni confessionali e razziali non erano state prese in considerazione nell’assegnazione dei premi. La seppur apprezzabile solerzia del preside non sembra tuttavia cogliere la gravità della questione di principio sollevata, considerato l’implicito ridimensionamento delle discriminazioni contenute negli statuti, derubricate a semplici “particolarità”. Forse la moderata sensibilità alla questione può spiegare perché fosse possibile che un’insegnante del liceo apostrofasse abitualmente le alunne con epiteti che variavano da “bimba nera”, a “nerissima, “Abissina”, “Vietnamita”, “Congolese” e via dicendo, come ricorda una ex allieva, la quale sottolinea anche il classismo del liceo, definito da qualcun altro come “piuttosto primitivo e provinciale”.[10]
E’ sufficiente un rapido sguardo ai registri dei voti, dove viene riportata la professione del padre degli alunni, per trovare conferma del fatto che il profilo socio-economico dell’utenza media del liceo Galvani negli anni Sessanta, come peraltro nei decenni precedenti, corrispondeva a quella che era la percezione diffusa all’epoca e confermata dai ricordi degli ex studenti, ovvero che si trattasse di un liceo “ben frequentato”, meta dei figli della media e alta borghesia bolognese e fucina della futura classe dirigente, quindi sostanzialmente un veicolo di perpetuazione di privilegi, anziché di riscatto sociale. Era netta la prevalenza di figli di professionisti (in particolare avvocati, notai, medici e ingegneri), industriali, funzionari e docenti universitari. Tale composizione, tutto sommato omogenea, risultava particolarmente evidente nelle sezioni considerate più blasonate, dove costituivano invece un’eccezione gli studenti provenienti da strati sociali più svantaggiati. Il benessere era tangibile e frequentemente ostentato nell’abbigliamento, negli accessori, nelle automobili che attendevano gli alunni all’uscita, nelle feste. In alcuni casi il classismo strisciante era reso esplicito da parte di alcuni insegnanti: c’è chi ricorda nitidamente il primo appello della quarta ginnasio, quando alcuni docenti chiedevano agli studenti e alle studentesse la professione del padre e l’indirizzo di residenza, senza dissimulare lo sconcerto e la disapprovazione verso coloro che non appartenevano al giusto milieu o che provenivano dalle periferie; all’appello seguiva la quasi rituale preconizzazione di una selezione che avrebbe opportunamente “scremato” la classe – un esempio paradigmatico di profezia che si autoavvera.[11]
La severità degli insegnanti era diventata un problema anche per il preside Marcelli, che doveva spesso ricordare ai docenti come la riforma del 1962, che aveva dato avvio alla scuola media unica e a un importante processo di democratizzazione della scuola, imponesse una revisione dell’approccio didattico ginnasiale rimasto fermo al modello precedente. Nel collegio del 9 novembre 1968 il preside aveva ricordato le norme suggerite dalle circolari ministeriali riguardo i metodi di insegnamento e di valutazione da tenere con gli alunni della scuola media e aveva raccomandato “di tener sempre presente la formazione diversa ricevuta dagli alunni stessi da una scuola concepita e ordinata con altre finalità rispetto a quelle di un tempo”. Alla fine di questa stessa seduta il preside esortava anche ad “astenersi, almeno nel periodo iniziale dell’anno scolastico, dall’assegnare voti troppo deprimenti agli alunni della IV ginnasio perché trattandosi di ragazzi provenienti dalla scuola dell’obbligo sono abituati a criteri di valutazione più larghi di quelli adottati nelle scuole inferiori”.[12]
Sebbene molti ex alunni e alunne ricordino la severità arcigna e il nozionismo sterile di alcuni docenti, lo spazio prevalente nella loro rievocazione è comunque occupato dalle figure di straordinari professori e professoresse che ebbero modo di incontrare tra le mura di via Castiglione, figure di raro spessore intellettuale e umano che hanno lasciato una traccia profonda e decisiva nella loro formazione. I nomi più ricorrenti sono quelli di Sergio Cammelli, Antonio Polloni, Angiolina Longhi, Giorgio Zoffoli, Silvio Paolucci, docenti che sembrano corrispondere alla descrizione pasoliniana di Maestro: “Intanto si capisce soltanto dopo chi è stato il vero maestro: quindi il senso di questa parola ha la sua sede nella memoria come ricostruzione intellettuale anche se non sempre razionale di una realtà comunque vissuta. Nel momento in cui un maestro è effettivamente e esistenzialmente un maestro, cioè prima di essere interpretato e ricordato come tale, non è dunque un maestro, nel senso reale di questa parola. Egli viene vissuto: e la conoscenza del suo valore è esistenziale”.[13]
I veri maestri sono per loro natura eccezioni. La percezione di molti studenti era che perlopiù gli insegnanti proseguissero routinariamente lungo i binari di una prassi didattica improntata alla lezione cattedratica (peraltro decantata dal preside Marcelli come forma per eccellenza di trasmissione del sapere) del tutto insensibile alle nuove domande e ai diversi bisogni dei discenti. Una prova dell’affiorare di questo tipo di consapevolezza è la richiesta avanzata al preside dagli alunni del corso F del liceo il 25 ottobre 1965: con toni rispettosi chiedevano che l’insegnante di religione, il cui “metodo di insegnamento è poco convincente per degli studenti di liceo” in quanto troppo nozionistico, fosse sostituito da un altro incaricato della scuola che” fa parte della vita degli studenti, partecipa a iniziative culturali, riflette sull’attualità e i rapporti tra genitori e figli”, adottando dunque “un metodo più moderno e indubbiamente più consono a rispondere ai desideri, alle aspirazioni e soprattutto alle NECESSITA’ e ai BISOGNI di noi giovani”. Da quelle necessità e quei bisogni inascoltati prendono avvio le vicende che andremo a ripercorrere.[14]
2. I fermenti del 1967
E’ inevitabile ora allargare lo sguardo e prendere in considerazione per un momento quanto accadeva in città, anche in relazione agli eventi nazionali e internazionali, prima di tornare ad occuparci nello specifico di quanto accadeva al Galvani. Uno dei primi terreni su cui i giovani del movimento rivendicarono il loro protagonismo è proprio la scuola: se la riforma della scuola media del 1962 aveva colmato quella che era stata percepita come una lacuna significativa del sistema scolastico italiano, la proposta di riforma avanzata nel 1965 dal ministro democristiano della pubblica istruzione Luigi Gui aveva destato accese polemiche e avviato un dibattito che aveva generato una più vasta riflessione critica sul ruolo della scuola e dell’università nelle società industriali avanzate. A Bologna i primi sommovimenti cominciarono a manifestarsi in ambito universitario, nel gennaio del 1967, con l’occupazione dell’istituto di Fisica “A. Righi”, l’occupazione dell’aula magna e il blocco dell’inaugurazione dell’anno accademico.
Anche gli studenti medi cominciarono ben presto a mobilitarsi e aderirono alla manifestazione del 31 gennaio in piazza Maggiore, dove era presente un gruppo di studenti del liceo Galvani, una delle quattro scuole aderenti al neonato comitato interstudentesco che, in seguito alla manifestazione del 31 gennaio, aveva convocato una riunione in sala Farnese:
Il Comitato interstudentesco (Aldini, Fermi, Galvani, Righi) allo scopo di chiarire i motivi delle agitazioni di questi giorni e dare un contributo al dibattito sulla riforma della scuola indice per venerdì 3 febbraio alle ore 16 presso la Sala Farnese una manifestazione allargata alla stampa. All’ordine del giorno:
La democrazia nella scuola
I problemi degli istituti tecnici
I problemi degli istituti professionali
I problemi dei licei e delle magistrali
Relatori: studenti dei vari istituti
Studenti del Fioravanti, Galvani, Itis, Righi, Fermi, Laura Bassi, Marconi, Minghetti, Aldini ecc. porteranno testimonianze delle realtà particolari di ciascuna scuola.
Intervenite!
Il Comitato interstudentesco[15]
Le cronache dei giornali locali diedero rilevo all’evento individuando la specificità delle rivendicazioni degli studenti medi: su Il Resto del Carlino se ne parlò in termini piuttosto generici sotto il titolo “Gli studenti discutono dei problemi della scuola”; nella cronaca locale de l’Unità del 4 febbraio 1967 al titolo più esteso (“Gli studenti medi vogliono concorrere al profondo rinnovamento della scuola”) corrispondeva un articolo più esaustivo, che riportava i nuclei più significativi degli interventi degli studenti:
La manifestazione alla Farnese, promossa dal Comitato interstudentesco, rappresentativo delle scolaresche dell’Aldini, del Galvani, del Righi e del Fermi, ha avuto lo scopo di chiarire all’opinione pubblica (per questa ragione gli studenti avevano invitato la stampa), i motivi dell’agitazione che già martedì si era manifestata alla città con un corteo di oltre tremila ragazzi per le vie del centro. C’è un punto importante da chiarire subito: l’azione intrapresa dagli studenti medi bolognesi ha sì anche il significato di solidarietà con gli universitari in lotta (“essi – è stato detto alla Farnese – combattono ad un livello diverso la nostra stessa battaglia” ) ma questa solidarietà non ha la forma di una sorta di appoggio esterno, è invece connaturata alla rivendicazione di misure rinnovatrici che gli studenti medi autonomamente avanzano per il loro grado di studi così come per tutta la scuola italiana, letteralmente “dalle elementari all’università”, giacché essi sono convinti che la riforma della scuola debba essere generale ed organica.
Nelle quattro relazioni presentate, gli studenti avevano affrontato il problema della democrazia nella scuola, per poi illustrare le problematiche specifiche dei diversi ordini di scuola (licei, tecnici, professionali e magistrali). Nel cercare di rendere conto del carattere “nuovo e sorprendente” del movimento degli studenti medi, l’articolo sottolineava che:
gli studenti sentono che la scuola è rimasta terribilmente indietro rispetto alla vita, all’insieme complesso e dinamico della vita produttiva, ma non di quella soltanto, bensì di tutta la vita collettiva del Paese. Lamentano dunque, e con quanta misura e quanta serietà, le insufficienze della scuola, di tutta la scuola, nel suo compito di preparare i giovani alle loro mansioni di produttori, siano esse quelle di operaio specializzato o di matematico o di professore di letteratura, ma le rimproverano con lo stesso vigore di essere incapace di preparare i giovani “a diventare cittadini politicamente coscienti”. Rifiutano quindi in partenza i miti dell’efficienza, le due culture (una per i privilegiati destinati a comandare, un’altra per i subordinati, votati ad eseguire), la soggezione di fronte all’esercizio democratico del potere. […] Di qui muove la loro rivendicazione della libertà di espressione degli studenti, attraverso i loro giornali e i loro organi rappresentativi. Non hanno prevenzioni né verso i partiti né verso la politica, anzi; si preoccupano solo di formare strumenti di democrazia nella quale tutti abbiano diritto ad essere se stessi e di agire liberamente nella ricerca e nella costruzione di scopi comuni, sulla base di un consenso costruito insieme.
