“Profezia” di PPP secondo Marco A. Bazzocchi
Grazie per l’invito e per l’occasione di parlare con persone molto giovani di questo aspetto della poesia di Pasolini, non semplice ma ancora coinvolgente.
Questo testo è stato scritto da Pasolini rispettando la sagoma di una croce. Il testo è composto di sette parti che hanno l’inizio in versi brevi, poi un centro di versi lunghi quasi in prosa, e poi di nuovo versi brevi: l’impressione visiva è appunto quella di una croce. Pasolini aveva scritto più di un testo così strutturato in una sezione del libro che prepara fra il ’63 e il ’64, intitolato Poesia in forma di rosa: il titolo è indicativo dell’idea di una poesia che prende forma, ed è probabile che la rosa costituisca un riferimento a Dante, alla candida rosa del Paradiso.
L’ultima sezione del volume si intitolava Il libro delle croci. Poi Pasolini decide di togliere questa sezione, e non è semplice capirne il motivo, ma il testo di cui ci occupiamo, Profezia, era già stato letto e considerato molto importante, perché parla del rapporto tra l’uomo occidentale e l’uomo che arriva da un altro mondo.
Per comprendere il testo è necessaria una sintesi relativa al periodo in cui la poesia viene scritta, l’inizio degli anni Sessanta, un’epoca in cui l’Europa guarda all’Africa secondo una nuova prospettiva. Gli europei conoscevano l’Africa come terra di colonie: Francesi, Inglesi (e anche gli Italiani, benché poche e scomparse dopo la caduta del fascismo) avevano colonie che producevano materie prime a vantaggio dei paesi colonizzatori. Negli anni Cinquanta nascono i primi movimenti di liberazione nei paesi nordafricani: nel testo della nostra poesia si fa riferimento all’Algeria, teatro di una sanguinosa guerra di liberazione dalla Francia. Queste guerre determinano un cambiamento dell’assetto del Mediterraneo: i paesi africani hanno cominciato a rivendicare la propria libertà, dandosi un governo, istituzioni, forme di istruzione indipendente. Il nostro testo ha come sfondo questo tema, che viene piegato da Pasolini a una finalità un po’ diversa, come vedremo.
Pasolini dal ’61 comincia a visitare i paesi che allora venivano definiti “del terzo mondo”: il primo viaggio, che dura più di un mese, lo fa in India, insieme allo scrittore Alberto Moravia; il successivo nell’Africa centrale: questi luoghi resteranno per lui fondamentali. Vediamo perché.
L’Europa sta perdendo elementi importanti: le culture antiche, popolari. Pasolini è interessato fin dalla giovinezza ai dialetti e alle culture folkloriche: culture ai margini dell’Italia, tradizioni popolari molto forti, tracce di civiltà molto lontane, culture agricole, che vivevano di tradizioni secolari. Oggi l’agricoltura è tecnologizzata, ma sessanta anni fa gli strumenti erano ancora quelli tradizionali, secolari: la zappa, la vanga. All’inizio degli anni Sessanta queste forme di vita vengono abbandonate in modo veloce: prevale l’industrializzazione; i figli non vogliono più fare il mestiere dei padri, vogliono andare nelle grandi città – Milano, Torino, Genova – per andare a fare gli operai. Si tratta ancora di un lavoro faticoso, ma che costituisce un avanzamento sociale: la speranza di un appartamento, di una piccola automobile, di una televisione. All’epoca la televisione era un bene per pochi, desiderato da tutti: se in un palazzo una famiglia aveva la tv, tutti si raccoglievano in quella casa; i telefoni erano condivisi tra più famiglie (una situazione difficile da capire per noi, che, abituati alla cultura del benessere – per altro oggi minacciata-, consideriamo normale avere un’automobile, una casa riscaldata, un cellulare).
