Il giovane Pasolini: il periodo bolognese
Classe 4 ^ G (2015/16)
Non può non emozionare uno studente del liceo Galvani di Bologna sapere che Pier Paolo Pasolini è stato studente lui pure tra gli stessi corridoi, le stesse aule che abitiamo ogni giorno.
Ci restituisce un ritratto vivo di Pasolini giovane il suo coetaneo Roberto Roversi, libraio. editore e scrittore:
«Ho avuto una sincera amicizia di giovinezza con Pasolini, anche insieme ad altri, ma che fin da allora era piuttosto un incontro culturale che un rapporto di sentimenti; infatti entrambe le volte, quando la tensione del fare si allentò o fu conclusa, ciascuno riprese la sua strada. Non ero suo compagno di classe; Pasolini stava con altri; al Galvani, o intorno al Galvani, non me lo ricordo: ci si trovava più spesso a casa sua. Abitava con la madre e il fratello in un appartamento in via Nosadella; e lì insieme a un suo compagno di classe, Manzoni, recitavamo.
Posso dire che Pasolini era, nel fare le cose che ci interessavano, subito bravissimo; aveva una straordinaria tranquillità e rapidità nello scrivere che non finiva di stupirmi; e cominciò a prevalere su di noi con la straordinaria invenzione del dialetto colorato (come mi sembrava) cioè di una lingua esasperata sentimentalmente ma con tanto trattenuto pudore (una lingua abbastanza celestiale nel senso giusto) dal renderla nuova e diversa, cioè vera e
originale».1
A solo 17 anni, dopo aver anticipato l’esame di maturità e conseguito il diploma presso il liceo Galvani nel 1939, Pasolini s’iscrisse all’università di Lettere; i suoi interessi universitari non si limitavano alla letteratura, ma si ampliavano alla storia dell’arte. Dal 1940 fino al 1942 segue il corso sui “Fatti di Masolino e di Masaccio”, un corso ricco e approfondito ma soprattutto di grande novità sulla relazione tra i due pittori che era stata documentata solo qualche anno prima.
Il suo professore Roberto Longhi (1890-1970) era un storico dell’arte italiano che aveva studiato all’Università di Torino e si era laureato con un’importante tesi su Caravaggio. Egli insegnava già da vari anni quando lo incontrò Pasolini; lo studente ricorda il maestro così: «Longhi era sguainato come una spada, parlava come nessuno parlava. Il suo lessico era una completa novità. La sua ironia non aveva precedenti. La sua curiosità non aveva modelli.
La sua eloquenza non aveva motivazioni. Per un ragazzo oppresso, umiliato dalla cultura scolastica, dal conformismo della società fascista, questa era rivoluzione ».2 Da questa relazione forte nacque l’idea di fare una tesi sulla pittura italiana contemporanea. Può essere interessante leggere qualche riga di un carteggio tra Pasolini, Longhi e il suo assistente Francesco Arcangeli, anch’egli grande storico dell’arte, fratello di quel Gaetano Arcangeli che sarà poeta e
professore del Galvani.
Pasolini da Casarsa scrive ad Arcangeli il 22 settembre 1942: «Colgo l’occasione per dirvi che il prof Longhi non ha accettato di darmi la tesi di laurea sulla “Gioconda ignuda”, però, ed è meglio per me, me l’ha data sulla pittura contemporanea italiana. Non appena arriverò a Bologna comincerò a lavorarvi intorno seriamente».
Ma una settimana prima Longhi aveva scritto ad Arcangeli riguardo a
questa richiesta di tesi: «ho detto non avervi nulla in contrario, in principio; ma esser necessario precisarlo e tenerne presenti le difficoltà di impostazione critica, per nulla minori che in un argomento “révolu”. Tu devi forse conoscere questo signorino. Che cosa conto di farne? Non vorrei perder tempo con un farfallino svolazzante nei prati fioriti della più inebriante e concreta “modernità”. Bisognerà saggiarlo».
Sappiamo poi che per lo scoppio della guerra il primo capitolo della tesi d’arte andò perso e fu poi sostituito da una tesi su Pascoli con altro professore. Ma la passione per l’arte è essenziale per capire tutta la produzione di Pasolini, insieme alla poesia (Rimbaud conosciuto sui banchi del Galvani, Leopardi, Pascoli, i contemporanei) e il cinema frequentato attraverso i CINEGUF, club cinematografici che miravano a radicare nei giovani universitari la cultura e la pratica del cinema, ritenuto dal regime una delle armi
propagandistiche più forti. Un altro strumento di aggregazione importante furono le riviste universitarie.