E’ qui possibile cogliere la fisionomia dell’esordio del ’68 bolognese, che Andrea Rapini definisce come la fase spontaneista, dove manca in linea di massima il governo di un soggetto politico strutturato.[16] Un tema che già si profila e che diventerà centrale nello sviluppo del movimento, prendendo corpo in particolare nella forma della richiesta di assemblea, è quello della condivisione e del senso di comunità, della ricerca degli strumenti utili per concretizzare una Gemeinschaft studentesca promotrice di propri valori e vettori identitari. Victor Turner a questo proposito parla di una comunità liminale che fa perno sulla propria omogeneità, eguaglianza, anonimato, e che mantiene la propria coesione o proiettandosi nell’utopia o stabilendo una subcultura separata all’interno della società, il cui humus in questa fase è costituito dalla fruizione condivisa delle nuove forme di espressione artistiche (in vari ambiti, come quello musicale, teatrale, cinematografico), prima ancora che in ambito politico.[17]
Pur nella parzialità di un punto di vista giovanile, insistendo sul proprio carattere di comunità separata rispetto al mondo adulto, gli studenti avanzano istanze universali proponendosi come coscienza critica della società: “Questa generazione ha scoperto quello che il diciottesimo secolo aveva chiamato la “felicità pubblica”, il che vuol dire che quando l’uomo partecipa alla vita pubblica apre a se stesso una dimensione di esperienza umana che altrimenti gli rimane preclusa, e che in qualche modo rappresenta parte di una “felicità” completa”, osserva Hannah Arendt.[18] La scoperta della possibilità stessa dell’agire pubblico finalizzato alla costruzione di un mondo comune, alla condivisione di esperienze, sentimenti e problemi che sino ad allora erano confinati alla sfera individuale, prende corpo nella democrazia assembleare, significativa non tanto come sede di decisioni operative quanto appunto come “teatro”, luogo dove le idee e le persone potevano confrontarsi e costruirsi nella dialettica e nella relazione, anche attraverso dinamiche antagonistiche.[19]
E’ bene precisare che in questa fase gli studenti del Galvani più attivi nel nascente movimento erano comunque una minoranza rispetto al numero complessivo dei frequentanti, circa un migliaio: gli intervistati concordano nell’individuare orientativamente una ventina o trentina di studenti più assidui nella partecipazione a riunioni organizzate all’Università in fermento o alle manifestazioni che proseguiranno tutto l’anno in città, in particolare in relazione alle vicende internazionali. La primavera del 1967 fu infatti costellata di manifestazioni di studenti, ad esempio contro il colpo di stato dei colonnelli in Grecia e contro la guerra in Vietnam (dove si arrivò a scontri con la polizia e alcuni arresti di studenti), ma non mancò anche un momento di coesione identitaria legato al mondo musicale giovanile che stava rivoluzionando i canoni tradizionali: il 5 aprile i Rolling Stones tennero due concerti a Bologna al Palazzo dello Sport richiamando “studenti in maggior parte e, fra loro, in schiere compatte, pittoreschi capelloni, e ragazze adeguate alla moda dei compagni zazzeruti”.[20]
L’attenzione per le vicende internazionali evidenzia che gli studenti si sentivano portatori di una soggettività globale caratterizzata dal “sentire nel profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualsiasi parte del mondo” come osservava Che Guevara. E’ una sensibilità che ci fa comprendere in che senso il movimento sia portatore della cifra dello sconfinamento, rivelando una circolazione culturale e politica di cui pochi avevano colto la portata. Il nuovo punto di vista transnazionale appare inspiegabile se non si tiene conto dell’impatto delle comunicazioni di massa e della relativizzazione del radicamento territoriale prodotta anche, secondo Hannah Arendt, dall’era del satellite, che consente di vedere dall’esterno il pianeta: la terra dal di fuori appare unita, vincolata a un comune destino.[21] E’ così che il micorocosmo bolognese appare connesso al macrocosmo di Mao, di Fidel Castro, della Grecia, del Vietnam, del Messico. La complessità del movimento si rivela peraltro anche nella riscoperta di identità etniche e regionali, determinando la tensione concettuale tra la rivendicazione dell’uguaglianza tra tutti esseri umani e il riconoscimento delle diversità, contro l’omologazione dell’imperialismo americano alla radice di una cultura di massa esposta alle manipolazioni. Il respiro internazionale continuò a farsi sentire in autunno e sino alla fine del 1967 ad esempio con la marcia per la pace promossa da Danilo Dolci in novembre e quella contro il fascismo, dove venne esibita per la prima volta l’immagine di Che Guevara, ucciso il 9 ottobre in Bolivia, considerato vittima dell’imperialismo americano.
Intanto, la riflessione sulla scuola che si sviluppa nel corso dell’anno mette sempre più in evidenza il nesso tra sapere e potere e l’inscindibile relazione tra scuola e società. Una lettura capitale in questo percorso è naturalmente Lettera a una professoressa, pubblicato nel maggio del 1967, poche settimane prima della morte di don Milani.[22] Gli ex studenti del Galvani ricordano l’impatto di tale testo, che venne recensito da Giorgio Graffi nel numero de La Rana, il giornalino scolastico,dell’autunno del 1967. Il giornalino era sottoposto al controllo del preside e dei professori, come avremo modo di osservare in seguito, e frequentemente la censura interveniva per escludere articoli considerati inadatti (così come per sospendere iniziative culturali giudicate non consone, come ad esempio il tentativo di allestire uno spettacolo teatrale su un testo di Bertolt Brecht). Non sorprende quindi che si tratti di una recensione molto misurata che denota la maturità intellettuale del giovane autore, ma forse anche la consapevolezza di dover superare il vaglio censorio del preside.[23]
3. E ’68 fu: primi vagiti al Galvani
Il gruppo di studenti del Galvani che si stava attivando all’esterno del liceo cominciò a risultare particolarmente incisivo entro le mura del liceo nel gennaio del 1968, andando in primis a determinare la crisi dell’organismo di rappresentanza (OR) che era stato istituito quattro anni prima dal preside Campanelli e che era costituito da un coordinamento di rappresentanti delle classi il cui punto di riferimento indiscusso era Marco Biagi, uno degli studenti più brillanti del liceo.[24] Il suo orientamento liberale, incline a un cauto riformismo, gli aveva consentito un dialogo con la presidenza, ma anche con gli studenti “movimentisti” che avanzavano rivendicazioni più radicali. [25]
Vale la pena soffermarsi un momento per tentare di cogliere la fisionomia complessiva degli orientamenti degli studenti del Galvani. Pochissimi studenti evidenziavano una connotazione politica precisa, di destra o di sinistra che fosse, generalmente riconducibile all’ambiente familiare; la maggioranza era costituita da giovani che non avevano ancora maturato una consapevolezza politica, tra i quali spiccava un gruppo attento alle questioni sociali e all’attualità, in moltissimi casi in virtù di esperienze in organizzazioni cattoliche o parrocchie dove si respirava una sensibilità postconciliare. Il richiamo al cattolicesimo postconciliare risulterà illuminante anche nel valutare le vicende dell’autunno del 1968 al Galvani, ma ci consente sin d’ora di evidenziare che molti degli studenti più attivi nel movimento, definiti dal preside “estremisti” o “di chiare tendenze politiche”, in realtà non lo erano affatto, quanto meno in quella fase. Lo stesso Enrico Petazzoni, considerato da molti come il capo carismatico del movimento, era entrato in contatto con certe tematiche e letture nell’ambiente degli scout di San Domenico, dove si ragionava su don Milani come su Marcuse.[26] E’ quindi possibile cogliere una matrice cattolica piuttosto significativa nel movimentismo del liceo, come d’altra parte nel movimento a livello nazionale.[27]
Alla luce delle rivendicazioni del movimento che rendevano obsoleto il tradizionale concetto di rappresentanza a favore di forme di partecipazione e democrazia diretta, l’OR del Galvani entrò inevitabilmente in crisi e venne avviato un momento di confronto il 14 gennaio 1968:
La giunta dell’O.R., al suo quarto anno di attività, conscia della insufficienza di rapporti diretti tra rappresentanti di classe e studenti, ha deciso di invitare tutti i giovani interessati ad una riunione nella quale saranno discussi I PROBLEMI PIU’ URGENTI E GRAVI avvertiti dagli studenti del liceo Galvani nella loro vita all’interno dell’Istituto. Questa riunione, mediante una discussione IL PIU’ POSSIBILE LIBERA E APERTA, tenderebbe a dare a tutti gli studenti la possibilità di fare presenti le proprie esigenze all’autorità scolastica. Inoltre gli studenti saranno invitati in tale sede a indicare i loro eventuali desideri nei vari campi in cui l’O.R. svolge la propria attività. In questa riunione i vari capo-gruppo presenteranno dettagliatamente LE MANIFESTAZIONI CHE STANNO ORGANIZZANDO. In relazione a quanto sopra, saranno discussi anche problemi di grande urgenza (come, ad esempio, l’assoluto bisogno di PALESTRE che possono almeno un poco soddisfare le esigenze sportive dei giovani, l’enorme disagio delle cosiddette “CLASSI VAGANTI” perché situate in aule speciali, e le difficoltà che s’incontrano quando si vuole usufruire efficacemente delle aule speciali stesse; la necessità che un MEDICO sia presente almeno qualche ora al giorno nell’ambulatorio dell’istituto; l’utilità di installare nell’edificio scolastico UN DISTRIBUTORE AUTOMATICO DI PANINI E BIBITE). Questi e molti altri problemi potranno venire discussi; e forse si potrà ottenere qualche risultato; bisogna però che, per giungere a questo, gli studenti partecipino il più possibile numerosi. Siete dunque invitati tutti a questa riunione che non sarà né “un consiglio allargato” né qualche altra assemblea di sapore burocratico, bensì un modo per collaborare TUTTI INSIEME perché l’O.R. dia qualche concreto frutto. Vorremmo che questa adunanza fosse una specie di “referendum” a scambio di opinioni anziché a schede, il più proficuo possibile. La Giunta, da parte sua, si impegna inoltre a far presente all’autorità scolastica i desideri degli studenti e a sostenerli davanti ad essa. Contando sulla vostra partecipazione, vi diamo il nostro arrivederci. L’O.R.
LA RIUNIONE SI TERRA’ AL GALVANI ALLE ORE 15 DEL GIORNO 14 GENNAIO.[28]
Colpisce immediatamente il carattere pragmatico e circoscritto delle rivendicazioni, rispetto al respiro dei discorsi tenuti in sala Farnese poco meno di un anno prima e nei mesi successivi nelle varie assemblee e manifestazioni cittadine. E’ possibile ipotizzare che il testo fosse stato sottoposto a una forma di autocensura per ottenere l’approvazione del preside, rendendo dunque necessario individuare un ordine del giorno inoffensivo che non suscitasse opposizione da parte sua suggerendo collegamenti al movimento studentesco. Un’altra ipotesi è che, in considerazione dello scarso coinvolgimento diretto degli studenti nelle rivendicazioni studentesche che infiammavano riunioni ed assemblee fuori dalla scuola, si tentasse la strada di una comunicazione più concreta e declinata sui problemi specifici del Galvani.
Parallelamente, ferveva il confronto con altri licei cittadini promosso dal nucleo del Galvani e Il terreno di riflessione appariva ben diverso: il 5 marzo 1968 si tenne una riunione di studenti liceali al Circolo Pavese al Pratello, pubblicizzata con un lungo e articolato ciclostilato di cui riporto l’incipit:[29]
STUDENTI LICEALI!
Il ministro Gui e il governo di centro sinistra ci stanno ingannando! La nostra proposta di riforma riconferma ed accentua il carattere di classe della scuola italiana, per due motivi:
1)Perché riescono ad accedere ai più alti gradi dell’istruzione solo gli studenti provenienti dalle classi privilegiate.
2)Perché il fine ultimo dell’insegnamento è organizzare il consenso per la società attuale e il tipo di rapporti sociali che in essa si sviluppano.
Gli attuali licei sono caratterizzati dall’impostazione “astratta e disinteressata” dell’istruzione umanistica considerata come un privilegio, un puro e semplice “ponte” per il passaggio agli studi universitari. […] Il liceo è rimasto così il tradizionale canale di formazione della borghesia intellettuale, parassitaria, la cui cultura assicuri continuità all’egemonia della classe dominante. […]
Tutti invitati al Circolo Pavese il 5 marzo
COMITATO PROVVISORIO DELL’UNIONE STUDENTI MEDI – NUCLEO DEL GALVANI[30]
Si coglie con evidenza l’allargarsi della riflessione sulla scuola alla sfera sociale, alla luce di strumenti forniti dal marxismo e dalla scuola di Francoforte. Andrea Rapini osserva infatti che a Bologna nella primavera del ’68 si assiste a una radicalizzazione del movimento che pone al centro del dibattito la correlazione tra il sistema formativo superiore e universitario e il contesto sociale: la scuola non viene colta nella sua funzione di formazione, ma come una istituzione burocratico repressiva, una fabbrica selettiva di diplomati e futuri laureati destinati alla proletarizzazione. La critica della società e della scuola che ne è espressione si accompagna alla convinzione che l’istruzione, veicolo del condizionamento, possa anche rivelarsi il medium della possibile emancipazione dell’individuo dalla falsa coscienza, dall’indottrinamento continuo a cui lo studente è sottoposto, costretto in un ruolo puramente passivo e recettivo, in una forma di violenza tanto più ingiusta quanto più mascherata sotto le spoglie dell’esigenza di apprendimento.[31]
La discrepanza tra le caute e pragmatiche richieste dell’OR e l’ambizione del movimento ad aprirsi a questioni di più ampia portata rese inevitabile un nuovo confronto. Dopo l’incontro al Pratello e alla luce delle resistenze opposte dal preside alle rivendicazioni avanzate, si arrivò alla convocazione di una riunione degli studenti del Galvani per l’11 marzo:
Nella riunione che si è tenuta Martedì 5/3/’68 al Circolo Pavese, il Comitato Provvisorio dell’Unione Studenti Medi di Bologna, oltre a discutere le misure atte al suo rafforzamento, ha preso in esame, dietro unanime richiesta dei partecipanti, i fatti incresciosi che si sono verificati in questi ultimi tempi nel nostro liceo.
Essendosi constatato che il nostro Consiglio di Istituto è estremamente squalificato nei giudizi degli studenti e che la sua attività, scarsa e frammentaria, non è stata mai in grado di affrontare con decisione i problemi che si pongono urgentemente agli studenti, invitiamo, come giovani, responsabili ed attivi all’interno della scuola, l’organismo rappresentativo a discutere la presente situazione e a prendere una posizione chiara riguardo ai ben noti avvenimenti.