Questo passaggio, da una cultura contadina a una cultura del consumo, avviene in Italia nel giro di pochi anni. Pasolini si rende conto drammaticamente di questo cambiamento. Quello che lo turba non è che la società stia andando verso forme di benessere, ma che le culture contadine, arcaiche, stiano scomparendo. Per lui questa scomparsa è drammatica perché le considera la base della cultura dei paesi europei. Se tutti vogliono acquisire status, se tutti vogliono omologarsi a uno stesso modello, allora essere diverso dagli altri significa percepirsi in una condizione di inferiorità. Un giovane vuole essere come gli altri: se agli inizi degli anni Sessanta tutti vogliono i blue jeans, chi non può comprarli si sente in una condizione di sofferenza. Questo processo in realtà viene comandato, attraverso meccanismi astuti, da un sistema economico che controlla le nostre vite: oggi il possesso del cellulare, le cui funzioni si fanno sempre più numerose e sempre più sofisticate, condiziona la vita di moltissimi in tutto il mondo; poi il fatto che ogni minuto muoiano di fame moltissimi bambini in Africa non ci tocca: il dolore deve essere vicino, altrimenti non è un tema drammatico.
Pasolini capisce che il cambiamento della società verso un consumismo dilagante avrebbe dato una svolta irreversibile alle nostre vite. Andando in Africa vede che ci sono ancora le antiche tradizioni, ma nello stesso tempo vede che anche gli africani guardano a quello che succede negli Stati Uniti e dunque anche in Europa. Progetta e ambienta in Africa alcuni film: Edipo re viene girato in Marocco; e in Africa ambienta una tragedia, l’Orestiade, basata sulla trilogia di Eschilo, nella quale il figlio del re, Oreste, vive una vicenda drammatica: quando è bambino, il padre Agamennone, di ritorno dalla guerra di Troia, viene ucciso dalla madre Clitemnestra. Per la legge del sangue Oreste, divenuto adolescente, ha il dovere di vendicare la morte del padre uccidendo la madre. A casa è rimasta la sorella, in attesa ansiosa del ritorno del fratello, che solo può compiere quella vendetta che è voluta dagli dei, ma che è mostruosa, in quanto comporta l’uccisione della madre. Questo meccanismo rientra nelle leggi del mondo greco arcaico. Oreste uccide sua madre Clitemnestra, vendica il padre, ma diventa così un matricida. Gli dei non gli concedono pace e mandano delle divinità drammaticamente nemiche, le Furie, in greco Erinni, che perseguono Oreste, rappresentando il senso di colpa. Per la prima volta, ed è fondamentale nella storia dell’umanità, una dea, Atena (dea nata dalla testa di Zeus, che quindi è legata a Zeus in maniera molto stretta) scende sulla terra e dice che Oreste deve essere giudicato da un tribunale di uomini: non saranno più gli dei a decidere, ma uomini. Il tribunale assolve Oreste con il voto decisivo di Atena, quindi le Erinni vengono allontanate; per loro viene costruito un tempio, in modo tale che rimangano, ma in modo non più malevolo: non si chiameranno più Furie, ma Eumenidi.