Nell’estate del ‘41 Pasolini, insieme agli amici ex compagni di scuola Serra, Leonetti e Roversi, aveva progettato la creazione di una rivista di poesia e critica della poesia dal titolo “Eredi”. Purtroppo il sogno di questi giovanissimi scrittori non diventerà realtà; Pasolini comprende che per continuare il suo percorso culturale deve adeguarsi al regime fascista, presenza sempre più incombente nella vita di tutti gli italiani. Inizia così la sua collaborazione col “Setaccio”, la rivista ufficiale del Comando Federale di Bologna della Gioventù Italiana del Littorio (GIL). “Il Setaccio”3 avrà vita breve: ne vengono pubblicati solo sei numeri mensili, dal novembre del 1942 al maggio del 1943. Oltre a collaborare con la rivista, Pasolini è anche tra i fondatori insieme a Giovanni Falzone (direttore), Italo Cinti, Fabio Mauri, Mario Ricci e Luigi Vecchi. Una delle principali cause della fine della rivista, oltre a difficoltà pratiche dovute alla guerra ( reperire carta da stampa), fu proprio la rivalità tra Falzone e il resto della redazione.
Oltre a 12 disegni, Pasolini pubblica sul “Setaccio” 17 scritti tra saggi letterari, di critica d’arte, poesie in italiano e in friulano. Nei suoi articoli Pasolini non prende una posizione politica evidente, in quanto non sarebbe stato possibile visto il clima politico dell’epoca e la connotazione della rivista; tuttavia emergono già i primi segni di antifascismo, soprattutto nella sua connotazione più culturale. In particolare nell’articolo “I giovani, l’attesa” egli rivendica la
totale libertà di espressione dei giovani poeti, ostacolati dal regime fascista.
«Al risveglio è simile la giovinezza, e come il giorno e poco a poco consuma l’alba, che inerte si abbandona al mutamento, così nelle generazioni dei giovani, che a una a una passano, gridano e giungono alla meta, e, giunte, si volgono stupide a guardare chi senza scampo viene a sostituirle, grava un gelo indifferente di silenzio. Ora è la nostra volta».
Con queste parole un giovane appena ventenne si rivolge ai suoi coetanei, invitandoli a rompere questo “gelo”, il gelo dell’indifferenza e del silenzio, ad esprimersi apertamente, a non lasciarsi inibire da niente e nessuno. Un inno alla giovinezza, alla libertà, all’espressione e affermazione della propria individualità «(“Noi non vogliamo avere un nome: o meglio, ciascuno di noi vuole avere il proprio nome”)».
Pasolini rispecchia i pensieri e i desideri di molti giovani che durante il regime fascista si sentivano in qualche modo oppressi, limitati, non liberi di esprimersi liberamente e di poter partecipare alla vita politica e culturale del paese.
Un altro atto che può essere considerato come antifascista è la scelta di scrivere diverse poesie in dialetto friulano, condannato dal regime che non approvava l’uso di “lingue barbare” (tali venivano considerati appunto i dialetti), privilegiando una “lingua nazionale”.
Pasolini affronta il tema ‘intellettuali e guerra’ nell’articolo “Ultimo discorso sugli intellettuali”, pubblicato sul quinto numero della rivista nel marzo del ‘43. A quanto pare si trattava di un tema molto discusso dalla stampa italiana, che creò grandi polemiche: vi era la pretesa, nei confronti degli intellettuali, di prendere una posizione politica riguardante la guerra. Secondo Pasolini non esiste alcun nesso tra intellettuali e guerra e anzi, questo legame può essere visto come “nocivo per la nazione”. Quello di intellettuale deve essere considerato un mestiere e in quanto tale, rispettato. Ma ciò non vuole affatto dire che l’intellettuale debba tacere, che equivarrebbe a «por fine alla sua fatica, a cadere nell’inerzia, nel tedio», a privarsi degli attrezzi del proprio mestiere. Egli dovrebbe anzi sentire la necessità di rispondere alla guerra, di manifestare la propria fede, il proprio entusiasmo. Ma per farlo non è necessaria la propaganda (o, peggio, il silenzio): è sufficiente che gli intellettuali intensifichino il proprio lavoro. Da essi è quindi «lecito pretendere che manifestino la loro fede in nessun altro modo se non intensificando il lavoro che è di loro competenza».
Scrivere, creare, fare poesia, letteratura: questo è il compito degli intellettuali, in questo consiste il loro mestiere, la loro “arma” per rispondere alla guerra. Ancora una volta il giovane Pasolini dimostra la sua grande maturità e consapevolezza politica, rivendicando il suo ruolo di intellettuale, ruolo che stava perdendo il suo significato, travolto, come tutte le cose, dal vortice oscuro della guerra. Eppure Pasolini, nel corso degli anni, prenderà sempre una posizione politica, esprimendo liberamente le proprie idee, per quanto spesso scomode. Questo era il suo grande talento: quello di potere e sapere esercitare più mestieri in maniera adeguata, da intellettuale, a regista, a scrittore di saggi e poesie.
Note
1 Roberto Roversi, “Gioventù di poeta”, Bologna incontri, anno VI, n. 11-12, nov-dic 1975.
2 Questo e i successivi brani di corrispondenza in: Nico Naldini Pasolini, una vita, Einaudi, 1989.
3 Tutti i sei numeri del “Setaccio” sono ora on line e consultabili sul sito della biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna al link http://badigit.comune.bologna.it/books/setaccio/.