Auspichiamo pure una folta partecipazione di tutti gli studenti del nostro istituto.
COMITATO PROVVISORIO DELL’UNIONE DEGLI STUDENTI MEDI – NUCLEO DEL GALVANI[32]
Nella assemblea risultò vincente la linea del movimento, che di fatto portò alla disgregazione dell’OR, come è possibile ricostruire attraverso i verbali delle adunanze dei professori, nei quali per la prima volta è fatta chiara menzione del movimento studentesco.
Prima di prendere in esame i documenti in questione, è bene osservare che i verbali costituiscono un interessante punto di osservazione non solo in relazione ai fatti, ma anche sotto il profilo della dialettica tra ribellione giovanile e reazioni del mondo adulto, fondamentale per una definizione reciproca delle rispettive identità. Se il ’68 dei giovani assume un carattere pubblico, il ’68 degli adulti appare meno visibile e privato – più legato, se vogliamo, alla sfera degli arcana imperii, e probabilmente per questo è un ambito di studio meno esplorato.[33] Il primo riferimento esplicito ad “agitazioni che alterano l’equilibrio della scuola” risale al 13 marzo del 1968, quando Marcelli riunì un Consiglio di presidenza, costituito dal preside e da quattro docenti, “per prendere in esame la situazione determinata nell’Istituto a seguito delle agitazioni studentesche in corso”. Il preside informò i docenti presenti “circa le richieste formulate dagli allievi, o, per meglio dire, dei promotori dell’agitazione: una minoranza, portavoce di ben individuate tendenze politiche”. Il consiglio decise di “respingere le richieste di mettere a disposizione le aule per lo svolgimento di assemblee: e ciò a salvaguardia del patrimonio, di cui risponde il Preside, e a norma di recenti disposizioni ministeriali; inviare ai genitori degli allievi una lettera-circolare perché collaborino ad un ordinato e sereno andamento degli studi dei figli; convocare il Consiglio dei Professori, in data 15 corr. mese, al fine di prendere in esame le petizioni degli allievi, secondo l’impegno assunto dal sig. Preside.”[34]
La lettera circolare, cortesemente perentoria, fu inviata ai padri degli alunni nei giorni successivi:
Egregio Signore,
sono costretto dalle circostanze a rivolgermi a Lei personalmente, perché nella qualità di genitore di un alunno del nostro ginnasio-liceo voglia prestare una fattiva collaborazione per impedire che e agitazioni studentesche in corso oggi a Bologna come in altre città, degenerino in atti di indisciplina, che oltre a esporre gli allievi ai pericoli derivanti da possibili disordini, turberebbero in modo irreparabile l’andamento dell’anno scolastico.
E’ mio dovere ricordarLe che nelle scuole medie di ogni ordine e gradi vige un Regolamento, che io e i Professori siamo obbligati a rispettare e a fare rispettare. Non godiamo, infatti, delle particolari autonomie universitarie: da noi una interruzione dell’attività scolastica dovuta ad occupazioni studentesche, avrebbe come inevitabile conseguenza a termini di legge l’applicazione di sanzioni disciplinari che possono giungere in caso estremo, fino a far perdere l’anno scolastico agli alunni che si sottraessero arbitrariamente al normale ritmo della scuola.
Sono sicuro della Sua comprensione e del Suo senso di responsabilità, di cui ho avuto prove molteplici nei colloqui personali svoltisi nell’Istituto, e confido quindi nella sua collaborazione più efficace per ricondurre al sereno studio il Suo figliolo, semmai se ne fosse allontanato per questi deprecabili motivi.
Il Preside (Prof. Umberto Marcelli)[35]
Il collegio dei professori si tenne in seduta straordinaria due giorni dopo il collegio di presidenza con lo scopo di “discutere e deliberare sulla situazione, che si è venuta creando nell’interno dell’Istituto in seguito alle agitazioni studentesche.” Si tratta di un documento significativo per comprendere in modo più chiaro cosa era avvenuto durante la riunione studentesca dell’11 marzo. Dopo aver ricordato che da anni esisteva nell’Istituto un organismo rappresentativo studentesco (OR) che egli aveva mantenuto perché modellato sui principi della Costituzione e quindi adatto “ad educare e addestrare i giovani all’esercizio della libertà non scissa dal senso di responsabilità democratica”, il preside Marcelli mise al corrente il Consiglio del fatto che l’attività dell’organismo rappresentativo era stata interrotta da alcuni “estremisti che avevano voluto trasformarlo in un’assemblea, che esercitasse, qualunque fosse il numero dei suoi componenti, la rappresentanza di tutti gli studenti del liceo-ginnasio Galvani”. Lunedì 11 marzo l’assemblea aveva decretato “tra vivaci contrasti” la fine dell’OR e aveva formulato una serie di richieste sulla quali il preside intendeva confrontarsi con i docenti.
Il Preside, a questo punto, legge integralmente un manifesto ciclostilato distribuito dagli studenti estremisti, dal quale risulta che questi pretendevano che la scelta dei libri di testo fosse concordata fra gli studenti e i professori di ogni corso, che rappresentanti degli studenti entrassero nelle commissioni di scrutinio, che le punizioni fossero inflitte dopo aver sentito i rappresentanti degli studenti, che l’idoneità ad insegnare dei nuovi professori fosse accertata da una commissione composta da studenti e professori di ogni corso, che si procedesse alla riforma dei programmi e degli istituti dell’ordine classico e dell’ordine tecnico ecc. ecc..[36]
Il preside si dichiarò preoccupato del fatto che il gruppo estremista potesse arrivare a gesti estremi come l’occupazione dell’istituto (va tenuto presente che in quei giorni era stato occupato il liceo Righi) e, dopo avere osservato che le richieste degli “estremisti” erano in contrasto con l’ordinamento scolastico vigente, ricordò i doveri del preside e dei docenti nel mantenimento della disciplina, leggendo integralmente una recente circolare. Al legalismo del preside rispose un intervento apertamente favorevole al dialogo con gli studenti:
Apertasi la discussione, padre Franchini, insegnante di religione, dichiara di aver partecipato alla adunanza tenuta dagli alunni l’11 marzo nell’aula magna dell’Istituto e il 13 successivo alla facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Bologna, e di aver constatato la perfetta correttezza degli studenti estremisti del liceo-ginnasio Galvani, mentre a suo giudizio gli altri studenti, che votavano contro la proposta di occupazione dell’Istituto, si erano comportanti in modo vivace e scorretto. La prof. Prati, insegnante di matematica e fisica nel corso C, a sua volta riconosceva la larghezza con la quale il Preside quest’anno ha lasciato funzionare l’organismo rappresentativo studentesco, e dichiara che a suo giudizio la vigente costituzione della repubblica italiana non vieta la ricerca di nuove forme democratiche quale la democrazia diretta col regime assembleare. [37]
Il preside, stando ai verbali, non entrò nel merito degli interventi di padre Franchini e della prof.ssa Prati, ma suggerì che si potessero accettare in una forma mitigata le richieste degli alunni, consentendo assemblee di corso pomeridiane con il coinvolgimento dei docenti, commissioni per discutere il rapporto scuola-società nella riforma dei programmi degli Istituti medi superiori, sempre sotto la vigilanza dei professori, e prevedendo in via sperimentale e a titolo informativo e consultivo la partecipazione di due alunni alle sedute del Consiglio di Amministrazione della Cassa Scolastica. Il preside dichiarò quindi di essere disposto a permettere agli alunni di usufruire dei locali scolastici nelle ore pomeridiane, a condizione che non manchi mai l’assistenza di almeno un professore. Venne invece respinta la proposta di pubblicare il giornalino dell’istituto senza alcuna revisione da parte del preside, o dai professori da lui delegati, in quanto con un nuovo riferimento alla normativa si sottolineava come la responsabilità penale e civile degli organi di stampa scolastici cadesse sul preside stesso. I professori votarono a favore, con soli cinque voti contrari.
Con l’eccezione di Olga Prati e padre Franchini, gli altri docenti evidentemente non proposero interventi significativi in merito alle questioni sollevate dagli studenti o alla ricostruzione del preside, che insisteva nell’etichettare come “estremisti” i promotori delle rivendicazioni. I verbali riportano piuttosto alcune considerazioni di professori preoccupati dell’aggravio di lavoro che comportava l’onere della vigilanza. Salutando, il preside “rivolge un fervido invito tutti gli insegnanti di esercitare la loro alta missione nello spirito della libertà maggior possibile dell’educando e del rispetto della sua personalità. Egli informa che soltanto così le richieste più sane degli studenti potranno avere la loro concreta soddisfazione”.[38]
La scelta di mediare da parte di preside e docenti venne interpretata dagli studenti, con un eccesso di entusiasmo, come un riconoscimento della legittimità di alcune loro rivendicazioni, e non come una scelta ad maiora mala vitanda. Seguì la convocazione di una assemblea generale al Galvani per il giorno 26 marzo 1968:
STUDENTI!
Dopo l’approvazione da parte del consiglio dei professori delle richieste formulate dall’assemblea e il riconoscimento del regime assembleare come metodo democratico in grado di esprimere la volontà degli studenti, è necessario mostrare la serietà del nostro impegno con la realizzazione delle nostre proposte.
Qual è l’importanza dei risultati raggiunti?
Innanzi tutto nel fatto che il corpo insegnante ha riconosciuto la necessità di una più consistente partecipazione degli studenti al governo dell’istituto. Con ciò gli insegnanti hanno dimostrato di essere disponibili a un discorso di riforma.
Da ciò discende una maggiore democratizzazione della vita dell’istituto per quanto riguarda la scelta delle forme di associazionismo studentesco e soprattutto per quanto riguarda l’accresciuta possibilità di incidere sulla nostra formazione attraverso la discussione su di un piano di parità con i professori nelle assemblee di corso. A noi ora il compito di impegnarci seriamente sui problemi che noi stessi abbiamo proposto.
CONVOCHIAMO QUINDI L’ASSEMBLEA GENERALE PER MARTEDI’ 26 MARZO ALLE ORE 15.30 NEI LOCALI DELL’ISTITUTO COL SEGUENTE ORDINE DEL GIORNO:
- COSTITUZIONE DELLE COMMISSIONI DI LAVORO RIGUARDANTI: A) SCUOLA E SOCIETA’ B) METODI ASSOCIAZIONISTICI DEGLI STUDENTI C) RIFORMA DEI PROGRAMMI
- CONVOCAZIONE DELLE ASSEMBLEE DI CORSO
- VARIE ED EVENTUALI
UN GRUPPO DI STUDENTI DEL LICEO GALVANI[39]
La primavera cittadina era intanto costellata di manifestazioni legate alle vicende internazionali: il 27 marzo si manifestò per il Vietnam, il 12 aprile per l’attentato a Rudi Dutschke, poi esplose il fermento del maggio francese. Gli studenti più attivi del Galvani ricordano un periodo fervido di assemblee, riunioni notturne per scrivere i volantini, partecipazione a riunioni ed eventi. Altri ricordano di essere tornati a sgobbare sui libri per le ultime, decisive, interrogazioni. L’anno scolastico si concluse senza tensioni significative con la dirigenza e con il premio a Marco Biagi per un tema pubblicato sui Quaderni del Galvani del 1969.[40] La percezione da parte dei professori fu che la mediazione, concessa in alcuni casi obtorto collo, avesse consentito di arginare, almeno temporaneamente, l’onda d’urto delle proteste studentesche.