Pasolini all’inizio degli anni Sessanta traduce l’Orestiade di Eschilo per il teatro. Gli interessa il fatto che il sentimento primordiale di Oreste, figlio di una cultura primordiale che ti obbliga a uccidere tua madre perché lei ha ucciso tuo padre, venga in qualche modo purificato: un tribunale di uomini, guidato da Atena, crea un meccanismo che giudica e assolve Oreste, che dunque non è più il rappresentante di una società tribale, sanguinaria, arcaica, ma il primo uomo di una nuova società. Secondo Pasolini questa trilogia rappresenta un passaggio fondamentale nella storia di tutta l’umanità: il momento in cui la ragione, rappresentata da Atena, riesce a prendere il sopravvento sugli istinti irrazionali. Altrimenti Oreste avrebbe dovuto allontanarsi e punirsi, come fa Edipo. Invece Oreste è un giovane salvato da ateniesi, uomini come lui, i suoi stessi concittadini. Le Furie, l’irrazionale vendetta, vengono tenute sotto controllo. L’irrazionale non viene rimosso (“rimozione” è termine psicanalitico col quale si indica un senso interiore di colpa o vergogna che non viene riconosciuto per non soffrire): le dee vengono infatti tenute nella città e trasformate in forze benevole. Pasolini vede in Oreste il primo giovane che, con la sua storia, modifica l’assetto della cultura occidentale: è l’idea, molto bella, di un giovane che si libera dal legame troppo forte con il passato, ma in realtà non se ne dimentica, e riesce a conciliare l’irrazionalità della sua storia con una nuova forma di razionalità, rappresentata da Atena, che Pasolini ammira, e che è definita nella lingua formulare di Omero la dea “dagli occhi azzurri”. Ora, il nostro testo ha come protagonista un giovane, Alì, che ha, come Atena, gli occhi azzurri. Il sottotitolo è infatti “A Jean Paul Sartre che mi ha raccontato la storia di Alì dagli occhi azzurri”. In realtà Sartre non racconta alcuna storia di Alì, ma Pasolini aveva letto un racconto di Sartre sull’Africa in occasione della guerra di Algeria e usa Sartre come ispiratore per il testo di Profezia. Chi è Alì? Una sorta di Oreste moderno, che si fa portavoce di una rivolta contro le leggi della società. Una storia che viene dall’Africa, ma che coinvolge anche l’Italia.
Manca il tempo di analizzare tutta la poesia, per cui mi soffermerò sui punti che considero più importanti. Partiamo dal titolo, Profezia: che cos’è una profezia? Etimologicamente, una parola che viene pronunciata per anticipare qualcosa. Pasolini vuole dunque lanciare un messaggio, che è l’anticipazione di qualche cosa che potrebbe avvenire. Nella prima redazione del testo c’è una parte, che poi verrà cancellata, nella quale Pasolini dichiara di non potere fare questa profezia:
perché per conoscere il futuro, dovrei conoscere futuro, possedere il presente. Conosco male il passato, possiedo male il presente.
E allora, prosegue Pasolini, sarebbe come la profezia di un bambino, uno che parla senza consapevolezza, oppure di un poeta, solo un poeta, che nessuno ascolta. È un momento di crisi profonda per Pasolini, che sente di non potere più continuare a fare poesia: crisi per il mutamento che l’Italia sta attraversando; e crisi perché si rende conto che la lingua italiana non è più adatta a scrivere poesia, perché ha perso quelle caratteristiche espressive necessarie ai poeti, e sta diventando una lingua tecnologica: è una lingua standard, semplice, che conosce pochi aggettivi e non usa più le metafore, che sono alla base di ogni discorso poetico. Il testo che analizziamo non è molto ricco di metafore, ma ne ha due o tre fondamentali, come vedremo.
Il protagonista è un ragazzo molto giovane: “un figlio”, che ci fa venire in mente Oreste. Questo “figlio” fa un viaggio in Calabria. La poesia inizia come una favola: “Era nel mondo un figlio”. E perché proprio la Calabria? Pasolini c’era stato e aveva scritto un articolo in cui sosteneva che la Calabria era l’unica regione italiana rimasta in condizioni primitive, senza traccia di civiltà. In particolare aveva parlato di alcune città, che ritroveremo nel testo. I sindaci di alcune di queste città si sentono molto offesi e vogliono denunciarlo. Si accese una polemica, che coinvolse quanti non capivano che per Pasolini questa arretratezza era un fatto positivo. Io credo che sia per questo episodio che lui sceglie la Calabria per Profezia.
Questo “figlio” in Calabria vede un mondo arcaico:
era estate, ed erano
vuote le casupole,
nuove, a pandizucchero,
da fiabe di fate color
delle feci. Vuote.
Come porcili senza porci, nel centro di orti senza insalata, di campi
senza terra, di greti senza acqua. Coltivate dalla luna, le campagne.
Le spighe cresciute per bocche di scheletri. Il vento dallo Jonio
scuoteva paglia nera
come nei sogni profetici:
e la luna color delle feci
coltivava i terreni
È un paesaggio deserto: ci sono le casupole, ma sono vuote, i porcili, ma sono vuoti, i campi producono spighe cresciute “per bocche di scheletri”, per i morti. Il “figlio” vede i campi, i luoghi dove vivevano i contadini, deserti: non trova nessuno. Allora Pasolini ci dice che questo “figlio” capisce qualcosa, perché in qualche modo ha la capacità di vedere quello che gli altri non vedono. Troviamo un’immagine poetica molto bella, che non è ancora quella di Alì: Alì verrà dopo. Ci sono tre figure che si alternano nel poemetto, e questo “figlio”, la prima figura, resta senza nome.
Il figlio aveva degli occhi
di paglia bruciata, occhi
senza paura, e vide tutto
ciò che era male
La paglia bruciata degli occhi, che è una metafora, rimanda al mondo contadino e al fatto che questo figlio riesce a vedere “tutto ciò che era male” in questo mondo abbandonato, il segno della fine di questa cultura, di questo mondo. È lui il profeta, perché capisce istintivamente.
Nella seconda croce Pasolini fa un’altra considerazione:
La tragica luna del pieno
sole, era là, a coltivare
quei cinquemila, quei ventimila
ettari sparsi di case di fate
del tempo della televisione,
porcili a pandizucchero, per
dignità imitata dal mondo padrone.
Notate l’espressione iniziale: “la tragica luna del pieno sole”. Logicamente è un nesso insensato, perché o c’è la luna o c’è il sole, ma Pasolini vuol dare l’idea che la luna illumina in modo intenso, tragicamente, tutta questa terra; le chiama “case di fate”, perché sembrano case magiche, uscite da una favola, eppure esistono nel tempo in cui c’è già la televisione. Pasolini mette in luce questo contrasto: in Calabria ci sono queste casette, questi porcili vuoti, e in altri luoghi, o anche in Calabria stessa, ormai è cominciato il tempo della televisione.
È a questo punto che compare la seconda figura: sempre un giovane, che però fa l’operaio a Milano. È il giovane che si oppone a questo “figlio” che ha la capacità di vedere là dove gli altri non vedono.
Ma non si può vivere là! Ah, per quanto ancora, l’operaio di Milano lotterà
con tanta grandezza per il suo salario? Gli occhi bruciati del figlio, nella
luna, tra gli ettari tragici, vedono ciò che non sa il lontano fratello
settentrionale.
L’operaio di Milano, che probabilmente ha abbandonato la sua terra per andare a lavorare a Milano, è “fratello” di questo figlio, è il “lontano fratello settentrionale”: e qui Pasolini vuole sottolineare la distanza, che in qualche modo si sente ancora oggi, fra il Nord e alcuni paesi della Calabria, della Puglia, della Sicilia, in cui sono rispettate tradizioni antiche.
Entriamo ora nel nucleo centrale del poemetto: il “figlio”, che è andato in Calabria e ha visto tutto questo abbandono, si rende conto di qualcosa che invece l’operaio del Nord non capisce più, e cioè che siamo arrivati a una svolta epocale nella storia: “gli occhi bruciati del figlio, nella /luna”, cioè gli occhi bruciati del figlio puntati verso la luna, o addirittura ispirati da questa luna, “tra gli ettari tragici” di tutta questa terra abbandonata, tragici perché abbandonati, “vedono”: quindi gli occhi di questo ragazzo sono i primi occhi che vedono la profezia, che sono consapevoli della profezia. E infatti subito dopo Pasolini scrive che
una storia finiva
in un crepuscolo in cui accadevano
i fatti
Stava finendo la storia per come fino a quel momento era stata concepita. E infatti aggiunge che
il figlio
tremava d’ira nel giorno
della sua storia.