4. L’autunno caldo del Galvani: l’allontanamento di padre Franchini
Il casus belli che diede avvio a nuovi conflitti e nuove rivendicazioni fu determinato dal mancato rinnovo dell’incarico a padre Franchini, il docente di religione del corso C che era intervenuto a favore degli studenti nel corso della riunione dei professori del marzo 1968. Al Liceo Galvani erano presenti da diversi anni quattro docenti di religione: padre Franchini (dal 1961, con 5 ore di insegnamento nel corso C e due ore nel corso H), don Angelo Carboni, don Colombo Capelli e don Tullio Contiero. Padre Franchini apparteneva all’ordine dei dehoniani ed era caporedattore de Il Regno, rivista dei dehoniani fondata nel 1956 a Bologna, che aveva abbracciato la linea del Concilio Vaticano II ed era in sintonia con l’ala progressista della Chiesa rappresentata dal cardinale Giacomo Lercaro (vescovo e poi cardinale a Bologna dal 1952 sino al 12 febbraio del 1968), il quale aveva partecipato ai lavori del Concilio. Il primo gennaio del 1968 Lercaro aveva pronunciato un’omelia, probabilmente concordata con il suo stretto collaboratore Giuseppe Dossetti, nel corso della quale aveva condannato con decisione i bombardamenti sul Vietnam:
La dottrina di pace della Chiesa (messa sempre meglio a fuoco da papa Giovanni, dal Concilio, da papa Paolo) per l’intrinseca forza della sua coerenza, non può non portare oggi a un giudizio sulla precisa questione dirimente, dalla quale dipende oggi di fatto il primo inizialissimo passo verso la pace oppure un ulteriore e forse irreversibile passo verso un allargamento del conflitto. Intendo riferirmi, come voi ben capite, alle insistenze che si fanno in tutto il mondo sempre più corali – e delle quali si è fatto eco il Papa nel recentissimo discorso ai cardinali – perché l’America (al di là di ogni questione di prestigio e di ogni giustificazione strategica) si determini a desistere dai bombardamenti aerei sul Vietnam del Nord. [41]
Le dimissioni di Lercaro, poche settimane dopo, vennero intese come il segno di una frattura all’interno della Chiesa e si parlò di “cardinale destituito”. Con l’uscita di scena di Lercaro subì un rallentamento il processo di radicale rinnovamento ecclesiale in atto nella diocesi bolognese e subentrò Monsignor Antonio Poma, nominato Arcivescovo di Bologna.
Gli studenti e le studentesse ricordano padre Franchini come una figura di notevole calibro morale e intellettuale, un “prete che parlava del mondo”.[42] Il preside Marcelli non apprezzava invece la presenza di un docente così aperto e sensibile alle rivendicazioni studentesche. Il 16 aprile 1968, poche settimane dopo l’intervento di padre Franchini nel collegio dei professori, annunciò al provveditore che intendeva ridurre le cattedre di religione in ottemperanza a quanto era stato fatto rilevare dal provveditore stesso in una lettera del 3 marzo 1967, in cui lamentava il “frazionamento, tra più insegnanti, delle ore di religione, con conseguente aggravio di spese per L’Erario”.[43] Il vecchio preside Campanelli aveva in quella circostanza risposto a tali rilievi sulla gestione amministrativo-contabile del liceo difendendo lo status quo e osservando che il frazionamento delle ore di religione dipendeva dalla Curia, considerato che due dei quattro insegnanti erano parroci e dunque non potevano sostenere un carico di ore più impegnativo.
Già poche settimane dopo il suo insediamento, il 12 ottobre 1967, Marcelli aveva convocato gli insegnanti di religione don Carboni, don Capelli, padre Franchini e don Tullio Contiero, ricordando loro che erano tenuti a svolgere il programma stabilito dalla competente autorità per le singole classi e a consegnare una sollecita relazione sui programmi svolti: “L’insegnante di religione non invada il campo assegnato ad altre materie di insegnamento, limitandosi a quei soli riferimenti di filosofia o di letteratura che realmente sono richiesti al migliore intendimento dei vari problemi teologici. Questo per non creare malumori o polemiche nocive alla scuola e alla buona armonia tra i professori”; inoltre, invitava a non “toccare quelle opinabili questioni politiche e sociali che non hanno diretta attinenza con l’insegnamento ufficiale della Chiesa in proposito”. Il discorso era chiaramente, sebbene non apertamente, rivolto a padre Franchini (ma probabilmente anche a don Contiero), il quale, oltre a fare riferimenti a “questioni politiche e sociali” certamente non secondo i dettami della Chiesta tradizionale, proponeva un insegnamento attento ai collegamenti con le altre discipline. [44]
Giunti alla fine dell’anno scolastico 1967/68, nel corso del quale il preside aveva potuto verificare di persona la posizione di padre Franchini, Marcelli scrisse al provveditore inviando il ritaglio di una lettera comparsa su Settimana del clero 19, rivista dei dehoniani, in cui un anonimo lettore raccontava di avere assistito a una messa pasquale officiata per gli studenti, contestando tono e contenuti dell’omelia del celebrante. Benché nell’articolo non fossero presenti indicazioni utili a individuare la circostanza precisa e l’identità dell’officiante, il preside si dichiarava certo del fatto che si trattasse della messa scolastica pasquale officiata in San Giovanni in Monte da don Carboni, insegnante dei corsi A e B, per gli studenti del Galvani. La “lettera firmata” di un “incaricato di religione” di un istituto bolognese, intitolata “Una Pasqua di ghetto”, accoglieva l’invito di SdC a descrivere e giudicare l’esperienza della Pasqua degli studenti, a patto che si garantisse l’anonimato dello scrivente non per tutela personale, ma per non coinvolgere i suoi colleghi in una discussione che doveva restare sui principi. Il tono della lettera era fortemente critico: “Alla fine di quella celebrazione sono rimasto costernato. Una ripulsione indescrivibile cercava di impedirmi la recita del “Credo” dopo l’omelia, data dal celebrante con un piglio così paternalista e tanto poco cristiano da lasciar dubbiosi che quella fosse stata per davvero una riunione di fede. Ho provato anch’io l’impulso di gridare tra la folla il grido dello scandalo “Io non sono d’accordo!”. La lettera proseguiva in questo modo:
Nelle sue parole la grande virtù cristiana si ridusse a una puntigliosa e sterile contestazione apologetica, culminata nella frase (forse sfuggita, ma sempre significativa) “Piuttosto che non avere fede, sarebbe meglio essere degli insetti”. In fondo quel celebrante, con tanto di paramenti, non ha fatto altro che denigrare quelli che non sono “nostri”, facendo somigliare il cristianesimo a una setta, e pretendendo il riconoscimento dei vantaggi sociologici culturali e politici che a questa setta dovrebbero competere. La religione è stata ridotta così a quel che meno dovrebbe essere: un’organizzazione sociologica, un “gruppo di pressione” con le sue tradizioni e i suoi interessi; e forse per la prima volta ho capito quei teologi moderni che condannano la religione come il deterioramento della fede. Non si può ridurre tutto il cristianesimo a un fatto esterno di appartenenza, a una professione socio-culturale, a un fenomeno di massa, insomma.[45]
La lettera si concludeva affermando che “adoperare le strutture profane per farne un nuovo braccio secolare per la pratica religiosa, mi sembra equivoco anche per un altro verso. Non si può adoperare l’autorità scolastica, il tempo scolastico, l’organizzazione scolastica, per “compellere intrare” nella chiesa. La pastorale religiosa dovrebbe trovare un suo spazio accanto alla scuola, non dentro la scuola, che è laica, e per di più neutra.”
Il preside si mostrò anche in questa occasione piuttosto pragmatico: spiegò al provveditore che la lettera era “da attribuirsi senza possibilità di dubbio a p. Enzo Franchini” e si astenne dall’ “entrare nel merito delle questioni liturgiche o teologiche”. Si dichiarò però preoccupato “per il prestigio degli insegnanti di Religione e dell’insegnamento stesso di tale delicata disciplina” a causa di tale “contrasto di idee tra insegnanti di Religione” ormai trapelato tra insegnanti e alunni del liceo. In realtà si trattava di un contrasto che, come ben spiegava l’autore della lettera, non riguardava certo i singoli, ma che lacerava in quella fase il tessuto della Chiesa stessa.[46] Il preside non si limitò a tale segnalazione, ma preparò il terreno a una iniziativa più drastica: il 28 giugno 1968 scrisse a Monsignor Catti, direttore dell’ufficio catechistico diocesano, ricordando la comunicazione del provveditore del 3 marzo 1967che invitava il preside a eliminare il frazionamento delle ore di religione per evitare il conseguente aggravio di spese per l’erario, e chiese la riduzione a tre insegnanti tenendo conto di una graduatoria che vedeva primo don Carboni, poi don Capelli, seguito da don Contiero e infine da padre Franchini. Si trattava di una graduatoria stilata senza alcuna indicazione sui criteri utilizzati, ma che veniva spiegata nelle righe successive:
Si ricorda la particolare posizione di p. Franchini, autore dell’articolo intitolato “Pasqua di ghetto”, apparso sul giornale “Settimana del clero” n. 19 del centro dehoniano. Da questo articolo risulta con tutta chiarezza quanto disgraziatamente era emerso durante l’anno scolastico 1967/68, e cioè che p. Franchini non soltanto dà al suo insegnamento un carattere ultra moderno (e ciò interessa relativamente al sottoscritto) ma si è messo in aperto contrasto con i suoi confratelli rimasti al metodo tradizionale, e specialmente con Don Angelo Carboni. […] P. Franchini si è anche mescolato alle fazioni studentesche, fiancheggiando apertamente le fazioni più estremiste, senza tenere conto che le gravi esigenze di quei mesi imponevano al preside e al corpo insegnanti un atteggiamento di prudenza e la massima compattezza. Sembra al sottoscritto che soprattutto agli insegnanti di Religione non spetti il compito di mescolarsi alle fazioni, che purtroppo guidano oggi la scuola e ne mettono a repentaglio il buon funzionamento.[47]
La risposta di Monsignor Catti venne formalizzata il 5 agosto, evidentemente dopo un colloquio vis a vis cui viene fatto riferimento nelle righe finali della lettera, accogliendo le richieste di Marcelli e proponendo un incaricato scelto tra i padri della compagnia di Gesù che avevano richiesto di poter ritornare per l’insegnamento religioso al liceo Galvani, insediato nell’antico collegio gesuitico. Il 29 agosto 1968 Marcelli espresse la sua soddisfazione precisando: “L’unico punto su cui mi permetto di insistere è che i nuovi insegnanti proposti offrano tutte le garanzie possibili perché i deprecati episodi del passato non abbiano a ripetersi”.[48]
Padre Franchini, avuta notizia della decisione da Monsignor Catti, chiese inutilmente un confronto con il preside, che di persona non aveva mai manifestato obiezioni dirette alla sua persona. In una lettera dell’8 ottobre 1968 indirizzata a Marcelli si dichiarò certo che il rifiuto al suo reincarico “a parte il pretesto giuridico che lo rende formalmente ineccepibile” doveva “in realtà considerarsi una vera defenestrazione, per motivi ideologici e fors’anche politici. L’ho saputo da fonti estranee alla scuola, ma sicuramente ben informate. So che la mia protesta non significherà nulla sul piano operativo. Ma sua piano morale – permetta la schiettezza – mi sono sentito semplicemente indignato.” Padre Franchini precisava poi di non avere ricevuto alcuna osservazione da parte del preside durante l’anno, per cui non aveva avuto modo di spiegarsi e difendersi. “Al franco incontro lei ha preferito l’intramontabile metodo della compromissione tra le due autorità, quella scolastica-civile e quella religiosa. Meglio comunque prendere la strada modesta e pulita dei Padri Cristofori, che non compromettersi nei complotti tra i vari Padri Provinciali coi relativi Conti Zii.” Il Padre concludeva sottolineando che non intendeva appoggiare le “piccole imperite mosse di alcuni studenti che so vogliono dimostrare dissenso dal suo provvedimento. Ma personalmente e direttamente io non posso non protestare.” Il preside rispose laconico e tagliente il 10 ottobre: “Le sue false affermazioni e le sue illazioni non meritano alcuna confutazione o discussione. Ho trasmesso copia della sua lettera, a me diretta in data 8 ottobre u.s., a sua ecc. il vescovo e a mons. Catti per le deduzioni che essa merita”.[49]
La questione era quindi giunta a conoscenza degli studenti e il 10 ottobre il preside scriveva preoccupato all’arcivescovo Poma e a Monsignor Catti dichiarando che “un gruppo di alunni di questo Liceo, con tutta evidenza sobillati da p. Franchini, già sta organizzando disordini”. Infatti gli studenti, in quel periodo già mobilitati per vicende internazionali come il massacro di piazza delle Tre culture in Messico, avevano convocato un’assemblea generale degli studenti con un frettoloso comunicato:
Studenti!
Per lunedì 14/10/1968 è convocata l’assemblea generale degli studenti del Galvani alla sala de’ fiorentini in corte Galluzzi n. 6 (di fianco alla libreria Cappelli). Ore 14.30. Ripresa delle attività e dei gruppi di lavoro in seguito alla nuova situazione venutasi a creare nel liceo.
Intervenite!
Il gruppo organizzatore[50]
Questa prima assemblea era stata evidentemente autorizzata dal preside, il quale aveva affittato la sala per l’occasione forse per evitare che un’assemblea nei locali scolastici potesse degenerare in una occupazione, viste anche le proporzioni che la questione stava assumendo. Infatti il 17 ottobre 1968 l’Avanti!, nelle pagine nazionali, diede spazio all’affaire Franchini raccontando dell’assemblea:
Padre Enzo Franchini, redattore capo de Il Regno, l’interessante rivista dei padri dehoniani di Bologna, contro i quali si sono appuntati gli strali degli elementi conservatori della Curia romana, è stato esonerato dall’incarico di insegnante presso il liceo classico “Galvani”. E’ proprio il caso di dire che anche i laici ora si mettono a dare una mano alle forze del contro-Concilio, una operazione che è in atto – come abbiamo avuto occasione di scrivere alcune settimane addietro – contro il centro dehoniano di Bologna. Questa volta gli ambienti più retrivi del cattolicesimo italiano non hanno avuto alcuna ingerenza nella faccenda, in quanto l’esonero è stato attuato dal prof. Marcelli, preside del “Galvani”. Si tratta di un docente che, dai suoi studenti, è considerato più che un uomo di destra. In difesa di padre Franchini sono intervenuti oltre quattrocento studenti del liceo, sul poco più di mille che compongono l’intera scolaresca.