Il “figlio” tremava di rabbia nel rendersi conto che quel momento era la fine della storia di un mondo antico e lunghissimo. Per Pasolini quella storia all’inizio degli anni Sessanta sta finendo. Negli anni Settanta dirà che quella storia è finita: comincia una nuova storia, che lui chiamerà il “dopostoria”, l’avvento di un potere nuovo, quello di una società capitalistica e consumistica, che cambia per sempre le carte in tavola.
E passiamo alla seconda sezione, che è tutta rivolta invece all’operaio del Nord. La seconda sezione è fatta di due croci, evidentemente simbolo di morte, al di là di ogni resurrezione. La sezione si chiama infatti “Libro delle Croci”, perché è il libro del dolore per la morte di un’epoca; e “questo figlio dagli occhi di paglia bruciata” è colui che capisce tragicamente la fine di quell’epoca. In questa terza croce potrebbe iniziare la seconda parte del poemetto: “il contadino calabrese” ormai aveva imparato le nuove tecnologie,
… e aveva abbandonato
le sue casupole nuove
come porcili senza porci
su radure color delle feci.
Vedete come il termine “feci”, gli escrementi, torna sempre: è il colore della terra scura, e Pasolini lo usa per dare proprio anche l’idea di qualcosa di legato alla corporeità, agli animali, all’allevamento delle bestie: per i contadini gli escrementi degli animali sono uno degli elementi fondamentali per la coltivazione di quella terra, che qui viene abbandonata.
Ecco ora il punto fondamentale:
Tre millenni svanirono
non tre secoli, non tre anni, e si sentiva di nuovo nell’aria malarica l’attesa dei coloni greci. Ah, per quanto ancora, operaio di Milano, lotterai solo per il salario? Non lo vedi come questi qui ti venerano?
“Tre millenni svanirono”: non sono semplicemente tre secoli che svaniscono, ma tutta l’epoca della storia precedente. E qui Pasolini inserisce un elemento abbastanza strano: “si sentiva di nuovo nell’aria/ l’attesa dei coloni greci”. Voi sapete che la Calabria era stata colonizzata dai Greci: e allora è come se Pasolini dicesse che devono tornare di nuovo dei colonizzatori, quelli che erano stati lì tanti secoli prima.
E poi si rivolge all’operaio di Milano, anzi è come se il giovane “figlio” si rivolgesse all’operaio di Milano, chiedendogli: tu operaio, tu che vivi nella nuova industria, pensi di poter lottare solo per il tuo salario, o dovresti pensare a una lotta che riguarda tutto il mondo in cui vivi? È un elemento polemico che Pasolini inserisce contro il mondo operaio: dobbiamo lottare solo per l’industria, solo per le fabbriche o dovremmo lottare anche per qualcos’altro? Non dovremmo lottare anche per quello che sta succedendo in questi paesi?
Nella croce seguente, Pasolini dice all’operaio: guarda che tu sei il modernizzatore di un mondo, ma questo figlio che è arrivato in Calabria sa qualche cosa che tu ancora non sai. È lui il portatore della profezia, riassunta nei versi centrali:
Ah, ma il figlio sa: la grazia del sapere è un vento che cambia corso, nel cielo. Soffia ora forse dall’Africa e tu ascolta ciò che per grazia il figlio sa.
La grazia che ha ricevuto questo “figlio”, sapendo, è come un vento che sta cambiando l’assetto delle cose, e questo cambiamento “soffia ora forse dall’Africa e tu/ ascolta ciò che per grazia il figlio sa”. Per grazia, per una specie di influsso che viene dal cielo, sa qualche cosa. Tu, operaio del Nord, tu giovane che hai deciso di andare al Nord, ascolta la profezia del “figlio”, un figlio che non ha nome, e che è come un moderno Oreste, che torna a casa e deve compiere un atto di vendetta per tutto quello che è successo: non deve uccidere la madre, però ha la consapevolezza che è successo qualche cosa di tragico, e deve insegnare qualcosa al giovane operaio. È molto interessante che Pasolini non si metta in prima persona in primo piano: non è lui che parla, vuole che sia un “figlio”, cioè un giovane, che insegna qualche cosa a un suo coetaneo.