E’ del tutto evidente che la vicenda aveva mobilitato un numero consistente di alunni, come confermano le testimonianze. Nell’articolo si fa riferimento alle motivazioni giuridiche del provvedimento, spiegando che esso:
è però viziato dall’atteggiamento che il preside ha sempre avuto nei confronti di padre Franchini. Sulla rivista Il Regno padre Franchini ha avuto il coraggio di trattare con grande apertura mentale problemi difficili come quello del divorzio e della pillola, oltre che quelli del Vietnam e della pace. Uno stesso atteggiamento aperto e soprattutto leale, padre Franchini ha sempre assunto nei confronti degli studenti del Galvani con i quali si è comportato come un padre e come un vero educatore. La cosa non è mai piaciuta al preside. Pare addirittura che tra i due si siano avuti degli scontri. Recentemente, parlando in una classe, il Marcelli avrebbe detto: “Io rispetto la tonaca, non l’uomo”. Poi è venuto l’esonero. A questo punto gli allievi del Galvani sono insorti e una delegazione si è recata in Curia per chiedere un passo presso il prof. Marcelli a favore di padre Franchini.
Il giornalista prosegue spiegando che il preside aveva negato agli studenti l’aula magna per tenere un’assemblea “nonostante la consuetudine”, proponendo di utilizzare una sala esterna di cui la scuola avrebbe pagato il costo.
Al termine dell’assemblea gli studenti hanno votato un documento nel quale esprimono il senso di “disagio venutosi a creare per la mancanza di padre Franchini” e questo per “il clima di dialogo che l’insegnante di religione riusciva a stabilire con i giovani e per la pronta risposta alle loro iniziative extra scolastiche”. Gli studenti nel loro documento, dopo aver affermata e “verificata la possibilità per ogni insegnante di interpretare come crede opportuno la materia del proprio insegnamento nell’ambito dei programmi ministeriali e di svilupparla secondo la propria personalità” hanno chiesto il ritorno di don Franchini. Da questo documento, scritto da dei ragazzi che, pur non avendo ancora vent’anni, hanno già dei problemi morali e politici da affrontare, risulta in modo chiaro quale tipo di insegnante sia padre Franchini. Un insegnante che con gli allievi dialogava e che sapeva dare, pur nell’ambito dei programmi, una risposta non completa, ma certamente onesta e non ipocrita, alle loro esigenze “extra scolastiche”.
Il 18 ottobre l’Unità, nella cronaca locale, sotto il titolo “La manifestazione silenziosa degli studenti del Galvani”, racconta che gli studenti hanno protestato per l’allontanamento di padre Franchini nella piazza di San Giovanni in Monte:
La “rivolta” degli studenti nei confronti delle strutture autoritarie della scuola di classe e di chi queste strutture rappresenta si estende anche negli istituti secondari. […] Ieri sono stati di scena gli studenti dei licei cittadini Galvani e Righi. In mattinata un folto gruppo di ragazzi del Galvani ha preso il destro dalla messa di apertura dell’anno scolastico per manifestare, con cartelli e sfilando in corteo nelle strade, il disagio diffuso nell’istituto in seguito all’allontanamento dell’insegnante di religione prof. Franchini. Gli interrogativi sollevati dall’episodio sono già stati ampiamente richiamati dal nostro giornale. Gli studenti con la loro pacifica manifestazione hanno inteso porre questi interrogativi alla viva attenzione dell’opinione pubblica. “Chiedetevi perché lo facciamo” dicevano infatti, significativamente, alcuni cartelli. Altri cartelli riportavano gli articoli apparsi ieri sul “caso” Franchini sul nostro giornale e sull’Avanti!. La civile e silenziosa protesta è iniziata quando circa centocinquanta studenti si sono seduti nella piazzetta di S. Giovanni in Monte. Al termine di questo “sit-in”, i ragazzi hanno tentato di sfilare in mezzo alla strada, ma ne sono stati impediti da un cordone di agenti della polizia politica. Nessun incidente è sorto. Anche se momenti di tensione non sono mancati quando alcuni giovani sono stati avvicinati con il tono di chi intende aprire un interrogatorio minaccioso. Ma lo slancio degli studenti ha impedito ogni degenerazione e il corteo ha sfilato ugualmente sotto i portici fino alla sede dell’istituto che è stato presidiato tutta la mattina da agenti in borghese. Una delegazione ha chiesto di essere ricevuta dal preside il quale era assente perché indisposto. La volontà degli studenti è stata, pensiamo, ugualmente avvertita da chi ha l’autorità per fare tornare il prof. Franchini.
Il 21 ottobre Marcelli inviò al provveditore le copie degli articoli de l’Avanti! e de l’Unità sulla questione, che aveva ormai assunto un rilievo nazionale e che veniva ricondotta a un conflitto interno alla Chiesa, oltre che alle vicende del movimento studentesco. Nel dossier del preside era presente anche un articolo aggressivamente polemico pubblicato in novembre dal periodico nazionale ABC, che spesso aveva dato spazio ad articoli sulla Chiesa del dissenso.[51] L’articolo, corredato da una foto grottesca dell’arcivescovo Poma, “inviato nella capitale emiliana per far dimenticare ai “rossi” il cardinale Lercaro”, denuncia senza mezzi termini, mescolando informazioni corrette ad altre piuttosto deformate, una persecuzione della Curia contro “Il Regno” la cui redazione, composta da quattro preti e sette laici, “rischia di trovarsi a spasso e i sacerdoti di finire al Congo in qualche missione” perché “scrivono costantemente la verità anche su argomenti tabù volutamente ignorati o, comunque, deformati dalla Chiesa. Ci riferiamo alla presa di posizione nei riguardi del divorzio, della “pillola” e su certe ingerenze elettorali di vescovi di campagna che controllavano i plichi elettorali per controllare chi non aveva votato Democrazia cristiana”.
E’ indubbio che l’allontanamento del giovane sacerdote è stato una rappresaglia della Curia bolognese contro padre Franchini per le sue coraggiose battaglie condotte dalle colonne del periodico cattolico. Di questo avviso sono anche gli allievi del Liceo Galvani, i quali, appena appresa la notizia dell’allontanamento del loro insegnante, sono scesi in sciopero contro la decisione del provveditore che ha subito da parte della Curia (e particolarmente da monsignor Catti) una vera e propria imposizione. Abbiamo parlato con alcuni allievi del Galvani. I loro commenti sono amari. “Hanno cacciato via padre Franchini perché era un prete moderno”, dice uno. Una ragazza incalza: “Il nostro professore di religione aveva detto sì alla “pillola””. Un coro di altri studenti: “Non solo aveva detto sì alla “pillola”, ma anche al divorzio!”. Padre Franchini è un prete moderno, come del resto lo sono tutti coloro, sacerdoti e laici, che collaborano a Il Regno, quindicinale edito dai padri dehoniani, che da anni, imperterrito, continua a stimolare un certo processo di rinnovamento all’interno della chiesa e del movimento cattolico. L’ormai notissima (e in Vaticano temutissima) rivista bolognese pubblica in uno degli ultimi numeri con intento volutamente e scopertamente polemico, sotto il titolo “La contestazione e i suoi limiti”, esplosivi documenti riguardanti l’occupazione della cattedrale di Parma: prima quelli che riguardano i contestatori e poi quelli degli organi ufficiali della Chiesa”.[52]
Possiamo ricavare qualche informazione su questa fase della mobilitazione studentesca anche grazie alla lettera scritta da una docente al preside per giustificare la sua presenza alle assemblee non autorizzate degli studenti.[53] L’insegnante spiegava di avere assistito a due assemblee degli studenti in ottobre “senza lontanamente immaginare di fare cosa riprovevole e a Lei sgradita”, “spinta dal desiderio di conoscere il contenuto delle confuse rivendicazioni studentesche e convinta che i professori debbano il più possibile interessarsi ai problemi degli scolari.” Aveva saputo delle assemblee dagli annunci dello stesso preside per radio e ricordava che egli stesso aveva preso in affitto la sala dei Fiorentini. La docente faceva poi riferimento a una seconda assemblea tenutasi nella sala Mozart, di cui aveva avuto notizia dalla nipote ginnasiale. Solo una volta giunta sul posto venne a sapere che il preside aveva “ritirato la sua approvazione all’incontro”, ma assicurava di non avere mai preso la parola, esortando invece i suoi alunni a “uscire dal loro atteggiamento passivo e a reagire esprimendo il loro parere sull’azione dei pochi contestatori che pretendevano arbitrariamente di rappresentare tutto il Galvani.” Per questo “provai un senso di doloroso stupore quando Lei alla fine di ottobre mi chiamò per esprimermi la sua riprovazione e mi invitò a non assistere più ad altre assemblee senza il Suo consenso”.
Al di là delle considerazioni sulla condizione di soggezione della docente, risulta chiaro dal racconto che il preside aveva ritirato il suo consenso a una seconda assemblea, accendendo la miccia delle agitazioni studentesche:
GRAVE ATTO AL LICEO GALVANI
L’autorità scolastica ha ritenuto bene RIMANGIARSI la parola e non riconoscere ciò che il consiglio dei professori aveva l’anno scorso riconosciuto, e cioè: L’ASSEMBLEA GENERALE e I GRUPPI DI STUDIO. Questo grave atto di autoritarismo, che si inquadra in una linea ben precisa seguita dal preside MARCELLI, rappresenta l’ennesimo tentativo di REPRIMERE CON OGNI MEZZO le istanze democratiche degli studenti. Noi dobbiamo rispondere a questi tentativi in realtà SQUALLIDI e tipici di tempi non ancora troppo lontani con UN’AZIONE UNIVOCA tendente al riconoscimento dei nostri diritti.
E I NOSTRI DIRITTI OGGI SONO
assemblea generale
gruppi di studio
cioè in un solo termine POTERE ALL’ASSEMBLEA
Non dobbiamo farci intimidire dai recenti fatti accaduti in tutta Italia, ma di questi prendere atto e da questi partire per condurre una lotta unita e decisa contro tutte le forme di repressione scolastica.
QUI NON SIAMO AL MAMIANI!
UN GRUPPO DI STUDENTI DEL GALVANI[54]
Da questo momento, anche sull’onda dell’occupazione al liceo Mamiani che restituisce impulso al movimento degli studenti medi in tutta Italia, si assiste a una climax di eventi che porta il liceo alla ribalta bolognese per le proteste studentesche, eventi sommariamente evocati dalla docente impegnata a giustificarsi con il preside: a proposito del rimprovero per essere stata presente alle discussioni svoltesi al Galvani da giovedì 7 novembre, precisa di essere stata presente solo venerdì 8 e lunedì 11 e in entrambe le occasioni, arrivata come sempre alle 10.10, non aveva trovato scolari in classe perché “sparsi per la scuola in assemblee varie”, dove erano presenti altri docenti che “replicavano alle affermazioni dei “contestatori”.” Il lunedì si era inoltre fermata a scuola dopo l’orario per “rendermi conto di persona di come si svolgeva l’ “occupazione” e l’intervento della polizia” e non, come suggerito da una collega e una impiegata, per parteggiare per i ragazzi, come poteva far intendere il fatto che scambiasse qualche parola con i ragazzi.”[55]
E’ chiaro che per diversi giorni, almeno da giovedì 7 a lunedì 11 novembre, ma con fasi alterne anche nelle settimane successive, la situazione era completamente sfuggita di mano a preside e docenti. Gli ex studenti ricordano giorni di sit-in, assemblee, lezioni autogestite, in un clima di condivisione giocosa non privo di momenti di tensione, come quando giunsero le notizie di violenze e arresti della polizia nei confronti di studenti di altre scuole. I quotidiani locali aiutano a ricostruire l’escalation: il 7 novembre 1968 l’Unità faceva riferimento a un sit-in di protesta al Liceo Galvani che aveva coinvolto circa 150 studenti i quali:
hanno inscenato una democratica manifestazione di protesta in risposta alla decisione del preside di non riconoscere l’assemblea generale e di non concedere le aule per i gruppi di studio. I giovani si sono radunati, durante l’intervallo, nell’ampio corridoio di fronte alla presidenza, alcuni seduti per terra, sessanta circa, il resto in piedi. Uno degli studenti ha dato lettura alla mozione di protesta contro l’autoritarismo e le attuali strutture discriminatrici della scuola; al termine dell’intervallo tutti sono rientrati ordinatamente nelle loro aule.
L’articolo prosegue per evidenziare:
fino a che punto giunga la volontà di immobilizzare con ogni mezzo, a partire dal ricatto delle interrogazioni fino a quello delle sospensioni, la poderosa spinta delle istanze democratiche degli studenti. Il preside Marcelli è giunto al punto, per impedire ai ragazzi di comunicare fra loro tra piano e piano, e di salire in presidenza a presentare le loro richieste, di chiudere a chiave la porta del primo piano del liceo durante l’intervallo. Si tratta di una misura grottesca oltre che repressiva. Ma forse il professor Marcelli non si è ancora reso conto che una chiave non basta per fermare le idee.
L’8 novembre su Il Resto del Carlino si parla della contestazione degli studenti medi che dilaga e coinvolge Righi, Aldini Valeriani, Galvani e tecnico:
Al liceo Galvani, dove fin dall’inizio dell’anno l’atmosfera è assai tesa, un gruppo di agitatori, come li ha definiti il preside prof. Marcelli, tentavano di serrare l’ingresso ai ragazzi, fra i quali coloro che volevano entrare si sono organizzati in “falange” e hanno sfondato il cordone di sbarramento. La polizia “stava a guardare”, come ha detto il preside, non essendo mai intervenuta. Secondo le fonti ufficiali gli scioperanti non erano più di 200, mentre più di 900 ragazzi erano regolarmente a lezione. Stando ad altre fonti invece quelli fuori erano certamente di più. All’ora di uscita un nuovo cordone di scioperanti che erano tornati per sbeffeggiare i “crumiri”.[56]
Lo stesso giorno l’Unità ha toni decisamente più drammatici e un punto di vista piuttosto difforme, a partire dal titolo: “Aggrediti gli studenti medi a Imola e al liceo Galvani”. Si parla di 50.000 studenti medi presenti alla manifestazione promossa da Righi, Galvani, Aldini e ITIS e del corteo che ha attraversato il centro per quattro ore, sostando poi davanti al provveditorato per chiedere il riconoscimento dell’assemblea e dei gruppi di lavoro. Il corteo era poi giunto di fronte al Galvani “dove in mattinata erano avvenuti scontri tra polizia e studenti”, scontri che vengono poi raccontati in aperta antitesi rispetto al resoconto del Carlino, propenso a riferire la versione del preside Marcelli secondo il quale la polizia non era intervenuta: “Alle 8 circa, infatti, alcuni gruppi di neo-fascisti avevano provocato, dinanzi al Galvani, i giovani che facevano il picchettaggio. L’intervento della polizia è stato violento e, guarda caso, riguardava esclusivamente i giovani che protestavano democraticamente la loro volontà di rinnovamento. Due di essi sono stati fermati e condotti in questura, e quindi rilasciati verso le 14”.[57]
Figura 15
Il 9 novembre l’Unità nazionale torna sul tema delle agitazioni degli studenti medi bolognesi col titolo “Deserte le medie bolognesi”, cui segue un articolo in cui si fa riferimento al Galvani, spiegando che i giovani si sono rifiutati di presentare la giustificazione per lo sciopero del giorno prima e non hanno preso parte alle lezioni: “Infatti la grande maggioranza di essi (circa settecento) ha dato luogo a varie assemblee nelle classi che sono poi sfociate verso mezzogiorno in una assemblea generale”. In questi giorni il preside Marcelli, in occasione di un sit-in, aveva convocato a scuola i padri degli alunni sperando che potessero convincere i figli a desistere dalla protesta.[58]
Il 10 novembre l’Unità dà ampio spazio alla notizia della solidarietà espressa dalla Giunta comunale bolognese verso gli studenti in lotta, mentre lo stesso giorno nella cronaca di Bologna del Resto del Carlino si parla di incidenti nelle vie del centro fra studenti e automobilisti. Il giorno dopo l’Unità fa riferimento alla maturità e autodisciplina degli studenti in lotta, quasi in risposta all’articolo della testata concorrente il giorno prima, e il 12 novembre il titolo della cronaca locale è “Un’altra vigorosa e matura giornata di lotta degli studenti degli istituti medi cittadini”. L’articolo denuncia le violenze della polizia sugli studenti medi e per quanto concerne il Galvani precisa: “Ancora la polizia è intervenuta al liceo Galvani dove stamani praticamente non si sono svolte le lezioni mentre gli studenti si riunivano in assemblea. Iniziava quindi la occupazione della scuola, ma poche ore dopo la forza pubblica entrava nell’istituto e costringeva i ragazzi ad uscire.” Lo stesso giorno Il Resto del Carlino parla di agitazioni degli studenti delle scuole medie e di scontri con la polizia all’istituto magistrale Albini, aggiungendo: “La polizia è intervenuta, senza che avvenissero incidenti, per “liberare” il liceo classico “Galvani” e la sezione staccata di via Regnoli del liceo scientifico Fermi.”
I ricordi degli studenti presenti al tentativo di occupazione, durato solo sino al primo pomeriggio, sono confusi e in contraddizione tra loro. L’iniziativa fu probabilmente mossa dall’indignazione prodotta dalla notizia del pestaggio della polizia nei confronti delle giovanissime studentesse delle magistrali. Gli occupanti, rimasti una ventina o poco più alla conclusione di una mattinata di assemblee, si trovavano in un’aula del primo piano con affaccio su via Castiglione e dalla finestra controllavano i movimenti all’esterno, aspettando l’arrivo della polizia, che non tardò a intervenire su richiesta del preside. Si trattò di un incontro incruento e surreale nella sua banalità: i poliziotti in borghese entrarono nell’aula (secondo alcuni la porta era chiusa e i poliziotti bussarono), il funzionario spiegò molto gentilmente e pacatamente che stavano commettendo un illecito e gli studenti si convinsero senza troppe resistenze ad uscire, ma alcuni si fecero sollevare di peso.[59] E’ piuttosto evidente la disparità di trattamento riservata agli studenti del Galvani rispetto agli studenti di altre scuole che in quei giorni avevano subito aggressioni brutali.
Sul Resto del Carlino del 13 novembre si annunciava che dopo i disordini sarebbe restato chiuso per due giorni l’Itis e che cinque giovani studenti medi si erano recati dal provveditore con le richieste degli studenti in lotta, che insistevano sull’assemblea, volevano conoscere i motivi per cui non veniva concessa, chiedevano le dimissioni dei presidi che avevano chiamato al polizia e del comandante dei carabinieri, la scarcerazione degli studenti arrestati nei disordini e nessun provvedimento contro gli studenti scesi in lotta.[60] Nell’articolo si aggiungeva inoltre che:
Un gruppo di un cinquantina di studenti del Galvani, per finire, ci ha inviato una lettera nella quale si afferma che “già da parecchi giorni davanti al liceo si verificano manifestazioni organizzate da gruppi di studenti, vuoi universitari, vuoi liceali stessi, che tentano di impedire, a chi ne ha intenzione, di recarsi con la necessaria tranquillità a frequentare i corsi regolari di lezione; detti gruppi di dimostrazione impediscono, o meglio tentano di impedire, altresì il regolare svolgimento del corso di studio.
Gli studenti invitavano a utilizzare i mezzi necessari per bloccare i disordini, minacciando di astenersi dalle lezioni che non potevano frequentare con serenità. E’ chiaro che gli studenti del Galvani erano lacerati tra coloro che aderivano con convinzione o comunque simpatizzavano con il movimento, gli indifferenti e coloro che si opponevano con tenacia ai disordini, spesso spalleggiati dalle famiglie.
Questa la cronaca sommaria di quelle settimane concitate, che oltre alle agitazioni studentesche avevano registrato nuovi motivi di dissenso e lacerazione all’interno della Chiesa, come dimostra la vicenda dell’Isolotto a Firenze. La situazione imponeva naturalmente una riunione del Consiglio dei Professori che si tenne il 15 novembre 1968. Il preside esordì chiedendo da parte di tutti i professori la massima collaborazione, particolarmente importante in una situazione di emergenza come quella determinata dal movimento degli studenti. Come in altre occasioni, il preside ricordò la responsabilità assegnata a tutti loro dal Ministero della Pubblica Istruzione nei confronti degli alunni, affermando che l’applicazione della legge da parte del Preside non doveva produrre negli insegnanti atteggiamenti di assenteismo o di ostilità (in precedenza aveva invitato i docenti, a proposito del problema delle assenze a “ridurre ai casi di assoluta necessità, invitando tutti ad anteporre le esigenze della scuola ad ogni altra considerazione”). Si coglie dunque un clima di tensione tra docenti e dirigenza. Il preside continuò:
Nella scuola […] ognuno deve sapersi spogliare delle proprie personali convinzioni, fare aperta professione per un partito politico, propagandone le idee, non solo è un malcostume scolastico perché opprime le coscienze e tradisce la fiducia delle famiglie, ma si oppone altresì al principio informatore della scuola italiana di Stato, la quale fin dalle sue origini, si ispirò al concetto di scuola aperta a tutti i cittadini di tutte le fedi e di tutti i partiti. E’ solo seguendo il principio morale e politico della libertà che la scuola attua la sua funzione educatrice, non coarta le coscienze, lascia libera la scelta all’alunno stesso, differenziandosi così da altri tipi di scuola compresa la scuola confessionale.[61]
Dopo la reprimenda implicita ai docenti, il preside passò immediatamente a considerare il fronte degli studenti, insistendo sulla presenza di forze estranee dalle quali gli studenti si facevano trascinare ed esprimendo la convinzione che le concessioni passate (si riferisce a quelle di marzo) avevano placato momentaneamente la situazione, ma che ora credeva che ogni altra concessione non avrebbe sortito alcun effetto perché ad ogni nuova concessione sarebbero seguite nuove richieste. Chiarita la linea intransigente da lui auspicata, Marcelli lesse poi una mozione degli studenti presentatagli negli ultimi giorni e mise in evidenza l’inattuabilità delle pretese in essa contenute, in quanto, se accolte, “ne deriverebbe la paralisi della vita scolastica”. In particolare si soffermò sulle questioni del riconoscimento giuridico dell’assemblea e della concessione dei locali per le riunioni di gruppo, ricordando che il riconoscimento giuridico dell’assemblea degli studenti era un atto che esulava dalle sue competenze e dai suoi poteri, e che l’utilizzazione dei locali per le riunioni di gruppo doveva essere fatto unicamente a fini didattici e scolastici e in ore che non coincidessero con l’orario delle lezioni. Osservava poi che sulle richieste avanzate dagli studenti medi avrebbe dovuto prendere posizione a breve il Parlamento: “Il Sig. Preside esprime l’opinione che, ove il Parlamento accettasse le richieste avanzate dal movimento studentesco, la scuola perderebbe la sua libertà e diventerebbe una scuola di parte, ma che tuttavia si adatterebbe a tale decisione del Parlamento”. Si mostrò inoltre preoccupato per i genitori esasperati e per le tensioni tra gli studenti.