Ciò che il “figlio” sa è appunto quello che Pasolini sperava, inutilmente, venisse dall’Africa: sperava che il mondo africano in qualche modo si rendesse libero dall’Europa e trovasse delle proprie regole. Per questo era affascinato dalla storia di Oreste, e la ambienta in Africa e immagina Oreste come un ragazzo di colore: immagina che questo giovane Oreste africano torni a casa e vada, dopo essere stato assolto dal tribunale, a studiare in un’università moderna, che inevitabilmente è un’università fondata dagli americani: questo giovane Oreste viene da una cultura antica, ma sta andando verso una cultura moderna: e per Pasolini appunto la speranza è che questo giovane Oreste riesca a imparare, ma nello stesso tempo non dimentichi il legame forte con la sua terra, con le sue tradizioni: nel film c’è una scena molto strana, nella quale Pasolini incontra un gruppo di giovani africani con cui tenta di parlare, ma loro lo guardano senza capire cosa stia dicendo: questi giovani africani non capiscono il suo discorso perché sono ormai troppo lontani, sono ormai europeizzati o americanizzati.
Torniamo al testo: qualcosa verrà dall’Africa e anche tu, operaio, smetterai di lottare per il tuo salario, per i tuoi diritti, e armerai la mano dei calabresi: ovvero, anche tu diventerai un collaboratore di quello che sta succedendo.
Ora comincia l’ultima parte, costituita dalle tre le ultime croci, dedicate proprio ad “Alì dagli occhi azzurri”, che come vedete è il terzo giovane che compare nel testo. Alì ha gli occhi azzurri, appunto come la dea Atena (mentre il “figlio” ha gli “occhi di paglia bruciata”). È un po’ paradossale che il giovane africano abbia gli occhi azzurri: evidentemente Pasolini crea ancora una volta una specie di figura mitologica. Gli occhi azzurri sono gli occhi di un sapere particolare, di una forma di conoscenza particolare:
Alì dagli Occhi Azzurri
uno dei tanti figli dei figli,
scenderà da Algeri, su navi
a vela e a remi. Saranno
con lui migliaia di uomini
coi corpicini e gli occhi
di poveri cani dei padri
sulle barche varate nei Regni della Fame.
Molti hanno letto questo passaggio proiettandolo su quello che è successo dopo che il testo era stato scritto e succede anche oggi: i grandi flussi di migrazione dall’Africa all’Italia. Però in realtà non dobbiamo confondere le due cose, perché i flussi di oggi hanno tutt’altre ragioni. Qui invece Pasolini immagina che questi africani arrivino in Italia in un certo senso per portare qualche cosa che gli italiani e gli europei hanno perso. Da Algeri queste barche si riempiranno di uomini poveri che vengono dei “Regni della Fame”:
Porteranno con sé i bambini, e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua. Porteranno le nonne e gli
asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali. Sbarcheranno
a Crotone e a Palmi,
a milioni, vestiti di stracci
asiatici, e di camicie americane.
Subito i Calabresi diranno,
come malandrini a malandrini:
“Ecco i vecchi fratelli,
coi figli e il pane e il formaggio!”
Pasolini dunque immagina che dalla Calabria salgano e improvvisamente invadano tutti i paesi che affacciano sul Mediterraneo:
Da Crotone o Palmi saliranno
a Napoli, e da lì a Barcellona,
a Salonicco e a Marsiglia,
nelle Città della Malavita.
Anime e Angeli, topi e pidocchi,
col germe della Storia Antica,
voleranno davanti alle willaye.