Una docente a quel punto chiese chiarimenti sulla questione di padre Franchini, ma non ottenne una risposta (oppure non fu verbalizzata). Il preside si limitò ad osservare che nell’assemblea studentesca tenutasi a inizio anno in Corte Galluzzi si era decisa una campagna contro “la sua propria persona, con volantini, manifesti, articoli inviati a giornali”. Aggiunse poi che non era stato negato nulla di quanto concesso nel precedente anno scolastico, ma che erano piuttosto gli studenti a non mostrarsi coerenti. Il preside ribadì che l’assemblea non era contemplata dalla legge, sebbene qualche circolare ministeriale suggerisse un margine di tolleranza verso i giornalini scolastici. Un’altra docente si lamentò del fatto che di fronte all’emergenza il preside si fosse affidato al Consiglio di Presidenza (non sono tuttavia presenti verbali di tali riunioni) e non al Collegio dei Professori che si “sono sentiti lasciati da parte e non sono stati consultati”. In questo clima di tensione, la prof.ssa Prati, che peraltro era presente alla seconda assemblea per cui il preside aveva ritirato l’autorizzazione (evidentemente dopo aver appreso che nella prima era stato additato come responsabile della defenestrazione di padre Franchini), invitò a ripercorrere gli eventi a partire dalla riunione dei professori del 15 marzo 1968, “in cui il Sig. Preside pose in discussione le richieste degli studenti ed avanzò il suggerimento, accettato dal Collegio, di accogliere tutte quelle che non si scontrassero con precise norme legislative. Furono accolte le richieste relative all’assemblea, ai gruppi di studio, e alle assemblee di corso.” La Prati osservò che dopo tale collegio e tali concessioni l’agitazione studentesca si era calmata e tali strumenti non erano stati utilizzati con frequenza, se non verso la fine dell’anno. Le risultava che fosse attivo un gruppo di studio a cui lei stessa era stata invitata e che verso la fine dell’anno si era riunita un’assemblea per discutere i risultati del lavoro di gruppo. All’inizio dell’anno si era tenuta un’assemblea nella sala dei Fiorentini appositamente fissata dalla scuola, presente il prof. Giordano, che aveva potuto verificare l’ordinato svolgimento della discussione. Non riteneva dunque che fossero presenti elementi per revocare le concessioni e “se si fosse permesso agli studenti di proseguire con le loro libere attività non si sarebbe data l’agitazione di questi ultimi giorni”. Era inoltre opportuno convocare subito il Collegio con il riproporsi delle agitazioni che “nascono da una giusta esigenza di rinnovamento della scuola” in quanto “i tempi sono maturi per il riconoscimento del libero associarsi degli studenti e del più ampio dibattito dei problemi all’interno della scuola, come dimostra il fatto che è stata convocata una commissione de Senato per esaminare un progetto di legge per l’esercizio dei diritti democratici degli studenti.”[62]
A questo punto la prof.ssa Grandi intervenne in sostegno del preside osservando che quanto osservato dalla collega Prati:
non giustifica atti di aperta ribellione compiuti da insegnanti contro l’autorità del preside, né tanto meno l’azione svolta dagli stessi docenti per istigare gli alunni alla violenza e alla ribellione. Gli attuali movimenti degli studenti delle scuole medie sono diretti non solo contro la scuola ma anche contro la famiglia e minano pertanto alla base la società umana che è fondata sul nucleo famigliare. E’ deprecabile che i giovani oggi vengano educati sul concetto che con la violenza è possibile imporre agli altri le proprie idee, o anche peggio, che con la violenza si possa raggiungere ciò che si ritiene giusto. Le azioni degli insegnanti volte a scatenare nei giovani la violenza sono atti di vera delinquenza.[63]
Il preside, mostrandosi offeso per il fatto che la Prati avesse messo in dubbio la sua esposizione in merito al fatto che non era stata concessa l’assemblea l’anno precedente, osservò che: “L’assemblea che ebbe luogo alla fine dello scorso anno scolastico non fu convocata per discutere le conclusioni dei gruppi di studio ma per decidere questioni amministrative relative alle attività del cineforum. Quanto alla riunione della Sala dei Fiorentini all’inizio di quest’anno, in realtà essa, che doveva servire per l’organizzazione delle attività culturali degli studenti, in effetti è stata rivolta contro di lui, per tentare il suo linciaggio attraverso comunicazioni alla stampa in relazione al caso di padre Franchini.”
Tale conflitto di narrazioni, che ebbe ripercussioni anche nelle settimane successive, vide vincente la versione fornita dal preside, il quale propose di votare una mozione che venne approvata dal collegio, salvo l’astensione della prof.ssa Prati:
Il Collegio dei Professori del Liceo-Ginnasio “L. Galvani” di Bologna, riunito in seduta plenaria sotto la presidenza del Preside il giorno 15 novembre 1968, dopo aver ampiamente discusso l’anormale situazione determinatasi nella scuola in seguito alle agitazioni studentesche ancora in corso, constatata l’ampiezza e la gravità della stessa, rivolge un pressante appello alle autorità responsabili perché impartiscano chiari ed immediate direttive, che permettano di superare le difficoltà in cui si trovano attualmente insegnanti e capi di Istituto nell’espletamento dei loro compiti ed auspicano che in merito sia colmato al più presto dal parlamento l’attuale vuoto legislativo.[64]
Dopo questa sostanziale dichiarazione di stallo e impotenza di fronte alle sollecitazioni del dissenso studentesco, non resta che lasciare la parola a padre Franchini, che non ebbe modo di intervenire a suo tempo nella discussione con i colleghi. Concluderemo la ricostruzione delle vicende del liceo fino all’anno scolastico 1969/70, proponendo una riflessione complessiva su quanto emerso, in un successivo articolo.
Intervista a padre Franchini
Poi c’è il retroterra. Avevo la stima dei ragazzi, non facevo assolutamente accenno a questioni politiche se non generalissime. La mia intenzione sin da quando ho messo piede al Galvani era di mostrare come la dottrina profonda, non il catechismo, portava alla valorizzazione dei valori costituzionali. Mi fermavo a quelli perché a quello dovevo limitarmi in fatto di politica. Per me non era questione di insegnare una Verità, ma una Bellezza. Io insisto su questo perché la Bellezza è il pieno della verità, una verità non è abbastanza vera se non include il pathos umanistico che ha fatto l’Europa e un certo gusto della nostra cultura, che è sapida, bella. Al tempo non era facile dirlo, gli ambienti cattolici insistevano piuttosto sulla dimensione veritativa del fatto religioso. Io insistevo invece su Dio come Amore, Cuore, non Testa. Ho scritto un libro, successivamente, per gli insegnanti di catechismo: lo vorrei ritirare e bruciare perché non vedo il Cuore a sufficienza. Si vede già l’impostazione, ma era ancora preso dalla veridicità, non partivo dal centro. Facevo lezioni sulla base dei titoli del catechismo, ma un rapporto non si affetta, si vive completo, compresi i litigi, compresi i drammi. La passione dello scontro è una grande passione che qualifica l’uomo.
Con i ragazzi mostravo come la religione avesse a che fare con le materie di un liceo umanistico, tenevo molto ai collegamenti con la filosofia, la storia e la letteratura. Mostravo le vicinanze. I ragazzi allora erano molto variegati dal punto di vista religioso, figli di un certo ambiente benestante e generalmente cattolici come educazione (poco come pratica), molto interessati, attenti ai valori, ai collegamenti con la filosofia e la letteratura; ci sono stati anche conflitti perché è parte della pancia.
Lei come si collocava rispetto al fermento della Chiesa del periodo?
Giovanni XXIII nel promuovere il concilio riprese alcune questioni sollevate dalla rivista per cui scrivevo, Il Regno, che invitava la Chiesa ad aggiornarsi. Vedevo la chiesa troppo signoria, i parroci troppo depositari del fatto cristiano, i fedeli come buoni praticanti obbedienti e non come artefici dell’esperienza cristiana, mentre tra i grandi santi del Novecento molti erano laici, almeno all’inizio. Mi sentivo vicino per esempio a don Mazzolari, che mi ha ispirato tanto con il suo Adesso. In seminario entravano poco queste riviste, ma la sintonia con quel fermento che si stava diffondendo nella Chiesa era per me totale e difficile da spiegare, come è difficile spiegare il fatto che il ‘68 sia scoppiato presso tutte le nazioni europee nello stesso momento.
Lei coglie un nesso tra le inquietudini della Chiesa del periodo e il ‘68?
Senza dubbio, se non altro perché nell’esperienza religiosa come quella degli scout certi temi diventavano problemi, questioni, mentre i partiti erano classisti ed economicisti. Il concilio ha avuto influenza notevole sugli umori del ‘68, sulla pancia, non sulla testa. Ma il ’68 è un fenomeno europeo e il concilio ha avuto più seguito in Italia e Spagna (nonostante Franco), meno nel resto di Europa. Ai protestanti non interessava. Come spiegare che il ‘68 si dispieghi simultaneamente intorno agli stessi temi personalisti, cuore, pancia? Non so dirlo, come non so dire perché adesso prevale l’individualismo e la politica vincente è quella che fa valere gli interessi del singolo. Una volta c’era la classe, il concetto di comunità è una contaminazione felice del concilio. La richiesta di comunità era un superamento della classe e un recupero del bisogno di non essere individui nudi e crudi. La comunità spezza il classismo per cui nascere in un certo ambiente segna un destino: è un rapporto tra persone. Questo discorso passa i limiti dell’influenza ecclesiale perché valeva anche in ambito laico.
Una delle cose che la scuola ha curato poco è stato insegnare i valori: non ci si è resi conto che la dinamica culturale si basa su bisogni fondamentali: uguaglianza, libertà, fratellanza, il diritto di essere un soggetto arbitro del proprio destino – questioni non solo politiche, ma spinte educative che non vedo presenti. Si parla poco di Amore, molto di amorazzi, che è un altro paio di maniche; al tempo si parlava di peccato e si metteva l’amore sotto l’egida del peccato. Si parla poco del rapporto con l‘altro, dell’empatia di cui tratta una filosofa che amo teneramente, santa Edith Stein. L’empatia è una forza sociale, che la Stein, allora laica, trova nella comunione. Ha scritto il libro sull’empatia da laica, da atea: se arrivassimo a scoprire la necessità di radicarci non intorno a tesi, ma a esigenze profonde del cuore… la testa serve a regolare, ma è il cuore che spinge il sangue alla testa. Credo di essere stato apprezzato per la facondia, ma soprattutto per il Cuore, per la Bellezza, l’humanitas, i valori, cose per cui combatterei ancora adesso.[65]
[1] Tra i saggi sul movimento in generale, citiamo Marco Boato, Il lungo ’68 in Italia e nel mondo, Editrice Morcelliana, 2018; Ferrarotti, Il ‘68 quarant’anni dopo, EDUP, 2008; Marcello Flores, Alberto De Bernardi, Il Sessantotto, Il Mulino, 2003; Robert Lumley, Dal ’68 agli anni di piombo, Giunti Editore, 1998; Peppino Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori riuniti, 1988. Sul ’68 a Bologna si veda in particolare Adagio, Billi, Rapini, Urso (a cura di), Tra immaginazione e programmazione. Bologna di fronte al ’68, Punto Rosso, 1998.
[2] Giuliano Berti Arnoaldi Veli, diplomato nel 1970, ha conservato una serie di volantini e scritti dell’epoca che mi ha gentilmente messo a diposizione.
[3] Umberto Marcelli, storico del Risorgimento, fu preside del liceo Galvani dal 1967 al 1969 prima di ottenere un incarico all’Università.
[4] Verbali collegio dei Professori dal 1967-68 al 1981-82, pp-14-15 (archivio storico Liceo Galvani).
[5] Lo ricorda Patrizia Pulga, diplomata nel 1968, cresciuta in un ambiente internazionale (il padre viveva a Parigi) e particolarmente insofferente all’ambiente chiuso e provinciale del Galvani (intervista archivio personale).
[6] Foto archivio digitale Liceo Galvani.
[7] Lo studioso Andrea Cerica ricorda l’ambiente del liceo Galvani negli anni Trenta nel suo articolo “Pasolini e il Liceo Galvani” in corso di pubblicazione sulla rivista Studi pasoliniani, nr 14.
[8] Di un’atmosfera di rimozione “togliattana” parla ad esempio l’ex alunno Giorgio Graffi (diplomato nel 1968), il quale ricorda che l’argomento era un tabù e che i programmi di storia si fermavano alla prima guerra mondiale (intervista archivio personale).
[9] Lettera indirizzata al preside Marcelli, corrispondenza riservata, anno scolastico 1967/68, archivio storico liceo Galvani.
[10] Lo ricorda, tra gli altri, Sandra Soster, diplomata nel 1969. Approdata al Galvani dall’effervescente liceo Parini di Milano, faticò ad adattarsi al nuovo ambiente, descritto come claustrofobico, in stile “salotto della signorina Felicita”. Silvia Evangelisti, diplomata nello stesso anno e compagna di classe della Soster, ricorda che sul muro esterno del Galvani campeggiava la scritta “Galvani scuola di classe”. Enrico Petazzoni, diplomato nel 1970 e uno dei leader del movimento studentesco al Galvani, osserva che “essere poveri o comunisti al Galvani era come avere la lebbra”. (interviste archivio personale).
[11] Una delle descrizioni più vivide di questa scena, che evidentemente si è ripetuta negli anni con lievi variazioni, è fornita da Stefano Cammelli, diplomato nel 1970 (intervista archivio personale).
[12] Verbali collegio dei Professori dal 1967-68 al 1981-82, p. 37 (archivio storico Liceo Galvani).
[13] P.P. Pasolini, “Che cos’è un maestro?”, in Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, “Meridiani” Mondadori, Milano, 1999, p. 2593
[14] Lettera degli studenti del corso F al preside Campanelli nella corrispondenza riservata, anno scolastico 1965/66, archivio storico Liceo Galvani.
[15] Volantino del Fondo Volantini sulle lotte studentesche operaie 1968-70, busta1, Archivio Istituto Parri Bologna.
[16] Andrea Rapini, “Tra università, piazze e fabbriche: cronologia del movimento studentesco bolognese (1967-1969)”, in Tra immaginazione e programmazione: Bologna di fronte al ’68, op. cit..
[17] La condivisione di questo tipo di cultura giovanile, più dell’orientamento ideologico, è il terreno su cui secondo Enrico Petazzoni si definisce un codice comune e prende avvio la partecipazione alle iniziative del movimento da parte degli studenti del Galvani.
[18] Hannah Arendt, Pensieri sulla politica e sulla rivoluzione, in Politica e menzogna, a cura di P. Flores D’Arcais, SugarCo, Milano, 1985, p. 257.
[19] A questo proposito è interessante osservare che Paolo Isola, diplomato nel 1969, sottolinea nella sua rievocazione come risultasse fondamentale l’abilità di costruire una “scena”, riconoscendo a Enrico Petazzoni proprio tale qualità (intervista archivio personale).
[20] Tratto da Cronologia di Bologna dal 1976 ad oggi del sito Salaborsa di Bologna.
[21] Hannah Arendt, op. cit..
[22] Le letture che vengono tradizionalmente connesse al movimento del ’68, da Marx alla scuola di Francoforte, per molti degli intervistati sono esperienze degli anni successivi. Alcuni comunque ricordano gruppi di studio dedicati alla lettura di Lettere a una professoressa e a Marx.
[23] Alla censura imposta al giornalino scolastico, oltre che ad altre iniziative culturali, fanno riferimento Giorgio Orlandi e Gianpiero Ghini, diplomati nel 1969. Stefano Falqui Massidda, diplomato nel 1972, ricorda che le sue esperienze con il teatro sperimentale ebbero infatti luogo al di fuori della scuola (interviste archivio personale).
[24] Marco Biagi, il noto giuslavorista assassinato da un commando delle Nuove Brigate Rosse nel 2002, si era diplomato nel 1969.
[25] Enrico Petazzoni ricorda che rispetto a molti contenuti delle rivendicazioni vi erano alcuni punti di consonanza tra moderati e movimentisti: l’opportunità di promuovere assemblee studentesche e gruppi di studio, l’invito ai docenti a rinnovare la didattica, l’esigenza di proporre riflessioni su tematiche attuali e la lettura di testi di autori contemporanei. Non vi era invece accordo circa i modi e i tempi per ottenere tali concessioni (interviste archivio personale).
[26] E’ indicativo che Enrico Petazzoni, Stefano Cammelli e Francesco Bottino, che nell’autunno del 1969 verranno individuati come i principali “agitatori” e subiranno i provvedimenti disciplinari stabiliti dal collegio, abbiano in comune una sensibilità a questioni sociali maturata nell’ambiente di un cattolicesimo riformista, come molti altri studenti dell’epoca.
[27] Ad esempio sul tema si veda Agostino Giovagnoli (a cura di), 1968: fra utopia e Vangelo. Contestazione e mondo cattolico, Ave, 2000.
[28] Volantino del Fondo Volantini sulle lotte studentesche e operaie 1968-70, busta1, Archivio Istituto Parri Bologna.
[29] Negli anni Sessanta il circolo Pavese ospitava iniziative culturali molto varie che promuovevano il dialogo tra cattolici e marxisti, l’obiezione di coscienza, il movimento pacifista.
[30] Volantino del Fondo Volantini sulle lotte studentesche e operaie 1968-70, busta1, Archivio Istituto Parri Bologna.
[31] Andrea Rapini, op. cit..
[32] Volantino del Fondo Volantini sulle lotte studentesche e operaie 1968-70, busta1, Archivio Istituto Parri Bologna.
[33] Questo tema, poco esplorato, viene accennato da Peppino Ortoleva, op. cit., p. 44.
[34] Verbali collegio dei Professori dal 1967-68 al 1981-82, pp. 18-19 (archivio storico Liceo Galvani). La situazione di crisi fu anticipata da un episodio in sé forse non significativo, ma carico di una marcata valenza simbolica: il 9 febbraio del 1968 il preside Marcelli era stato assalito da un alunno rimproverato per un ritardo che gli aveva sferrato un pugno:
“Egli si accorse che l’alunno […], giunto in ritardo nella scuola, cercava di sfuggire al controllo per entrare ugualmente nell’aula della sua classe. Invitato a fermarsi e a controllare con i suoi occhi, consultando l’orologio situato all’ingresso del 2° piano l’ora, alla quale si presentava a scuola, il suddetto alunno prorompeva in grida, dichiarando di essere in una giornata di nervi tesi e prendendosela col Preside e con lo stesso suo padre. Al Preside, che voleva prenderlo per un braccio e accompagnarlo nell’interno del 2° piano perché, oltre a controllare l’orologio, si calmasse e ritornasse in sé, l’alunno […] rispondeva sferrandogli un pugno e minacciandolo a braccia tese di altre percosse. Il Preside lo espelleva, allora, dall’Istituto e convocava il collegio dei Professori perché deliberasse sui provvedimenti disciplinari da prendere.” L’alunno fu severamente punito con una sospensione sino alla fine dell’anno. “In ultimo il Preside approfitta dell’occasione per raccomandare vivamente ai professori di non abbreviare arbitrariamente l’ultima ora di lezione, provocando, fra l’altro, turbamento della disciplina proprio nel momento dell’uscita delle scolaresche dall’istituto, uscita particolarmente difficoltosa per le condizioni ambientali.” (Verbali del collegio dei professori, pp. 17-18).
[35] Lettera presente nel fascicolo della corrispondenza riservata, anno scolastico 1967/68, archivio storico liceo Galvani.
[36] Verbali collegio dei Professori dal 1967-68 al 1981-82, pp. 19-20 (archivio storico Liceo Galvani).
[37] Verbali collegio dei Professori dal 1967-68 al 1981-82, p. 21 (archivio storico Liceo Galvani). Di Padre Franchini, nato nel 1930, parleremo ampiamente nelle pagine successive. La prof.ssa Olga Prati (1923-2018), storica insegnante di matematica e fisica del liceo, fece parte della Resistenza contribuendo alla liberazione della città di Ravenna. Successivamente fu tra le fondatrici dell’UDI e coordinatrice delle donne dell’ANPI. Dal 1981 al 1984 è stata presidente di Isrebo-Istituto storico della Resistenza di Bologna. Ha pubblicato: Le donne ravennati nell’antifascismo e nella Resistenza, nel volume omonimo, Editore II Girasole, 1978; ha pubblicato inoltre (assieme a Silvio Paolucci) “Il liceo classico “Galvani” di Bologna durante il fascismo”, in Istituto regionale per la storia della resistenza e della guerra di liberazione in Emilia-Romagna, “Annale 3”, 1983; “Scuola e educazione in Emilia Romagna fra le due guerre”, a cura di Aldo Berselli e Vittorio Telmon, Bologna, Editrice CLUEB, 1983. La sua attenzione per le vicende del movimento è testimoniata dal fatto che si mobilitò con altri docenti della provincia interpellando il Ministero per chiedere ragione del provvedimento sospensivo nei confronti del preside del Liceo Parini di Milano, il quale si era opposto all’intervento della forza pubblica contro gli studenti che avevano deciso l’occupazione dell’istituto. La prova del suo interessamento è rintracciabile nella lettera che nell’aprile 1968 il provveditore Gaetano Ranieri di Bologna scrisse al preside Marcelli con l’intento di spiegare il motivo della sospensione (corrispondenza riservata anno scolastico 1967/68). Rispetto alle rivendicazioni degli studenti, la docente mantenne un atteggiamento di distaccata attenzione, dovuta probabilmente anche alla sua adesione al partito comunista, che a sua volta aveva un atteggiamento ambivalente nei confronti della protesta.
[38] Verbali collegio dei Professori dal 1967-68 al 1981-82, pp. 22 (archivio storico Liceo Galvani).
[39] Volantino del Fondo Volantini sulle lotte studentesche e operaie 1968-70, busta1, Archivio Istituto Parri Bologna.
[40] Questa è la ricostruzione della prof.ssa Prati trascritta nel verbale del collegio del novembre 1968 di cui parleremo successivamente.
[41] Omelia del cardinale Lercaro del 1 gennaio 1968, www.dossetti.eu.
[42] Patrizia Pulga lo ricorda come l’unica “persona” da lei incontrata tra i docenti del Galvani; Mauria Bergonzini (diplomata nel 1971), sebbene educata laicamente, apprezzava le sue lezioni che affrontavano temi di attualità come il Vietnam, la contraccezione, la povertà. Enrico Petazzoni osserva: “Nel 1964 Gigliola Cinquetti vince Sanremo e poco dopo noi abbiamo padre Franchini, Bob Dylan e i Beatles in testa”.
[43] Corrispondenza riservata, anno scolastico 1968/69, archivio storico liceo Galvani.
[44] Come afferma egli stesso nel corso dell’intervista da lui rilasciata, riportata in fondo all’articolo.
[45] Qui e oltre si cita dalla lettera in questione pubblicata su SdC, il cui ritaglio è presente tra la corrispondenza riservata.
[46] Corrispondenza riservata, anno scolastico 1968/69, archivio storico liceo Galvani.
[47] Corrispondenza riservata, anno scolastico 1968/69, archivio storico liceo Galvani.
[48] Corrispondenza riservata, anno scolastico 1967/68, archivio storico liceo Galvani.
[49] Il 28 ottobre padre Franchini scrisse al preside per chiarire che non intendeva accusare i suoi superiori religiosi e che credeva nel sostegno del vescovo.
[50] Volantino archivio Giuliano Berti Arnoaldi Veli.
[51] ABC nr. 45, anno IX, p.43. Fondato nel 1960 a Milano, fu uno dei settimanali più controversi e spregiudicati di quegli anni e si avvalse della collaborazione, tra gli altri, di Italo Calvino, Carlo Levi, Lidia Ravera e Claudio Sabelli Fioretti. Dietro alle immagini spesso a forte carica sessuale delle sue copertine, proponeva indagini su politica italiana e internazionale e campagne per i diritti civili.
[52] ABC, p. 44.
[53] Qui e oltre, corrispondenza riservata anno scolastico 1968/69, archivio storico liceo Galvani.
[54] Volantino, archivio Berti Arnoaldi Veli.
[55] Corrispondenza riservata anno scolastico 1968/69, archivio storico liceo Galvani.
[56] L’episodio è ricordato da Enrico Petazzoni, che aveva parlato di fronte agli studenti riuniti in piazza Maggiore prima di sfilare in corteo verso il provveditorato, dove erano stati ricevuti. Nel pomeriggio comincia l’occupazione alle Aldini.
[57] Giorgio Orlandi (diplomato nel 1969) ricorda di essere semplicemente stato trattenuto in questura per poche ore, senza subire alcun maltrattamento.
[58] Sono piuttosto interessanti le reazioni dei padri convocati in quell’occasione: mi soffermerò sulla questione nella seconda parte dell’articolo.
[59] Purtroppo la vaghezza dei ricordi non consente una ricostruzione certa degli eventi, ma tutti confermano che non ci furono violenze.
[60] La priorità della Gemeinschaft sull’individuo si evidenzia anche nell’anonimato che al tempo caratterizzava volantini, dichiarazioni e interviste.
[61] Risaliva a quell’estate l’articolo sul Carlino in cui si denunciava in modo piuttosto grossolano la severità di certi professori “poco adatti all’insegnamento” inclini a giudicare gli studenti sulla base di convinzioni politiche. Si riportava l’intervista a un giovane studente del Galvani, Davide Scutto, che raccontava di essere stato rimandato ingiustamente in storia dell’arte perché “sembra infatti che la signora P. (la professoressa in questione) detesti l’ambiente che io frequento, come tantissimi altri miei compagni di scuola d’altronde, e cioè la gelateria Pino, che è proprio vicina al mio liceo. Più di una volta l’ho vista, quando passava davanti a quel bar, guardarmi male, come se stessi facendo chissà quale porcheria o come stessi togliendo tempo allo studio”. L’allusione è chiara: la gelateria era frequentata, secondo l’opinione comune al tempo, da studenti di destra, e quindi la docente, simpatizzante di sinistra, avrebbe rimandato l’alunno per un pregiudizio politico. Il preside reagì scrivendo una lettera indignata al Resto del Carlino e la professoressa in questione (Rossana Pedrazzi) ricevette una lettera di scuse del padre del giovane. L’episodio, in sé poco significativo, rende conto di un clima complessivo che si respirava al tempo. Il dossier è contenuto nel fascicolo della corrispondenza riservata del preside, anno scolastico 1967/68, archivio storico Liceo Galvani.
[62] Verbali collegio dei Professori dal 1967-68 al 1981-82, pp. 44 (archivio storico Liceo Galvani).
[63] Verbali collegio dei Professori dal 1967-68 al 1981-82, pp. 45 (archivio storico Liceo Galvani).
[64] Verbali collegio dei Professori dal 1967-68 al 1981-82, pp. 47 (archivio storico Liceo Galvani).
[65] L’intervista risale al 14 agosto del 2019.