(Qui Pasolini mette un termine tecnico, willaye, ovvero le divisioni amministrative dei Paesi dell’Africa). Questi giovani sono visti come “Anime e Angeli”, ma nello stesso tempo anche come “topi e pidocchi”, perché avranno con loro anche i segni della povertà e della malattia: arriveranno portando – questo è un punto centrale- “il germe della storia antica”. Questi fantomatici invasori porteranno con sé qualche cosa che ha a che fare con la nascita o rinascita, il “germe”, e con il mondo antico, qualche cosa che ormai non esiste più in Europa, un’idea della “Storia Antica” che gli europei non conoscono più. E infatti nella croce seguente c’è una descrizione della natura di questi invasori:
Essi sempre umili
essi sempre deboli
essi sempre timidi
essi sempre infimi
essi sempre colpevoli
essi sempre sudditi
essi sempre piccoli
Questi popoli, che sono stati sempre sottomessi a un potere maggiore, adesso arrivano e finalmente portano la rivoluzione. Questa è la profezia, che il “figlio” sbarcato in Calabria legge attraverso i segni del mondo che lo circonda, e che dovrebbe trasmettere al suo coetaneo che invece si trova in una città del Nord: tutti costoro, che sono stati piegati per secoli dall’umiltà, dalla povertà, dalla timidezza, che si sono sempre sentiti sudditi,
dietro ai loro Alì
dagli Occhi Azzurri – usciranno da sotto la terra per rapinare – saliranno dal fondo del mare per uccidere, – scenderanno dall’alto del cielo per espropriare – e per insegnare ai compagni operai la gioia della vita – per insegnare ai borghesi
la gioia della libertà –
per insegnare ai cristiani
la gioia della morte
-distruggeranno Roma
e sulle sue rovine
deporranno il germe
della Storia Antica.
Notate la stessa espressione, “il germe della Storia Antica”: questi invasori arriveranno a Roma e la distruggeranno, e dopo averla distrutta porteranno la forza, la carica vitale della “Storia Antica”.
E ora una immagine quasi surreale:
Poi col Papa e ogni sacramento
andranno come zingari
su verso l’Ovest e il Nord
con le bandiere rosse
di Trotzky al vento …
Il papa, che nel testo si unisce a questi invasori, allora era Giovanni XXIII, che per Pasolini è stato fondamentale, perché è stato il papa che ha cambiato la storia della chiesa, che con il Concilio Vaticano ha aperto il cattolicesimo anche ai laici e ha aperto un dialogo con i non cattolici: un evento epocale, di cui Pasolini, che non era cattolico, ma cattolica era però la sua formazione, si rende ben conto. Le “bandiere rosse” sono sicuramente il simbolo della Rivoluzione russa: ma non a caso viene ricordato Trotzky, che è stato uno dei rivoluzionari più importanti della Rivoluzione russa, che ha combattuto per la rivoluzione, ma che poi, messo da parte da Stalin, dovette abbandonare la Russia e morì in Messico. Viene quindi ricordato un grande rivoluzionario, però sconfitto, rifiutato dal Partito stesso, perché la Russia dopo la rivoluzione vuole ridare un assetto stabile al paese e quindi i rivoluzionari veri, che sono serviti a rompere, devono essere messi da parte. Allora l’idea, molto divertente, è che il papa e questi giovani africani, con le bandiere rosse che indicano la rivoluzione, invaderanno e libereranno l’Europa.
Questa è la parte naturalmente più visionaria della profezia: Pasolini dice al giovane operaio, che sta diventando un borghese, che verrà un momento in cui quello in cui lui crede non ci sarà più, tutte le sue lotte saranno inutili, perché le vere lotte andrebbero fatte su un altro piano, cioè bisognerebbe pensare alle conseguenze della trasformazione in atto.
Questa poesia è in realtà, sotto la forma della “profezia”, un atto d’accusa contro la modernizzazione troppo rapida del Paese: abbandonare le tradizioni, abbandonare tutto ciò che era antico, legato alle culture antiche, sarebbe stato una sconfitta, non subito visibile ma visibile in un tempo a venire, quello appunto profetizzato dentro la poesia, che chiaramente è una croce perché indica un compianto sulla fine di un’epoca.